La
storia che segue, per quanto surreale possa sembrare, è vera ed è successa al
sottoscritto Alessandro Croce, il 9 Novembre 1999.
Tutto ebbe inizio quando, in seguito ad un infortunio al piede subito durante lo svolgimento delle temutissime Gallippiadi (nella fattispecie i 100 metri), fui costretto a chiedere visita per ben 3 volte in una settimana.
Il
medico dell’Accademia infatti, mi concedeva ad ogni visita il pacchetto
standard del piccolo infortunato che consisteva in 2 giorni di EAGA (esenzione
attività ginnico-addestrativa) + 3 bustine di Aulin + ci rivediamo tra un paio
di giorni…
La situazione naturalmente non migliorò di molto e la settimana successiva, quando ormai erano passati almeno una quindicina di giorni dall’infortunio, riuscivo a stento a camminare alla Cozzolino ed a correre alla Annibali: così soffrii un po’ sabato e domenica e strinsi i denti il lunedì ma il primo modulo del martedì parlava chiaro e diceva AGS (attività ginnico-sportiva) una realtà insostenibile per il mio piede.
Eccomi
allora, mio malgrado, di nuovo iscritto nel registro dei chiedenti visita (che
soprattutto le prime settimane equivale più o meno al registro degli
indagati…), con l’intento di mostrare al medico una lastra del piede, fatta
privatamente in ospedale, da cui non si evince fortunatamente alcuna frattura, e
chiedere un’esenzione più corposa per dare così una chanche di guarigione al
mio piede che, dunque, ha solo bisogno di un periodo di riposo…ma la mia
giornata era appena cominciata.
Il
medico, infatti, dopo avermi rapidamente esposto le ragioni che rendevano
inservibile la lastra “civile” e l’occorrenza, invece, di un referto
medico militare attestante l’assenza di fratture, pronunciò la fatidica
frase: “la debbo mandare al Celio”.
“Stia
tranquillo”, aggiunse inoltre con aria quasi paterna, “se la caverà in un
baleno, il tempo andare, fare una lastra e tornare…”.
Preoccupato
da quella gita fuori programma e per nulla confortato dalle rassicurazioni del
medico che, piuttosto, mi diedero l’impressione che stavo andando in un posto
dove era noto il giorno di ingresso ma non quello di uscita, mi preparai per la
missione Celio.
Le
disposizioni in merito alla preparazione mi furono impartite dal Signor Tenente
Maimone che, con l’eloquenza che lo contraddistingue, mi disse: “Voli in
camerata, tuta, scarpe dell’amministrazione, borsa con asciugamano e
biancheria (la cosa mi piaceva sempre meno), solo pochi soldi, niente
portafoglio, niente telefonino, niente di niente.”
Eseguii
e neanche dopo 15 minuti dall’inizio del colloquio con il medico, ero già in
macchina con un maresciallo incaricato di accompagnarmi: destinazione Celio.
Durante
il viaggio, informandomi sulle modalità del rientro in Accademia, scoprii con
piacere che il maresciallo doveva sbrigare alcune cose all’interno
dell’ospedale e che quindi mi avrebbe aspettato per riportarmi indietro appena
fatto.
All’arrivo
quindi, dopo avermi indicato un approssimativo punto di ritrovo ed avermi
lasciato il numero del suo cellulare, il maresciallo si volatilizzò lasciandomi
al mio destino.
La
sensazione che provai fu simile a quella che si prova giocando ad una di quelle
avventure grafiche per computer dove il protagonista viene immerso in un
ambiente sconosciuto e disponendo di un inventario di oggetti limitati deve
raggiungere un determinato obbiettivo.
Mi
trovavo infatti un ambiente abbastanza vasto e a me sconosciuto da cui dovevo in
qualche modo uscire con un referto medico attestante lo stato del piede
disponendo di: una tuta della Guardia di Finanza, una borsa con della
biancheria, una banconota da 50.000 lire, il numero del cellulare del
maresciallo ed un foglio giallastro datomi dal medico dell’Accademia
contenente le indicazioni sulla visita da fare.
Il
gioco ebbe inizio.
Le
prime mosse furono facili: rapido sguardo alla cartina dell’ospedale posta
all’ingresso, ricerca ed individuazione dell’accettazione.
Qui
le cose si misero subito male: c’erano almeno una trentina di militari,
costituenti pressoché l’universalità delle Forze Armate, tutti con in mano
un foglio più o meno come il mio e tutti che si interrogavano sul funzionamento
dell’ufficio di accettazione…dove era possibile scorgere diversi addetti per
compilare un solo modulo, lunghe code di fronte a sportelli vuoti, l’ufficiale
responsabile che appariva e scompariva da tutte le parti.Nel complesso una
incredibile confusione caratterizzava l’ufficio accettazione così come
l’intero ospedale dove centinaia di persone dall’aria sconcertata e dubbiosa
vagavano senza meta da un posto all’altro.
Ci
vollero almeno un paio d’ore affinché riuscissi ad ottenere il modulo
arancione con cui poter andare al reparto di ortopedia.
Dopo
un’altra rapida sbirciata alla cartina mi recai, zoppicando un po’, verso
ortopedia che e’ proprio l’ultimo stabile dell’ospedale: il piede iniziava
a farmi un po’ male ma ormai il peggio era passato mi dicevo (sigh !).
Non
feci neanche in tempo ad arrivare al piano che qualcosa mi turbò nuovamente:
sentivo infatti provenire dal reparto di ortopedia un vociare poco rassicurante
che di lì a poco avrei scoperto essere la causa di una accesa discussione tra
diversi militari ed una suora: tutti i militari, più o meno animosamente,
cercavano di convincere la suora che non dovevano essere ricoverati ma dovevano
semplicemente sostenere una visita.
Con
un bruttissimo presentimento mi avvicinai alla cattedra che fungeva da reception
del reparto per chiedere informazioni sulle modalità di svolgimento della mia
visita ma non feci neanche in tempo a dire “Buongio...” che la suora mi
aveva già strappato dalle mani il modulo e, consegnandomi un pacco contenente
due paia di lenzuola, un cuscino ed un pigiama marroncino, mi disse: “Stanza
numero 10”.
“Non
devo essere ricoverato”, provai a dire, ma era inutile, la suora, una vecchina
dall’aspetto stagionato di circa 120 o 125 anni non ne voleva sapere di
ascoltarmi ed anzi mi invitava a cambiarmi, a mettermi al letto che presto mi
avrebbe portato i “maccheroni”.
Maccheroni
?!? Diedi uno sguardo ad alcuni pentoloni posti su di un carrello sulla destra
ed il terrore mi assalì.
Le
restituii tutto il kit del ricoverato, e riprendendo il mio bel modulo arancione
me ne andai tra le risate dei presenti e la suora che ormai colta da un raptus
voleva ricoverare tutti, infermieri, militari, passanti, dottori…
Tornai
all’accettazione per cercare di uscire da quell’incubo ma là la situazione
era addirittura peggiore di come l’avevo lasciata. Feci valere il mio status
di allievo ufficiale ed ottenni con un po’ di insistenza di parlare con
l’ufficiale responsabile dell’ufficio di accettazione.
Questi,
un capitano, mi spiegò che tutti i pazienti entrano con una richiesta di
ricovero, che in genere nei casi come il mio il ricovero durava solo il tempo
necessario ad effettuare la lastra ma che malauguratamente il macchinario in
questione sarebbe stato inutilizzabile almeno fino a giovedì..ergo ero ospite
del Grand Hotel Celio senza possibilità di scampo.
Il
Capitano mi disse anche che non poteva fare proprio nulla visto che ormai
risultavo a tutti gli effetti ricoverato nel reparto di ortopedia, sotto la
diretta responsabilità del corrispondente ufficiale medico…
Tornai
in ortopedia zoppicando sempre più vistosamente, salii le scale e...”Stanza
numero 12”: la stessa suora di prima mi affibbiò di nuovo lenzuola e pigiama.
Vinsi
a stento l’istinto di stringerle le mani intorno al collo, le ri-restituii il
tutto e chiesi di parlare con l’ufficiale medico.
Qui
la cosa fu veramente dura da ottenere visto che, mentre alcuni militari si erano
ormai rassegnati e vagavano in pigiama tra le corsie, ce n’erano ancora
diversi decisi a volersene andare di là.
Comunque
alla fine, sempre grazie al mio status di allievo ufficiale, la spuntai su tutti
ed ottenni di parlare all’ufficiale medico venendo inserito tra una visita e
l’altra.
Spiegai
all’ufficiale medico la storia dall’inizio mostrando anche la mia lastra ed
esponendo la necessità di un referto medico “militare” che finalmente, dopo
una breve ma esaustiva visita al piede, mi venne rilasciato insieme ad un
certificato dal quale risultavo a tutti gli effetti dimesso dall’ospedale a
partire dalle 14.00.
Vittoria?
Non proprio: ancora diversi problemi mi aspettavano.
Cercai
infatti di avvisare il maresciallo con il quale avevo l’appuntamento per il
rientro ma la cosa non fu semplicissima visto che non avevo con me il cellulare,
che la macchinetta delle schede telefonica era rotta, che nessuno aveva da
cambiarmi una banconota da 50.000 lire e che non mi permettevano di uscire
dall’ospedale perché ovviamente fino alle 14.00 risultavo ricoverato: così
fui costretto a tornare all’accettazione ed esporre il mio problema al
capitano responsabile che, di gran lunga più stressato di me, per non impazzire
definitivamente mi fece telefonare dal suo cellulare (!!).
Il
maresciallo aveva terminato le sue commissioni in ospedale in quel momento (ore
13.00 circa) ma non poteva attendere fino alle 14.00 così se ne andò subito
dopo avermi dato il numero dell’autodrappello dicendomi di chiamare appena
fatto per farmi venire a prendere.
Inutile
dire che in una giornata come quella le cose non potevano filare così lisce
come il maresciallo auspicava ed infatti dopo circa tre ore di attesa al
cancello dell’ospedale l’autodrappello, all’ennesima chiamata calò la
maschera confessando di avere dei problemi.
Fu
necessaria un’ ultima telefonata in Accademia con la richiesta di parlare con
uno degli istruttori e finalmente il Signor Tenente Monaco mi illustrò le
modalità di rientro che consistettero nello zoppicare fino alla metro più
vicina (Colosseo), arrivare ad Eur Fermi e da là prendere la navetta per
l’Accademia.
Al
termine della giornata il piede mi faceva malissimo, zoppicavo molto più
vistosamente rispetto alla mattina ed avevo un raffreddore esemplare ma ce
l’avevo fatta: ero riuscito ad evadere dal Celio. MISSION
ACCOMPLISHED.
P.S.:
il piede mi fa ancora male…
Alessandro
Croce