I bei nomi del giornalismo gia' almanaccano sulla Rai del 2001

Gia' che ci sono mi lottizzo da solo


Don Bartolo

Dall'alto della sua esperienza e autorevolezza, Don Bartolo ci regalera', di tanto in tanto, le sue riflessioni su quel mondo nel quale la grande finanza si intreccia con i giornali e la comunicazione. Grazie, Don Bartolo, per aver accettato la nostra proposta, e buon lavoro nel nostro Fumoir.
 

  19 Dicembre 2000

Pier Luigi Celli, “Piero” come confidenzialmente lo chiamano gli amici e quelli che tali si spacciano, la lettera di dimissioni da direttore generale della Rai l’ha tenuta in caldo per un po’.

Dopo avere esternato, l’11 dicembre a Milano, su quanto l’azienda di viale Mazzini sia irreparabilmente perdente rispetto alla concorrenza di Mediaset, ha lasciato che da più parti gli chiedessero di trarre le logiche conseguenze. Poi, da perfetto manager pubblico quale egli negli ultimi anni è diventato, ha messo quella lettera nel cassetto, scrutando l’orizzonte politico. 

Dal quale ha tratto le seguenti coordinate: primo, Massimo D’Alema, il suo grande, non dimenticato e mai rinnegato sponsor, riuscirà forse a reimpadronirsi dei Ds. Benché eletto presidente in un bailamme di contestazioni e polemiche, ora che è lì, e soprattutto se Walter Veltroni correrà (come proprio vorrebbe) per il Campidoglio, Max farà quello che ha sempre fatto: comanderà

Secondo: se Silvio Berlusconi, come pare, vincerà le elezioni, in Italia avremo di conseguenza due poteri veri: quello del Cavaliere e quello di D’Alema. E poiché il Cavaliere ha il problema del conflitto d’interessi, la Rai non verrà né smantellata né ridimensionata né normalizzata. Verrà semplicemente spartita tra gli amici di Berlusconi e quelli di D’Alema. Amici che tra l’altro spesso (e in taluni casi anche volentieri) coincidono. 

Almeno nei primi tempi, quando il Polo si dovrà stabilizzare al governo e i ds dalemiani si dovranno a loro volta riorganizzare come opposizione, la Rai diverrà una sorta di zona franca, di striscia smilitarizzata, in cui ci sarà l’opportunità di condurre molti giochi.

Questo nell’ipotesi in cui a dividersi la scena siano Berlusconi e D’Alema. E’ una prospettiva che però buona parte della sinistra considera un incubo, a cominciare dall’ala diessina vicina a Veltroni. Loro hanno già messo le mani avanti: niente consociativismi, niente ritorno ai famigerati inciuci dei tempi della commissione Bicamerale, quando, dicono, il Cavaliere e il conte Max si combattevano a parole sulla pubblica piazza per combinare accordi e affari in privato. Pensieri e parole un po’ forti, forse. In politica quasi mai i moralisti la contano giusta. 

Ma tutto questo dimostra una cosa: il futuro della Rai, e nell’immediato la soap opera (o la fiction?) delle dimissioni di Celli, sono strettamente legati alla partita D’Alema-Veltroni.

Se Celli ha come bussola D’Alema, e punta a uno scenario, diciamo, consociativo, dietro a Veltroni si è allineato il cosiddetto partito Rai. Esponenti diessini come Fabio Mussi (capogruppo dei deputati), Vincenzo Vita (sottosegretario alle comunicazioni), Beppe Giulietti (responsabile informazione). Più il presidente della Rai, Roberto Zaccaria, che ha improvvisamente deciso di trascurate i campi di tennis, i salotti, i premi di ogni sorta, la mondanità e le belle signore, per mostrare i muscoli.

Obiettivo di Zaccaria: commissariare Celli, senza lesinare in formule pelosissime. “Garantisco io per lui. Celli è convinto come me che la Rai ce la farà”; “Ha incontrato Berlusconi? Ma no, ha solo risposto a un invito”; “L’uomo è così, ha i suoi sbalzi di umore, ma è un ottimo manager”, “Abbiamo risanato l’azienda. Avevamo una macchinetta buona per le strade di campagna, l’abbiamo trasformata in una vettura potente in grado di sfrecciare sulle autostrade europee, un gioiello che tutti ci invidiano”. E via paraculeggiando.

Ma l’idea di mettere Celli sotto tutela può funzionare sul brevissimo periodo. In futuro gli Zaccaria, i Giulietti, i Vita & Co., fino naturalmente a Veltroni, sono pronti a fare un gran bailamme, a montare un gigantesco caso politico se Berlusconi andrà al governo e cercherà di infilare i piedi in Rai. Viale Mazzini dovrà diventare un simbolo di resistenza, un baluardo. Il Vietnam del Cavaliere.

Il problema è che contro questa prospettiva Berlusconi ha le armi spuntate. Non avendo colpevolmente provveduto (almeno finora) a risolvere il conflitto d’interessi, e avendo compiuto un clamoroso dietrofront sulla privatizzazione della Rai (nel senso che preferisce che resti pubblica, facendo però meno concorrenza possibile a Mediaset), si è messo in una sorta di auto-impeachment. La Rai dovrà mollarla ad altri; sia pure, lui spera, sotto la sua alta benedizione.

Ma come e a chi? Qui tornerà buona l’esperienza e l’influenza di uno come Celli, se non addirittura la sua permanenza o il suo ritorno in viale Mazzini. Alla solidarietà interessata di Zaccaria, così come all’aperta ostilità dei diessini dell’ala veltroniana, il direttore generale ha risposto a stretto giro, dicendo soprattutto una cosa: così come è la Rai non si mantiene, né col canone né con la pubblicità. Non compete con Mediaset. Solo i capitali privati la possono salvare. Altro che gioiello invidiato in tutta Europa!

L’idea di Zaccaria e della sinistra veltroniana è che la Rai sia miss Universo. Chi la vuole si accontenti di un corteggiamento o al massimo di qualche invito a cena. L’idea di Celli e di D’Alema è che invece sia una vecchia zitella, che prima si sposa meglio è.

Per questo divergono i progetti di privatizzazione. Celli aveva in mente di separare la Rai commerciale da quella pubblica; e di vendere a pezzi o in tutto la prima. Zaccaria e la segreteria ds hanno fatto approvare dal Parlamento una legge che prevede una holding pubblica sul modello delle fondazioni bancarie, e sotto una serie di società minori (Rai Way, Rai Net, Rai Sat, e così via) in cui accogliere i privati, ma senza cedere la maggioranza. 

Poi hanno previsto l’abolizione del divieto di sommare carta stampata e tv, una riforma giusta che però di fatto spalanca le porte della Rai ai due soli editori che possono permetterselo: Cesare Romiti (Rcs) e Carlo De Benedetti (Repubblica-Espresso).

Inutile dire, con Berlusconi al governo e D’Alema di nuovo capo dell’opposizione, insomma con lo scenario consociativo, che le chances di Romiti e del mondo finanziario-editoriale che gli ruota intorno salirebbero alle stelle. Invece con Berlusconi sconfitto, oppure vincitore, ma con un’ opposizione forte in mano a Veltroni o a un Rutelli battuto di misura, prevarrebbe lo scenario conflittuale, e Romiti si dovrebbe mettere in fila, magari proprio dietro a De Benedetti. O, peggio ancora, la Rai resterebbe così come è, con le sue croniche perdite e il canone sempre in aumento.

La cosa divertente è che un mucchio di bei nomi del giornalismo si sta dando da fare per l’una o l’altra soluzione. Paolo Mieli, Pietro Calabrese, Carlo Rossella, Barbara Palombelli, Giuliano Ferrara, tifano per Romiti e per una Rai spartita tra Berlusconi e D’Alema. Ezio Mauro, Giulio Anselmi, Giorgio Gori (sì, proprio il direttore di Canale 5) si sentirebbero perfetti per una Rai deberlusconizzata e veltronizzata. Molti di loro – non tutti per la verità – al futuro della Rai dedicano gran parte delle loro serate, delle loro telefonate e delle loro tresche. Chi rappresentano? Forse soprattutto se stessi. La vecchia lottizzazione politica ha fatto il salto di qualità: se lottizzazione deve essere, ha pensato qualche penna illustre, tanto vale che mi lottizzi da solo

Don Bartolo

Puntate precedenti. - Fumoir1 - Fumoir2 - Fumoir3 - Fumoir4


 


Barba e capelli - Una spia in redazione - Sempre meglio che lavorare?
Diritto di Replica - Bacheca - Sala stampa - PressKit - Curricula
Offerte e convenzioni - Cdr - Associazioni professionali
Inpgi, Casagit, Ordine dei giornalisti - Scrivici - Home