Oops! devo avere sbagliato vocabolario... però mi sembra che la definizione corrisponda.
    Chissà se Sir John Herschel, al quale viene attribuita la paternità dei termini "fotografia", "negativo" e "positivo", avrebbe mai pensato che l'invenzione del suo amico William Henry Fox Talbot avrebbe soppiantato il dagherrotipo e che solo una cinquantina di anni dopo la fotografia sarebbe diventata uno dei mezzi di comunicazione più importanti?
    Che sia arte o no, è invece una questione che viene discussa fin da allora, con i suoi detrattori e i suoi appassionati sostenitori.



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  •     Di sicuro oggi siamo talmente immersi in una così grande quantità di immagini da renderci meno propensi ad osservarle tutte in modo consapevole e critico.
        Eppure era cominciato tutto con l'idea di poter disporre di un mezzo per fare delle lastre da incisione con il metodo dell'acquaforte, combinando insieme le (deboli) proprietà fotosensibili del bitume di Giudea alla già nota tecnica della ripresa mediante una "camera obscura". Quest'ultimo mezzo, un vero e proprio stanzino ambulante, era già utilizzato da almeno un paio di secoli da molti pittori e tra questi anche dal Canaletto.
        Fu così che Joseph Nicephore Niépce iniziò intorno al 1820 i suoi esperimenti, continuati poi in collaborazione con Louis Jacques Mande Daguerre. Questo sodalizio terminò a breve con la morte di Niépce, ma Daguerre continuò da solo e poco dopo fu in grado di rendere noto al mondo scientifico il procedimento che avrebbe dato il via alla fotografia.
        Infatti, anche se il dagherrotipo dovette cedere il passo ad altri metodi, fu per suo merito se si diffuse la moda del ritratto fotografico e iniziò anche un processo di documentazione fotografica di luoghi e città.

        Mentre Daguerre stava lavorando al suo brevetto, William Henry Fox Talbot cercava anch'egli di produrre immagini sfruttando il medesimo principio chimico di base (la sensibilità dei sali di argento alla luce), ma con un diverso approccio. Mentre Dagurre sensibilizzava mediante l'esposizione ai vapori di iodio la superficie d'argento depositato su una lastra di rame, Talbot preparava la sua superficie sensibile immergendo nel nitrato d'argento un foglio di carta precedentemente impregnato di cloruro di sodio. Mentre Daguerre faceva apparire l'immagine esponendo la sua lastra a vapori di mercurio, Talbot, la cui carta anneriva da sola alla luce, aveva qualche difficoltà a far sì che non continuasse ad annerire anche dopo l'esposizione. Il problema fu risolto con l'ausilio dei suggerimenti di Herschel, dando vita a un procedimento (negativo e positivo, alogenuro d'argento come mezzo sensibile, sviluppo e fissaggio) che ancora oggi è alla base della maggior parte dei processi fotografici.
        Ciò che più sorprende è che allora le nozioni teoriche di chimica erano ancora agli albori (si pensi, per esempio, che in quegli anni non erano ancora state definite le strutture molecolari delle sostanze più semplici, se non quelle di alcuni gas presenti nell'aria) e che le "scoperte" erano il frutto di una serie innumerevole di tentativi, dei quali solo alcuni coronati da successo.



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  •     Il mio rapporto con la fotografia risale a quand'ero bambino. Nella casa dove vivevo con i miei genitori, i miei nonni materni, lo zio e le zie, c'erano due grandi fotografie dipinte a mano e incorniciate. Il soggetto di entrambe era il corteo acqueo della regata storica. Facevo fatica a capire dove finiva la fotografia e incominciava il quadro, e questo mi affascinava.

      
        Anche guardare le immagini di luoghi e di persone che esistevano prima che io nascessi, anche se solo pochi anni prima, mi dava una strana sensazione: da una parte sembrava che tutto quel mondo, presente prima della mia nascita, fosse senza tempo; dall'altra quei visi un po' diversi da quelli attuali dei familiari, eppure così somiglianti, mi attraevano.

      
        La mia prima macchina fotografica fu una di quelle del tipo "tu premi il pulsante e noi facciamo il resto" (fuoco fisso, tempo fisso, due diaframmi: uno stretto e uno largo, pellicola in rullo da leccare sulla linguetta per chiuderla una volta estratta dalla macchina) ma in realtà non riuscii mai a tirare fuori una foto decente.


        Impietosito dai miei insuccessi ma confortato dalla mia cocciutaggine, mio padre mi regalò una fotocamera "vera" all'età di 13 anni. Era una Olympus mezzo formato, senza telemetro, ma finalmente potevo mettere a fuoco, diaframmare da 4 a 22, e variare il tempo di posa da 1/10 a 1/200 sull'otturatore centrale. Disponeva anche della posa B e l'ottica era leggermente grandangolare. Sembrò un miracolo: improvvisamente a ogni scatto corrispondeva una immagine stampabile!
        Quella fotocamera aveva un pregio sopra tutti gli altri: praticamente stava in tasca. Un po' pesantina, ma ci stava.
        Fu da allora che cominciai a portare quasi sempre con la macchina con me, soprattutto in montagna, in palestra di roccia, ecc.
        Il passaggio a una fotocamera di livello "superiore" avvenne nel dicembre 1968, e fu per una Minolta SRT 101.
        Poco dopo iniziai a svilupparmi i primi rullini in bianco e nero, e l'anno seguente acquistai l'ingranditore (ancora... vivente) con l'intento preciso di cimentarmi in alcune tecniche grafiche (solarizzazioni, separazioni di toni, ecc.) che allora andavano di moda soprattutto nelle riviste specializzate.

        Deluso dai maltrattamenti che i miei rullini di diapositive subivano nei laboratori, meditai di rendermi indipendente e iniziai a sviluppare le Agfachrome 50 Professional, per le quali esisteva un kit di sviluppo dalle dimensioni "umane" (2 litri in buste separate da 1 litro ciascuna, per sviluppare fino a 12 rullini) e tolleranze di temperatura di 1/5 di grado anziché di 1/10 come nel caso di altre case produttrici.
        Da questo a stampare in casa anche le diapositive il passo fu breve, sempre avendo in mente che tutto ciò che già sapevo applicare al bianco e nero, grafismi compresi, potevo farlo anche lavorando con il colore.
        La descrizione di come metto in pratica queste conoscenze si trova al capitolo "i segreti di Pulcinella".



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  •     Le prime stampe in b/n che ottenevo erano motivo di intimo orgoglio, ma non avevo nessun metro di confronto se non le immagini dei "grandi" della fotografia, pubblicate su riviste fotografiche come "Progresso fotografico" o sugli annuari fotografici, anche stranieri, che si potevano trovare in edicola.
      

        In uno dei primi anni di università, a Padova, vidi un cartello che annunciava il concorso fotografico "Premio 8 febbraio".
        Deciso a inserirmi nelle iniziative universitarie, vi partecipai. Solo al momento della visita delle fotografie esposte mi resi conto che quello non era un concorso fotografico per studenti, bensì uno dei concorsi nazionali validi per la classifica FIAF!

      

        La sorpresa aumentò ancor di più quando mi accorsi di aver vinto il secondo premio con la mia elaborazione "La gondola".
        E' chiaro che questo segnale positivo mi entusiasmò e mi convinse a continuare sulle scelte estetiche e tecniche già intraprese.
        Assunto all'ENEL, partecipai alle iniziative della sezione fotografica che culminavano in un concorso annuale.

        Anche in questi casi ricevetti molti riconoscimenti, ma la cosa che mi interessava di più non era tanto il premio, quanto la possibilità di esporre e di confrontare.
        In particolare, la mia partecipazione mirava a ottenere il riconoscimento di "autore segnalato per il complesso delle opere presentate" piuttosto che un premio per una singola foto.
        Per motivi non dipendenti dalla mia volontà fui costretto in seguito a ridurre al minimo la mia attività fotografica, sia pubblica che privata, per quasi otto anni.
        a lato:
    mano che taglia, 1980

    (la foto non è arrotolata, essendo invece un effetto "trompe l'oeil")
         Nel frattempo mi venne a mancare anche la camera oscura e la totalità delle mie immagini venne così ripresa su diapositiva.
        Giunto a Milano, chiacchierando con un collega venni a sapere che la sezione fotografica del circolo aziendale disponeva di una camera oscura e di un ingranditore con testa a colori. La partecipazione al corso obbligatorio per l'uso dell'ingranditore e della sviluppatrice a colori mi introdusse così nell'ambiente della sezione e lì iniziai nuovamente la mia vita "pubblica". Come la storia si sia evoluta lo potete vedere nelle pagine dedicate alle mie mostre fotografiche.



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  •     Ho sempre cercato di sviluppare un mio stile autonomo, ma alcuni autori rappresentano ancora per me ciò che la mia fantasia non è stata in grado di immaginare e la mia tecnica di riprodurre.

        Tra questi personaggi il più eclettico, quello che ha sperimentato di più e che, almeno all'apparenza, si è più divertito con la fotografia è probabilmente Man Ray. Nato nel 1890 e morto nel 1976, Emmanuel Radnitzsky (questo era il suo vero nome) attraversa il ventesimo secolo iniziando a frequentare Alfred Stieglitz e aderendo al dadaismo. Spaziando dalla pittura alla fotografia, dalla scultura alla poesia, le sue immagini hanno tutte la stessa freschezza, sia che appartengano all'inizio o alla fine della sua carriera. Grande sperimentatore, stranamente non produsse mai una foto a colori.
        Suo è il detto ormai celebre: "Dipingo quello che non può essere fotografato. Fotografo quello che non voglio dipingere". Per me è la quintessenza del fotografo che sa essere artista e viceversa.
        Le sue immagini sono protette da copyright, e quindi non mi resta che indirizzarvi al sito del Man Ray Trust per vederne alcune.

        I paesaggi di Erns Haas, visti all'inizio degli anni '80, precorrevano di almeno un decennio quelli che poi avremmo visto uscire da molti altri fotografi. Densità di colore, intensità delle scene sono gli aspetti che apprezzo di più, anche se non fanno parte del mio modo di fotografare.

        Quando vidi dal vero la fotografia di Edward Weston "Church Door" (seguire questo link per vederla), rimasi stupefatto: pur avendola già ammirata su una rivista che curava molto la veste grafica, superava ogni aspettativa. Sia ben chiaro che Weston ha fatto molte altre cose eccelse, oltre questa, ai famosi peperoni, ecc...

        Non si può immaginare la fotografia di paesaggio senza pensare ad Ansel Adams. Ogni parola spesa su di lui è sprecata. Guardare e vedere.

        Le atmosfere ovattate di David Hamilton sono state molto di moda negli anni '70 e '80. Provate però a non farvi distrarre dai nudi e a guardare meglio anche le altre immagini...

        Due autori italiani sono invece difficilmente rintracciabili nel web, se non a spizzichi: si tratta di Franco Fontana e di Fulvio Roiter.
        Del primo mi appassionano (poteva essere altrimenti?) quei paesaggi, così diversi da quelli della mia terra, estremamente semplici eppure dotati di un dinamismo prorompente, complici i contrasti di colore e il taglio dell'immagine.
        Sono infine attirato dall'estrema perfezione formale del secondo, sia nella composizione che nel racconto. Da veneziano, critico, geloso e sospettoso di chi fotografa la mia città senza averla prima capita nell'intimo, non posso invece che dirne un gran bene.
        Purtroppo negli ultimi tempi questo filone ha preso (anche a causa, ma non per colpa, delle fotografie di Roiter al carnevale) una piega spietatamente commerciale e i libri fotogafici su Venezia si moltiplicano di anno in anno, riciclando più o meno le stesse cose ormai già viste e riviste.



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  •     Il titolo è volutamente provocatorio.
        I "miei" segreti sono il frutto dell'esperienza ma soprattutto della lettura di riviste e di libri, e quindi sono reperibili ovunque; mettere insieme tutte le informazioni è allora solo una questione di pazienza.
        Non sono pertanto così geloso delle conoscenze acquisite da non volerle spartirle con nessuno. Attenzione, però: a Venezia si dice che per riuscire bene in certe cose ci vuole il "soramànego" (letteralmente: "sopra il manico", sta scherzosamente ad indicare la "mano" che guida l'utensile, cioè l'attitudine e l'abilità), e quindi ne' le conoscenze che io posso trasmettere, ne' i mezzi tecnici eventualmente in possesso di chi legge sono sufficienti per ottenere un buon risultato. Però aiutano...
        Nella pagina dei link fotografici troverete molte risorse utili. Sono in inglese? Beh, non si può avere tutto dalla vita!

        Dal punto di vista della tecnica corrente di stampa del bianco e nero, normalmente mi affido a un rivelatore preparato secondo la formula del D-52 riportata nel Ricettario Fotografico Ed. Hoepli, diluito 1:1. Le stampe sono esposte in modo da ottenere il massimo annerimento dopo circa 2', dopo di che nella stampa non avviene praticamente alcuna variazione se non un impercettibile aumento di contrasto: è quello che viene definito lo "sviluppo a tempo", contrapposto allo "sviluppo a vista" che consiste invece nel togliere la stampa dallo sviluppo quando l'immagine si ritiene soddisfacente.
        La differenza tra i due metodi è che nel primo caso si ottengono, quando l'esposizione è ben calibrata, una più estesa gamma tonale e una maggiore riproducibilità di risultati.
        Segue un bagno di arresto in acido acetico al 2% e un bagno di fissaggio rapido in ammonio tiosolfato al 30%.
        Il lavaggio è condotto in acqua corrente per almeno mezz'ora. Nel caso di stampe di grandi dimensioni, non potendo ricorrere all'acqua corrente, effettuo ricambi totali dell'acqua della bacinella ogni 5 minuti per almeno mezz'ora.


        Darò di seguito alcune informazioni relative ad alcune tecniche di elaborazione in camera oscura, spiegandomi con qualche esempio schematico e limitando il campo al bianco e nero.
        Non saltate però il paragrafo seguente: per qualcuno potrebbe trattasi di cose ovvie, per altri di pignolerie. Secondo me seguire una qualsiasi procedura sottintende due cose: la prima che chi l'ha scritta sia stato preciso nella descrizione di tutti i passaggi e di tutti i particolari, la seconda è che chi la adotta si attenga alle istruzioni con la stessa precisione di chi l'ha scritta.



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  •     "... e poi si passa la stampa in un bagno di tiosolfato al 30%"

        Dietro a questa semplice indicazione si cela uno dei più grandi malintesi che avviene tra chi non ha (o non ricorda) alcune basilari nozioni di chimica inerenti le soluzioni.
        A questo punto, per preparare la nostra soluzione al 30% abbiamo davanti quattro possibilità:
    1) sciogliamo 30 grammi di tiosolfato in 100 ml di acqua;
    2) sciogliamo 30 g di tiosolfato in 100 g di acqua;
    3) sciogliamo 30 g di tiosolfato in 70 g di acqua;
    4) sciogliamo 30 g di tiosolfato in un po' d'acqua e poi ne aggiungiamo ancora fino a raggiungere il volume finale di 100 ml.
        Ebbene, solo nel caso 3 e nel caso 4 abbiamo preparato una soluzione al 30%. Peccato che la concentrazione di tiosolfato nelle due soluzioni non sia uguale...
        Nei casi 1 e 2 sono state invece preparate delle soluzioni con meno del 30% di tiosolfato.

        Nel caso 3 abbiamo preparato una soluzione al 30% in peso, cioè ci sono 30 grammi di sostanza in 100 grammi di soluzione (è un rapporto peso/peso). Se ci servono 6 grammi di tiosolfato basta pesare 20 grammi di questa soluzione (30:100=6:x, x=100·6/30, x=20).
        Nel caso 4 abbiamo preparato una soluzione al 30% in volume, cioè ci sono 30 grammi di sostanza in 100 cc di soluzione (è un rapporto peso/volume). Analogamente al caso precedente, 6 grammi di tiosolfato sono contenuti in 20 cc di soluzione.
        Per convertire una percentuale nell'altra bisogna tenere conto della densità (massa/volume) della soluzione: %p/v = %p/p · densità. In alcuni casi particolari di soluzioni molto concentrate la percentuale in volume può essere superiore al 100%: nel caso dell'acido solforico concentrato, venduto alla percentuale del 98%p/p ed avente densità 1,84 kg/dm3, la corrispondente %p/v è del 98·1,84=180% (ci sono 180 grammi di ac. solforico in 100 cc di soluzione, volume quest'ultimo che pesa 184 grammi).

        I motivi per cui si usano questi due modi di esprimere una percentuale sono solamente di carattere pratico: la percentuale p/p non dipende dalla variazione di volume conseguente a una variazione di temperatura, ed è usata soprattutto per fini commerciali. 1 kg di soluzione è sempre 1 kg di soluzione, a qualsiasi temperatura, e il suo contenuto di soluto è anch'esso sempre lo stesso. Al contrario, in laboratorio (e in camera oscura) è più conveniente misurare le piccole quantità di liquidi con cilindri graduati, pipette, siringhe, ecc. piuttosto che con la bilancia, ed è preferibile quindi preparare delle soluzioni p/v.

        Un accenno a parte fa fatto per le soluzioni di acqua ossigenata, la cui concentrazione viene spesso indicata (nonostante sia un'unità di misura ormai obsoleta) in "volumi". I volumi sono i volumi di ossigeno che un volume di soluzione di acqua ossigenata può liberare. La conversione tra volumi e percentuale in peso è, nel campo compreso tra 0 e 34 vol (dipende dalla densità!) %p/p=vol/34.03, tra 34 e 71 vol %p/p=vol/35.96, ed infine tra 71 e 110 vol %p=vol/36.99.



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  •     Illustrerò brevemente alcune tecniche di elaborazione grafica mediante materiali in B/N. Esse sono:
  • bassorilievo
  • tone-line
  • separazione di toni
  • solarizzazione


  •     Due sole premesse. La prima per quanto riguarda i materiali: le pellicole ad alto contrasto per fotomeccanica (note anche come "lith") sono reperibili in ogni buon negozio di fotografia che tratti materiali per camera oscura. Si trovano sotto forma di pellicole piane, generalmente di formato minimo intorno al 18x24 cm. Sono ortocromatiche, e quindi maneggiabili in luce di sicurezza, ma generalmente sono più sensibili delle carte. Poiché si renderà necessario tagliare i fogli per ridurli al formato desiderato, è consigliabile fare una prova con la propria illuminazione di camera oscura per determinare il tempo massimo di esposizione alla luce di sicurezza prima che insorga il velo.
        Per quanto concerne lo sviluppo di queste pellicole, si trova facilmente in commercio quello della Ornano. Altre formulazioni si possono trovare nei ricettari presenti nella pagina dei link fotografici. In alternativa, si può usare anche uno sviluppo per carte, ma con una resa inferiore per quanto riguarda il grado di contrasto ottenibile.

        Vorrei infine consigliare di utilizzare, per le prime prove, immagini piuttosto semplici, con pochi dettagli fini. Possono andare bene dei ritratti, o delle architetture. A complicare le cose ci penserete voi quando avrete capito i risultati che si possono raggiungere.


        Continuare l'esposizione di seguito avrebbe appesantito questa pagina: seguite perciņ questo link per andare alle descrizioni tecniche delle elaborazioni grafiche.



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  •     Negli ultimi anni, soprattutto per opera di appassionati statunitensi, le tecniche cosiddette "antiche" stanno vivendo un momento di riscoperta, tanto che esiste un sito dedicato alla raccolta delle e-mail scambiate in un forum di discussione. Gli anglosassoni non parlano quasi mai di tecniche "antiche", bensì di "alternative", riunendo sotto questa etichetta anche i viraggi e ogni altra variante non convenzionale rispetto alla ripresa, sviluppo e stampa tradizionali o standard. I confini sono perciò molto vasti.
        In Italia è attivo il Gruppo Fotografico Rodolfo Namias, con sede a Parma e fondato nel 1991, che organizza mostre itineranti in Italia e workshop sulle tecniche antiche.
        Le pubblicazioni di riferimento in italiano sono i numeri 11 e 12 di Progresso Fotografico del 1978, e il manuale "Antiche tecniche" (Ed. Progresso Fotografico, 1994). Probabilmente i numeri di P.F. sono ancora reperibili in una buona biblioteca pubblica.

        Cosa si puņ ottenre con le tecniche antiche? Ecco qualche esempio, proveniente dalle mie mostre "Sul filo del sogno" e "Dal PC alla carta salata" svolte nel 2000 e nel 2001:

    Lago delle Baste
    (stampa bruna Van Dyck)
    Campanaro
    (carta salata)
    Pratopiazza
    (gomma bicromatata)

        Nel manuale citato, le tecniche sono descritte in 7 paragrafi:
  • gomma bicromatata
  • processo al carbone
  • carta salata
  • platinotipia e palladiotipia
  • processi ai sali di ferro:

  •         - cianografia
            - Van Dyck
            - callitipia
  • processi a rigonfiamento:

  •         - oleotipia
            - bromollio
            - resinotipia
  • processi speciali:

  •         - fotoresist e incisione su metallo
            - viraggi

        Per inciso, alcune tecniche non sono state sviluppate quale ulteriore logico perfezionamento di una tecnica preesistente, ma per disporre di un nuovo mezzo espressivo: tra queste si possono citare il callitipo, reso noto da W. W. J. Nicol intorno al I889-1891 e derivato da simili procedimenti messi a punto da Herschel circa 40-50 anni prima, e la gomma bicromatata, il cui principio venne scoperto da Alphonse Poitevin nel 1855 ma la cui applicazione alla fotografia è da ascrivere agli ultimi anni del XIX secolo ad opera dei fotografi pittorialisti.
        All'interno di ogni singola tecnica, nel tempo sono state quindi sviluppate delle varianti con lo scopo di migliorare alcune caratteristiche (praticità di preparazione, durata, sensibilità, tonalità di colore, ecc.).
        Per esempio, con il termine "carta salata" si dovebbe intendere solo il procedimento originario di Talbot del 1838 che utilizza, come materiale sensibile di partenza, della carta impregnata di cloruro sodico e successivamente, una volta asciutta, sensibilizzata con una soluzione di nitrato d'argento. Le varianti, molto simili, consistono nella:
  • carta al tampone citrato: il cloruro di sodio viene sostituito da una miscela in parti uguali di cloruro di ammonio e di citrato di sodio; viene migliorata la coservabilità della carta sensibilizzata;

  • carta ad annerimento diretto o POP, da "printing out paper" (ma anche la carta salata è una carta ad annerimento diretto!), che impiega una soluzione di gelatina e cloruro di sodio (oppure di tampone citrato) in seno alla quale viene fatto formare, in forma dispersa, il cloruro d'argento mediante l'aggiunta di una soluzione di nitrato d'argento; possono essere preparate emulsioni a diverso grado di contrasto;
        La carta all'albumina fa parte del sottoinsieme delle POP. In questo caso la gelatina è sostituita dall'albumina, la quale conferisce caratteristiche diverse dalla precedente sia all'immagine che all'aspetto della superficie, ma sostanzialmente il processo non cambia.


  •     Anche nel caso delle stampe brune/seppia/Van Dyck e dei callitipi (Van Dyck, Van Dyke e ogni altra variante sono in realtà più un nome moderno di fantasia che un riferimento al pittore fiammingo), esistono numerose varianti alle formule, ma sostanzialmente si avvalgono di uno stesso principio chimico di base: la riduzione, per effetto della luce, di un sale di ferro da trivalente a bivalente. Quest'ultimo a sua volta, in presenza di acqua, induce la riduzione di un sale di argento ad argento metallico.
        Queste carte cambiano solo leggermente di colore alla luce, ma anneriscono rapidamente una volta immerse in acqua, e quindi sono anche dette DOP ("developping out paper" - carte a sviluppo). Quest'ultima classificazione, però, comprende anche altri tipi di tecniche.
        Cambiando leggermente le formulazioni si distinguono:
  • carte seppia classiche - ferro(III) ammonio citrato + argento nitrato

  • carte Van Dyck moderne - ferro (III) ossalato + argento nitrato

  • argirotipo - ferro (III) ammonio citrato + argento solfammato


  •     L'aspetto più avvincente delle tecniche antiche è, a mio parere, la possibilità di essere artefici di tutto il procedimento che porta alla stampa finale, a cominciare dalla scelta del supporto, alla sua preparazione, alla scelta della tecnica più adatta all'immagine da stampare. Non ultimo, scoprire che effettivamente funziona!
        La prima volta che ho stampato una carta salata mi sono meravigliato della facilità con la quale si ottiene un'immagine. Poi mi sono reso conto che ottenerne una veramente buona, e soprattutto ottenerne due di uguali, è invece un po' più difficile.
        Infine, il solo fatto di dover perdere abbastanza tempo per produrre un'immagine fa sì che si ponga maggior attenzione alla qualità dell'immagine stessa, alle sue effettive importanza e necessità di essere stampata.
        
        Trovo che il problema più delicato sia quello di essere in grado di produrre più copie uguali, in tempi diversi, della stessa immagine. E' ciò che si chiama, nel linguaggio dei chimici e dei fisici da laboratorio, la riproducibilità e la ripetibilità.
        La ripetibilità misura il grado di variazione dei risultati di una certa prova ripetuta più volte in tempi ristretti, con la stessa persona, nello stesso ambiente e con la stessa apparecchiatura. Un esempio applicato alla camera oscura potrebbe essere: io stesso che sto stampando lo stesso negativo per farne un certo numero di copie uguali a casa mia.
        La riproducibilità misura il grado di variazione dei risultati della stessa prova dove una o più delle condizioni di cui sopra sono diverse. Continuando nell'esemppio di prima, diventa: un mio amico, al quale ho trasmesso tutte le istruzioni necessarie, che sta stampando nella sua camera oscura un negativo per farne più copie.
        Secondo voi, quando fate più copie dello stesso negativo, riuscite a ottenere tutte le copie esattamente uguali? Se sì, allora avete raggiunto un buon grado di ripetibilità.
        Sempre secondo voi, il vostro amico riesce a fare lo stesso? Se sì, allora il metodo impiegato per la stampa è caratterizzato da un buon grado di riproducibilità.
        
        Ebbene, il grado di manualità richiesto dalle tecniche antiche è così elevato che i rischi di andare incontro a una riproducibilità e a una ripetibilità piuttosto scarse sono molto elevati. Per contenerle bisogna essere in grado di tenere il più possibile costanti tutte le condizioni nelle quali si opera, anche quelle apparentemente più insignificanti:
  • tipo di carta
  • modalità di preparazione della carta sensibile (vedi in seguito)
  • temperatura dell'ambiente
  • umidità della carta al momento dell'esposizione
  • intensità della sorgente luminosa
  • distanza sorgente-carta sensibile
  • tempo di esposizione (non necessariamente a parità del prodotto tempo x intensità si produce lo stesso risultato al variare dei fattori)
  • grado di contrasto del negativo
  • grado di densità del negativo
  • concentrazione, temperatura e grado di invecchiamento/esaurimento di eventuali bagni successivi all'esposizione
  • tempo di permanenza nei bagni suddetti
  • tempo di asciugatura


  •     Queste variabili entrano in gioco anche in una normale stampa convenzionale in bianco e nero, ma in questo secondo caso molte di esse sono state rese "innocue" (grazie all'elevato grado di standardizzazione delle preparazioni commerciali) dai fabbricanti di carte e prodotti chimici.

        Un'ultima nota riguardo alle carte: per queste tecniche si usa normalmente la carta da disegno. Però questa può essere di diversa origine (cotone puro o miscelato con fibre sintetiche) e grammatura, di diversa preparazione della superficie (da molto liscia a molto rugosa) ed aver anche subito differenti trattamenti di collatura (che viene eseguita per impedire che i liquidi scendano troppo in profondità tra le fibre come nella carta assorbente).
        La stesura della soluzione sensibile può avvenire per immersione (raramente), per pennellatura o spalmata in strato sottile mediante una bacchetta di vetro (piegata a \____/) fatta strisciare avanti e indietro sulla carta ben distesa sul tavolo.
        La carta sensibilizzata viene poi essiccata in luce attenuata (comunque non in presenza di UV - va bene perciò una lampada ad incandescenza) con l'aiuto di un phon non troppo caldo.
        Come si può facilmente vedere, la preparazione della carta vede coinvolte molte altre variabili oltre a quelle già elencate sopra.

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    Questo lungo articolo dovrebbe continuare?
    e come?