L'azione vuota

Spesso, nelle azioni che facciamo, è presente una tensione, una sofferenza nascosta causa di disagio. Credo che il motivo vada ricercato in un certo scollamento tra noi stessi e il momento presente che stiamo vivendo. Abbiamo come la sensazione che quel momento non ci appartenga e che noi non apparteniamo a quel momento. A volte può trattarsi di noia, perché ci sembra che non ci appaghi quello che stiamo facendo, perché magari stiamo solo aspettando, e intanto il tempo passa, e noi potremmo essere altrove. In altri casi può trattarsi di frustrazione derivante da un senso di negata libertà: siamo lì perché siamo costretti da tutta una serie di situazioni al contorno che non siamo riusciti a dominare e indirizzare, ma in realtà vorremmo e dovremmo essere altrove. In altri casi, poi, la situazione può anche essere tranquilla e piacevole, ma noi la viviamo come “la quiete prima della tempesta”; è la classica sensazione da domenica pomeriggio: viviamo un momento potenzialmente piacevole, ma la mente va già a tutte le grane che ci aspettano la mattina dopo, quando torneremo al lavoro (per molte persone la domenica è paradossalmente più angosciante dei giorni di lavoro). Altre volte, infine, è semplicemente quel senso indefinito di insoddisfazione derivante dalla aspettative che altri ci hanno trasmesso, a farci distrarre e vivere in perenne attesa o ricerca di uno stato che comunque non riusciremo mai a raggiungere perché per sua stessa definizione è l’alternativa al presente reale. Ho dimenticato qualche altra tipica situazione? Quasi sicuramente, tante sono le origini del disagio nella nostra vita quotidiana. Certo è che, con la costante preoccupazione di far bella figura, di ottimizzare i tempi, di non lasciare buchi di inattività nella nostra giornata produttiva in funzione dell’encomiabile proposito di guadagnare spazi di tempo libero, finiamo spesso per non dare il meglio di noi stessi, non vivere in consapevolezza il nostro tempo, occupare anche il tempo del riposo con attività portatrici di ansia.
La Bhagavad Gita indica una strada, che non consiste nel sospendere le attività, ma nel togliere alle attività il peso ingombrante della finalità e del soggetto. Trovare l’inazione nell’azione e l’azione nell’inazione, questo è il segreto. Ciò significa vivere in piena consapevolezza il momento presente, quale che sia la situazione in cui ci troviamo coinvolti. Più si sale in una scala di comprensione e saggezza e meno frequenti sono le situazioni nella nostra vita in cui avremmo dovuto essere da un’altra parte. Credo che le persone veramente illuminate abbiano il singolare privilegio di sentire in ogni istante della loro vita che devono essere proprio lì e fare proprio quella cosa. Tutto ciò però implica un porsi diversamente rispetto all’azione stessa.
Togliere il soggetto dal centro dell’azione, lasciare che l’azione generi se stessa. Non vi è altro fine nell’azione che l’azione stessa, in quel momento io partecipo e lì è tutto il mio universo. In quel momento, apparecchiare per il pranzo ha la stessa rilevanza che scendere da una navicella e posare per la prima volta nella storia il piede sul suolo lunare. La mia concentrazione, il mio potenziale emotivo, le mie capacità, tutto è focalizzato su quella particolare cosa, senza pensare al prima e al dopo, alle motivazioni profonde, alla sua rilevanza nel contesto familiare o sociale, soprattutto togliendo me stesso come ego che verrà adulato o criticato, dal centro dell’azione stessa.
In quell’agire il tempo si gonfia e le giornate sono ricchissime, ogni minuto è portatore di una benedizione; alla fine della settimana ripenso alle cosa accadute e mi sembra che sia trascorso un anno...