Finora ci siamo ammazzati dalle risate. Ma leggendo gli ultimi paragrafi del Manuale del buon giornalista, dobbiamo dirlo, 
ci siamo commossi
Il Prof. Magrìt ci ha strappato una lacrima evocando, in poche righe, tutte le nostre speranze e tutte le nostre illusioni. Ammettetelo: chi non ha letto, nel manuale, la propria vita di giornalista?

Grazie, professore. E' stato un onore conoscerla cosi', per caso, in rete. Il Barbiere della Sera è forse per lei una tribuna troppo modesta. Siamo certi che ella merita di più. 

Terremo presto una riunione a bottega per esaminare la possibilita' di produrre un'edizione cartacea del suo manuale. Riteniamo che sarebbe di grande utilità a quei giovani che oggi, in pieno sprezzo del pericolo (ah, la gioventu'!!!) si tuffano ancora oggi con ardore nell'avventura del giornalismo.
Bds

E grazie, ovviamente, anche alla Mini


 

Il Manuale del buon giornalista 

del Chiar.mo Prof. C. Magrìt

Settima (e ultima, purtroppo) parte
Il registratore - Fumatori e igienisti -  La busta paga e la nota spese - Il piano ferie - 
Come si compone una redazione - Il free lance - Conclusioni


 
Il registratore

Un posto di rilievo nella vita del giornalista, soprattutto di quello d’agenzia, è rivestito dal registratore.

Si tratta di una curiosa macchinetta che in teoria dovrebbe registrare e riprodurre le voci degli intervistati, munita di un vistoso adesivo col nome della testata. 

In realtà l’oggetto funziona perfettamente solo nelle prove in redazione, mentre in corso d’opera o s’incastra il nastro o si scaricano le pile o parte autonomamente il tasto ‘pause’ e lo strumento si blocca. Nessuno da tempo si fida del registratore e quindi, contemporaneamente, prende appunti.

E’ notorio che i giornalisti hanno una grafia simile a quella dei medici e spesso si rivolgono al farmacista di fiducia chiedendogli di decifrare quanto scritto. Altro passatempo molto in voga nella categoria è la ricerca di penne e carta, ma soprattutto del portacenere.

Luogo comune vuole che un vero cronista picchietti a macchina o computer con la cicca pendente dal labbro.

Nulla di più falso. In virtù di una sordida campagna stampa volta a disincentivare l’uso della nicotina, a furia di scrivere che il fumo fa male, più di qualche collega si è autoconvinto e ha smesso. 

Ciò ha portato a una frattura insanabile e a spaccature all’interno degli stessi Cdr, al punto che l’Ordine sta pensando ad iscrizioni diversificate tra professionisti tabagisti e virtuosi, dando la precedenza, nelle liste di disoccupazione, ai mangiatori di mentine.

Allo stato attuale in ogni testata, anche quella che occupa due persone, esiste la stanza dei fumatori e quella dei non fumatori. Due mondi che non solo non s’incontrano, ma in perenne conflitto tra loro.

1) Non fumatori: il giornalista virtuoso è, come sempre, un pentito. E come tutti i pentiti persona di cui diffidare. Si tratta in genere di quarantenne reduce da un check up Casagit che ha fortemente minato il suo equilibrio psichico, solo perché il colesterolo è alle stelle e con la pressione –se mette in bocca acqua e un cucchiaino di caffè- può autoprodurre un espresso senza bisogno di andare al bar.

Sotto l’incubo di infarto e ictus la persona in questione, indipendentemente dal sesso, acquista una bicicletta e s’accorge subito che solo il tentativo di salirci produce affanno. Dalla mattina alla sera getta le sigarette e acquista Tir di caramelle.

Senza rendersene conto entra in una spirale di cui non può essere cosciente, altamente dannosa per la sua salute: ingrassa e più ingrassa più pedala. Lo stress fisico si assomma a quello nervoso, trasformando quello che era pur sempre un collega in un salutista hitleriano (persone che amano i fiori, la musica e gli animali, ma sterminano i bambini).

L’incomunicabilità con chi lo riporta al passato si manifesta nella richiesta di venir trasferito di scrivania, magari al fianco della collega incinta che, sebbene primipara attempata, si ostina a voler restare al suo posto fino all’ultimo, con grave danno per la categoria dei disoccupati. La loro stanza, tra riviste sulla maternità, piantine ossigenanti e caramelle sembra la nursery di un asilo nido tedesco.

Provocatoriamente i due lasciano la porta aperta, senza alcuna vergogna per lo stato in cui versano. L’odore di pino mugo misto a vaniglia e la musica soft che spandono nel corridoio è il chiaro segnale di qualcosa di grave che si sta per abbattere sull’intera redazione. E così è.

Alla prima riunione di redazione i due, solidali, impongono l’astinenza agli altri. Prima con gesti di evidente fastidio, poi esplicitamente. Non bisognerebbe cedere, ma anche i giornalisti hanno un cuore.

Le richieste di un ciccione a rischio d’infarto e in cura e di una ingrassata che per almeno un anno non si vedrà più vengono accolte, anche perché, con la scusa della sigaretta, è possibile abbandonare la riunione di redazione prima del tempo.

Nessuno pensa che il sostituto della futura mamma sarà, molto probabilmente, un giovane cresciuto divorando servizi contro il fumo passivo…Espandendosi come piovre -con l’aiuto di scellerati controlli medici previsti dal contratto che portano alla scoperta di patologie devastanti in individui che, se solo non dovessero lavorare, starebbero benone- i non fumatori aumentano di numero e pretese.

Quando un ordine di servizio inviterà i fumatori a tener chiusa la porta della stanza è arrivato il momento di licenziarsi e trovare un lavoro onesto, tipo spacciare droga o gestire un bordello per minorenni.

2) Fumatori: non fosse per le campagne denigratorie di cui sono vittime –e a cui, con particolare sadismo, sono costretti a partecipare, magari con ampi servizi sui centri oncologici cittadini- sarebbero delle persone rilassate e felici.

Il cinismo e la perfidia di una società ipocrita che mette al bando l’ultimo piacere di un giornalista (in alcuni casi anche l’unico) li segrega in stanze bunker, li condanna a respirare non solo il proprio fumo, ma anche quello dei colleghi. Certo, le loro dita gialle di catrame e bruciacchiate possono fare impressione, ma s’armonizzano perfettamente con i buchi da bronze su cravatta, golf, camicia.

Né mancano i vantaggi: il fumatore incallito può esibire baffi e barba biondo cenere naturale anche in là con gli anni. Quanto ai denti, neri e smozzicati, la presa di posizione della Casagit di non rimborsare più di una pulizia del tartaro all’anno è servita a dimostrare solo la meschinità dell’ente. Un vero giornalista tabagista, infatti, non va dal dentista, così come evita i medici.

Convinto che di qualcosa si deve pur morire, affronta il proprio destino con impavida consapevolezza. Accende una sigaretta ad ogni nuovo capoverso, e, nella nebbia profonda della sua cella, descrive sapiente ogni minuscolo particolare dell’efferato delitto. Meglio morire di fumo che affettati da una banda di giovani criminali al termine di uno stupro anale di massa. E’ questione di alta filosofia.

La conclusione di un capitolo sugli strumenti essenziali per la pratica giornalistica spetta ai tre elementi fondamentali che hanno portato un ragazzo pieno di buoni sentimenti, intelligente e brillante a deviare su una strada ardua e piena di insidie: la busta paga, i rimborsi missione e le ferie.

Busta paga e rimborso missione sono semplici fogli di carta riempiti di cifre, espressione delle incredibili capacità di sintesi tra discipline umanistiche e scientifiche di un giornalista. La differenza tra i due è che il primo viene letto, il secondo compilato. Entrambi sono comunque oggetto di studi approfonditi.

La busta paga, al momento della consegna, viene aperta con circospezione. Ognuno cerca di sbirciare almeno il netto dei colleghi e tutti si rendono subito conto che ‘non è possibile andare avanti così’. Comincia il conto delle domeniche e feste lavorate, la voce che più incide sul totale.

Ognuno giura che è arrivato il momento di chiarire una volta per tutte col capo che non è possibile che il vicino di scrivania se le becchi sempre lui. Pensandola tutti allo stesso modo qualcosa che non va ci deve essere, ma non c’è tempo per appurarlo. L’occhio di falco del giornalista cade infatti sulla voce trattenute.

Quella che infastidisce di più è la Fnsi, poche lire, ma è una questione di principio, soprattutto nella stagione di rinnovo del contratto e peggio ancora dopo. Il colpo di grazia lo dà comunque la rata del mutuo per la casa.

La casa è una delle croci storiche del giornalismo italiano. Premesso che ai giornalisti, in teoria, una casa non serve a nulla, dal momento che bivaccano in redazione, per una pura questione di principio ogni giornalista che dio ha messo in terra prima o poi si autoconvince a comprarne una.

La colpa è da imputarsi all’Inpgi, che subdolamente offre tassi interessanti: un po’ come fanno i supermercati con le raccolte bollini, spendi un sacco di soldi in prodotti inutili, ma alla fine ti porti a casa uno scaldavivande. Il giornalista non ha bisogno di un tetto, ma gli dispiace sprecare l’occasione di un mutuo a interessi quasi zero.

Arriva dunque prima o poi il fatidico giorno in cui cadere nel tranello. L’appartamento in questione è dislocato in ‘zona informazione’ e ha l’incommensurabile pregio di essere vicino a quello di un collega con cui poter dividere le spese di trasporto verso l’ufficio. 

‘Prendilo, così la mattina andiamo con una macchina sola’ suggerisce sordido il futuro vicino di casa, che per incastrarlo ben bene comincia a magnificare il quartiere e a prospettare grigliate primaverili nel giardinetto condominiale. E’ la fine per tutti.

Quando un giornalista compra una casa e per giunta la ristruttura, è bene prendere ferie fino al giorno del trasloco. In redazione non si farà altro che parlare di idraulici ladri, piastrellisti criminali e geometri incompetenti. Le cifre si sprecano, pare d’essere alla borsa di New York, tra prezzi di sanitari al rialzo e interruttori al ribasso.

Dopo vari mesi di intoppi, evitato da tutti, arriva finalmente il giorno in cui il malcapitato in questione prende ferie per trasferirsi ufficialmente nella nuova abitazione.

Promette ai colleghi che l’hanno sopportato una cena d’inaugurazione, che tutti accettano di buon grado, coscienti che non si farà mai.

Dissanguato anche dagli autotrasportatori, di quella casa il giornalista rinverdirà i fasti mensilmente con le trattenute in busta paga, bestemmiando all’indirizzo della carogna che l’ha convinto a comprarla e, nel contempo, cercando viscidamente di intortare nell’acquisto di un’abitazione il neoassunto. ‘S’è liberato l’appartamento del quinto piano. Prendilo, così la mattina andiamo con una macchina sola’.

La busta paga che più disgusta il giornalista è quella natalizia, ma il colpo di grazia viene da quella di gennaio. In teoria, prima di Natale, dovrebbe esserci un raddoppio degli emolumenti: in pratica l’occhio cade solo sul raddoppio delle trattenute.

Sperperati i sudati guadagni in autogratificazioni essenziali (un masterizzatore, una cinepresa digitale, un cellulare da polso, un orologio collegato via satellite ai fusi orari degli States, ecc.) per più di un mese non beccherà una lira, ma si cullerà nel sogno di un Natale lavorativo pagato profumatamente o di un Capodanno milionario in redazione. Niente di più falso. Il mese in questione dura quaranta giorni e i conguagli fiscali del nuovo anno annullano qualsiasi beneficio.

In realtà il mondo dell’informazione riserva alcuni interessanti privilegi, dai buoni pasto alla sanità, dall’ingresso ufficiosamente gratuito in qualsiasi teatro fino ai rimborsi per aggiornamento professionale e borse di studio per i figli.

Qualcuno arriva addirittura ad avere l’auto in omaggio. Ma se un giornalista vuole mantenere il proprio decoro è costretto a fare i salti mortali. E l’unica rete di protezione sono i rimborsi missione.

Abbiamo già accennato alla fatica richiesta dalla raccolta scontrini ogniqualvolta un giornalista si trovi fuori sede. Più difficile ancora è stendere una richiesta di rimborso quando il cronista viene mandato con la propria macchina dall’altro capo della città.

Intanto perché bisogna dimostrare che la macchina, per una deviazione imprevista, ha percorso una distanza di due chilometri in linea d’aria in venti chilometri. Poi perché l’ammortamento del mezzo ha un suo valore, anche se si tratta del catorcio di servizio.

Da tempo alcuni editori particolarmente avari preferiscono rimborsare i trasferimenti in taxi, con conseguenti tensioni tra i lavoratori delle due categorie, tassisti e giornalisti.

In questo contesto, per tagliare ogni possibilità di fraintendimenti economici, alcune testate, solitamente gestite in cooperativa, hanno risolto il problema alla radice: pagano stipendi e rimborsi quando è possibile. 

E’ scientificamente provato che un giornalista che riceve a giugno la busta paga di gennaio è contento di poter saldare, almeno parzialmente, i debiti con le banche e, sollevato, finisce persino per essere grato all’azienda che gli ha permesso di risolvere i pressanti problemi contingenti.

Ultima dolente nota sono le ferie. A differenza di quanto accade in un qualunque altro posto di lavoro, in un giornale nessuno si sognerebbe mai di incastrare le proprie ferie tra Natale e Capodanno, tra Pasquetta, il 25 aprile e il 1° maggio o a Ferragosto e al 1° novembre. Se è previsto siano lavorativi. Le famiglie dei giornalisti sanno che l’assenza del congiunto per motivi di lavoro a Natale ha una profonda valenza religiosa o meglio un valore sacro.

A primavera il lavoro nelle testate rallenta per permettere a tutti la stesura del piano ferie. Se per ipotesi un comando kamikaze intendesse far saltare per aria il presidente degli Stati Uniti è pregato di farlo dopo la consegna del piano ferie, altrimenti la notizia finisce nelle ‘brevi dal mondo’. E siccome ai terroristi, anche kamikaze, piace finire sui giornali è meglio che sappiano che la stagione non è quella opportuna.

Il primo a compilare il piano ferie è il redattore capo. Dopo un accurato studio su ‘dove si va quest’anno’ e previa lettura approfondita di riviste sul turismo sceglie l’ultima settimana di luglio e le prime due di agosto, in modo da essere presente a Ferragosto. Presa questa prima e inderogabile decisione, passa ad analizzare la situazione contrattuale.

Gli scioperi solitamente si collocano in ‘campagna elettorale’, ottimo periodo per ritemprarsi senza salassare la busta paga o passare per crumiri. Rimane la settimana bianca che, con un sapiente gioco d’incastro tra ‘corte’ perse e ferie residue può diventare anche due, compatibilmente alla presenza o assenza di neve.

Dopo settimane di lotte all’ultimo sangue e sfide ad armi bianche –perché c’è sempre la collega che a scuole chiuse non sa dove ficcare i figli o il collega che, occupandosi di turismo, ha ricevuto casualmente in omaggio una vacanza di tre settimane in un’isola sperduta del Pacifico- il piano ferie si può dire concluso.

A parte alcuni casi singolari, imputabili al rispetto per le abitudini degli anziani, non verrà rispettato e dal giorno successivo si apriranno le contrattazioni.

Alla Panini, editrice esperta nel settore, è allo studio un sistema di figurine da scambiare. ‘Se ti do la mia corta giovedì e mercoledì prossimo, mi dai uno dei tuoi giorni di ferie, in modo che poi comunque mi faccio la domenica?’ La domenica, notoriamente, vale doppio.

La struttura operativa di un organo d’informazione

Come si compone una redazione

C’è sempre una data precisa che ricorda il giorno in cui un signore, in genere benestante, decide d’investire per creare e vendere un prodotto dell’informazione su supporto cartaceo o audiovisivo.

C’è anche un motivo, sebbene non sempre comprensibile o quanto meno incomprensibile se si pensa al prodotto. C’è anche un preciso istante in cui il signore in questione, meglio noto come editore, decide di affidare il suo investimento a un direttore, che a sua volta nomina un suo sostituto, il vicedirettore, e un coordinatore dell’attività lavorativa, il redattore capo.

Quest’ultimo è più o meno quello che nell’esercito si chiama ‘caporalmaggiore’ e a cui l’ambiente militare ha dedicato la simpatica canzoncina ‘Caporalmaggior, caporalmaggior fammi una…’. 

Dal redattore capo dipendono i vari caposervizio, responsabili dei numerosi settori d’interesse dell’opera di ingegno collettivo. Sono loro che coordinano l’attività dei redattori e dei collaboratori.

A completamento dell’organizzazione di una testata c’è la segreteria di redazione –unico ufficio realmente informato su quanto accade non solo nel mondo, ma anche nel giornale-, un archivio cartaceo e fotografico, gli uffici amministrativi e contabili, l’economato (dove si provvede a ordinare bicchieri di carta, caffè e qualche volta anche penne), i settori vendite, diffusione, pubblicità e marketing. E soprattutto un centralino che spesso funge anche da portineria, fonte inesauribile di notizie sulla vita del giornale.

Per comodità d’esposizione, sezioniamo quello che è un corpus unico, una redazione, nelle figure che la compongono.

1) Direttore. Il direttore di una testata è per definizione un uomo, se non bello, interessante. Nei rarissimi casi di direttrice il concetto è lo stesso. E se non fosse così non si capirebbe perché tutti fanno a gara per accaparrarsi un direttore a cena o invitarlo ai talk show.

Il direttore è spiritoso. Il direttore scrive benissimo, anche se non lo fa spesso per non suscitare invidia nei dipendenti. Il direttore è alla mano, nel senso che si lascia dare del tu. Insomma il direttore è il migliore o almeno il migliore dei direttori possibili finché rimane tale, dal momento che i direttori passano e solo i giornalisti restano.

Il giorno successivo alla sua (buon)uscita dalla testata il direttore diventa uno dei peggiori criminali dell’informazione, un sordido approfittatore di grazie muliebri, avvinazzato e semianalfabeta.

La dipartita del troglodita è anticipata dalle telefonate dei colleghi del quotidiano che si appresta ad accoglierlo e a cui si risponde, con una speciale forma di sadismo anale, elencando una per una tutte le malefatte dell’infame a partire dal primo scoop archiviato per arrivare a piccanti particolari sessuali. Solo nella nuova testata il direttore tornerà ad essere un uomo interessante, amabile, intelligente e, al limite, anche molto bello.

Esistono varie tipologie di direttori. C’è ad esempio il direttore- direttore, molto apprezzato soprattutto dalle agenzie. Vive di, a, da, in, con, su, per, tra, fra la notizia e quindi è presente venticinque ore su ventiquattro in redazione. 

Delega al suo vice solo il compito di decidere la marca di caffè da acquistare e parte del piano ferie e ai collaboratori i comunicati stampa ben scritti.

Per il resto controlla ogni articolo con la lente d’ingrandimento e, in caso di ‘buca’, dopo un primo goffo tentativo di suicidio, propone un massacro di massa con l’aranciata. Quando c’è ‘ciccia’ si sigilla nella sua stanza per dar vita a un pezzo memorabile che entrerà negli annali del giornalismo mondiale. Se lo si asseconda può anche succedere che faccia tutto da solo, titoli compresi: in tal caso è essenziale lodarlo molto, fingendo ammirata partecipazione per un’opera di ingegno singola, che però pare collettiva.

Più articolate sono le categorie di direttori politicamente schierati. A sinistra è facile trovare quello che trascorre il suo tempo nei locali più in vista della città con il presidente di Assindustria, per poi concludere la serata con un Black Jack a casa di una contessa della nobiltà papalina.

A destra s’incappa in pericolosi borgatari capaci di rivitalizzare una bettola periferica suonando con la chitarra e l’armonica a bocca ‘O bella ciao’. Al centro ci sono morigerati padri di famiglia felicemente sposati e apertamente schierati contro l’aborto, assidui frequentatori dei viali di circonvallazione, con la scusa dei ‘motivi di servizio’.

2) Vicedirettore. Facsimile del direttore, ma un tono più sotto.

3) Redattore capo. Facsimile del vicedirettore, ma un tono più sotto. Parafrasando Woody Allen, si potrebbe dire che chi non ha voglia di far nulla nella vita fa il giornalista e chi non ha voglia di fare nemmeno quello fa il redattore capo.

4) Capo servizio. Mentre direttore e vice hanno sempre le valige pronte e il redattore capo è figura sfuggente, il caposervizio è un vero e proprio giornalista, così come l’abbiamo più o meno raccontato finora.

Con una particolarità: il caposervizio si fa carico di coordinare il lavoro del suo settore- sia esteri, cronaca, cultura e quant’altro- anche a parità di trattamento economico. Questa curiosa caratteristica è stata oggetto di studi da parte di celebri psichiatri. Le ricerche si stanno sviluppando lungo due filoni differenti.

Per la psichiatria classica, i neuroni del caposervizio producono una speciale sostanza che inibisce il sistema immunitario, stimolando l’attività onirica. In pratica il paziente nutre ambizioni di carriera, pur sapendo che è impossibile e dannoso per il suo equilibrio psicofisico.

I laboratori di una multinazionale farmaceutica stanno mettendo a punto uno speciale psicofarmaco in grado di invertire il processo e tra un paio d’anni si presuppone che, al pari dei giornalisti, scompariranno anche i caposervizio.

Per gli psichiatri democratici, il caposervizio non è un malato, ma un soggetto da reinserire nel tessuto sociale del giornale, evitando ogni forma di emarginazione e compiti onerosi, come dire a ciascuno dei propri collaboratori cosa dovrebbe fare.

L’ideale sarebbe la costituzione all’interno di ogni testata di servizi- famiglia (esteri- famiglia, cronache- famiglia, ecc.) dove tutti a turno settimanale gestiscono l’organizzazione del settore o, in alternativa, il trattamento sanitario obbligatorio.

Prevalga una teoria o l’altra, sta di fatto che il rapporto ambizioni- realtà manda in crisi non solo i caposervizio, ma anche i redattori semplici. Ci vogliono infatti molti anni di cure per convincere un giornalista che fare carriera non è questione di bravura o di raccomandazioni, ma il frutto di una particolare congiunzione astrale nel tema natale.

Accade così che la depressione sia sempre in agguato e che il 50% dei pazienti distesi sul lettino di ogni analista sia iscritto all’Ordine dei giornalisti. Chi non ha il coraggio di affrontare un lungo viaggio nei meandri della propria psiche, si affida ai più classici psicofarmaci.

In alcune redazioni si è provveduto a mettere, a fianco della macchina del caffè e delle bibite, un dispenser con le principali pillole e gocce in commercio, dall’En, al Valium, al Lexotan, per evitare che a qualcuno possa sopraggiungere una crisi da astinenza proprio in chiusura di giornale.

5) Manovalanza. Del lavoro delle manovalanze abbiamo già dettagliatamente parlato. Come in ogni cantiere che si rispetti, a fianco degli operai specializzati e contrattualizzati –nel nostro caso i redattori- ci sono i lavoratori al nero, impiegati per quelle attività che nessuno vuole fare. Nel mondo dell’informazione si chiamano collaboratori, termine politically correct free lance.

Il free lance è un professionista o un pubblicista disoccupato a vita che si ostina a rifiutare un lavoro onesto e remunerativo, come ad esempio viado sulla tangenziale, pur di pensarsi giornalista. 

Muccioli prima e Don Mazzi poi avevano provato a costituire delle comunità per disintossicare i free lance, ma la Fieg ha bloccato i finanziamenti.

I free lance, anche se non pare, sono indispensabili nella vita di qualsiasi testata, come gli extracomunitari lo sono per i latifondisti del sud o gli industriali del nord- est.

La giornata di un free lance inizia al mattino presto con una visita alle banche, di cui è affezionato cliente. Spiegato al funzionario che è assolutamente impossibile che non sia ancora arrivato il bonifico milionario e che deve trattarsi di un tragico errore –da verificare quando sarà aperta l’amministrazione del giornale -, convince o meglio tenta di convincere il bancario a pagare ugualmente la bolletta del telefono, con un’elasticità di cassa oltre al fido di pochi giorni.

Vada bene o no, passa a trovare qualche parente –ottime le vecchie zie zitelle e senza altri eredi, ma anche la madre pensionata è un punto di riferimento affettivo da frequentare assiduamente- e, fingendosi indignato per il mancato arrivo del bonifico milionario, riesce a scucire almeno i soldi del telefono e un pentolino con un po’ di salsa di pomodoro.

A parte i familiari stretti, di solito i free lance hanno una vita sociale molto elitaria. Evitano accuratamente amici di nuova e vecchia data, perché devono loro un sacco di soldi, spiegando all’anziana madre che purtroppo il loro evidente successo in campo giornalistico ha attirato invidie immotivate.

Verso le undici sono sul campo di battaglia ossia presenziano a tutti quegli eventi che nessuno, nemmeno il fattorino, ha voglia di seguire. Un collaboratore può passare senza fare una piega da un convegno su ‘Le iniezioni intramuscolari nella farmacopea mediterranea’ (dove, relatrice d’eccezione, è una cugina dell’editore) a una conferenza stampa del ‘Circolo del tricot’ –diretto dalla mamma di un redattore.

Al quinto evento di vitale importanza, mangiucchiando un panino, comincia il giro delle telefonate, equamente suddivise tra quelle dirette alle amministrazioni e quelle ai fortunati colleghi contrattualizzati. Entrambe sordidamente untuose.

Alla ‘responsabile collaboratori’ chiede umilmente di controllare se, per ipotesi e se non crea troppo disturbo, magari forse l’azienda potrebbe provvedere, in via del tutto eccezionale, a saldare almeno le spettanze di due anni fa.

Inizia una pietosa pantomima da cui il free lance si salva solo perché non ha una lira. L’impiegata, infatti, dopo essersi dimostrata comprensiva e attenta, spiega con dovizia di particolari le difficoltà economiche in cui versa l’editore, dopo il secondo divorzio e il minuscolo scandaletto a seguito, che l’ha messo in ginocchio con la Finanza.

Annuncia che molto probabilmente a fine mese è possibile che la Tributaria sblocchi i fidi, ma confessa di non sapere come fare al ventisette con le paghe dei contrattualizzati.

Poi alza il tiro: ‘Si figuri, se potessi le farei avere anche tutto subito…ma pensi anche (e spara il nome di una mitica firma del giornalismo italiano) sta aspettando da 15 giorni ben tre milioni’. Il free lance sbianca, vuoi perché messo sullo stesso piano del ‘più grande dei grandi’, sia per paura di perdere la collaborazione.

Così facendo gli sfugge che i tre milioni al divino sono il rimborso per un intervento di dieci righe. Non potendo contribuire personalmente a risollevare le sorti dell’azienda, promette di farsi vivo più avanti, sempre con la speranza di non disturbare.

Di tutt’altro tono le conversazioni telefoniche coi colleghi contrattualizzati, che sovente conosce solo via cavo.

Se il free in questione è femmina, il rapporto, iniziato sotto una buona stella, continuerà così fino alla visita alla redazione, quando il giornalista scoprirà che dietro alla voce suadente di una spiritosa fanciulla c’è un manico di scopa piatto e baffuto o una cicciona spelata.

Se il collaboratore è maschio verrà sfruttato, ma rispettato in virtù di una solidarietà di genere che le donne ignorano. In entrambi i casi il free deve vendere le notizie in suo possesso, possibilmente a più testate, garantendo l’autenticità e originalità dei pezzi.

I norcini friulani, particolarmente sapienti nell’utilizzo di tutte le parti del maiale ammazzato, stanno organizzando dei corsi di giornalismo per free lance. La tecnica è simile: si prende una notizia e, una volta venduto ai quotidiani quanto serve all’attualità, la si sviscera per i settimanali. Quello che resta va ai mensili specializzati.

Un free lance è in grado di scrivere sullo stesso argomento anche dieci notizie tutte diverse nella forma, ma identiche nella sostanza. Per venderle ha fatto di tutto: attaccato esasperanti bottoni telefonici, lusingato il collega sostenendo che erano anni che nessuno mai era stato in grado di descrivere Berlusconi con l’acume e l’intelligenza dimostrato nel pezzo pubblicato sull’ultimo numero, spiegato nei minimi particolari la fondamentale importanza che riveste il ritrovamento nella stazione di Forlì di cinque clandestini bulgari alla luce dei nuovi sviluppi del centro d’accoglienza Caritas della cittadina.

Il free sa tutto della vita familiare di tutti i suoi interlocutori, scadenza date importanti, colleziona articoli altrui fondamentali.

Il collaboratore lavora come può. Di solito gli basta un telefono, un computer e Internet (da cui, vantando incredibili doti di hacker, si collega alle agenzie). Supplisce alla mancanza di mazzetta con un’ora di navigazione dalle due alle tre del pomeriggio, prima di mettersi a scrivere.

Entro le 21 ha prodotto almeno sette o otto pezzi sugli argomenti più disparati e li ha anche inviati. Se è bravo ha rispettato gli ordini ossia misure e tempi di consegna. Se è inesperto telefonerà in chiusura di giornale, chiedendo se l’articolo è piaciuto e cercando conferme.

Ma un free così non ha lunga vita, al pari di quelli che, aperto il giornale e letto un curioso pezzo a propria firma, si fan vivi per protestare per le modifiche apportate. 

Per non parlare di coloro che entrano in crisi solo perché il servizio non esce o esce con sei mesi di ritardo, quando ormai anche l’Eco di Medjugorjie ha esaurito l’argomento.

Un vero free non fa domande. Un vero free non ha pretese. Un vero free va avanti e tiene duro. Se per ipotesi la zia zitella muore lasciandolo erede, approfitterà di un’insperata ricchezza per andare a proprie spese, senza assicurazione, in Afghanistan a intervistare le mogli dei Talebani sulle violenze sessuali in famiglia e, al ritorno (se ci sarà un ritorno), tenterà invano di vendere il servizio a un noto settimanale, sentendosi rispondere che è già stato fatto. Ripiegherà su un pezzo di colore sulla moda a Kabul per Mani di fata.

Dopo una cena frugale il collaboratore, se non è costretto da un quotidiano locale a seguire lo spettacolo amatoriale in dialetto del nipote della portinaia della testata, segue gli spettacoli televisivi delle emittenti di provincia per cogliere gli umori di aspiranti assessori alla nettezza urbana del Comune e nel contempo legge i libri degli autori esordienti del suo quartiere, navigando in Internet alla ricerca di siti singolari.

Verso le due o le tre di notte, dopo la rassegna stampa, mentre sta tentando di portare a termine un servizio sul tesoro di Milosevic –basato sulle pezze d’appoggio degli estratti conto intestati all’ex leader serbo, ottenute, con semplice richiesta verbale, dal cassiere della banca- crolla addormentato sul computer.

E sogna. Sogna un posto fisso in una redazione di giornale. Sogna di poter sbattere il telefono in faccia a quei rompiballe di collaboratori. Sogna che è il 27 e che sulla sua scrivania plana una busta paga, dove Inpgi e Casagit sono già incluse.

Sogna la prima bolletta telefonica con una cifra a soli tre zeri e un direttore che lo chiama per chiedergli se, per piacere e in via del tutto eccezionale, è disposto a raccontare, tutto spesato, cosa si prova in un mese di vacanza a Tonga. 

Sogna di essere fermato per strada, ‘ma lei non è…?’, sogna la voce dell’onorevole che, supplice, gli chiede un’intervista, senza che la segretaria (per inciso quella stronza che fa da filtro) ne sappia nulla.

Free lance e redattori, è evidente, fanno parte di due facce di una stessa medaglia. Da un lato chi immagina il posto fisso come un’oasi di libertà, dall’altra chi immagina l’oasi di libertà come un posto fisso, ma senza colleghi. 

Non sanno, poverini, che senza le organizzazioni di categoria rischiano, al pari dei giornalisti delle testate multimediali, di finire nel grande crogiuolo del ‘giornalismo del futuro’.


CONCLUSIONI


Come si diventa giornalistI

Giornalisti non si diventa, si nasce. Potrà sembrare banale, ma non lo è. Molti si sentono chiamati, ma pochi finiscono per essere realmente gli eletti. Non basta saper scrivere. Se sai scrivere e pensi che qualcuno ti legga, non sei un giornalista, ma uno scrittore o, peggio ancora, un poeta.

Buona fortuna, ma non fai per noi. Tutt’al più ti recensiamo domani. O forse sei curioso, ti piace guardare il mondo che ti circonda, indagare, cercare di capire? Ti consigliamo l’arruolamento in Polizia, a meno che tu non preferisca la carriera opposta, quella del ‘guardone’.

Ma tu magari sei sempre aggiornato, leggi, t’informi. L’Università deve pur esistere per qualcosa, fai un bel concorso. Oppure sei di quelli che coltivano rapporti umani. Lascia perdere, ne abbiamo visti tanti provare e fallire miseramente. Se vuoi realizzarti iscriviti a un’associazione di volontariato e dà libero sfogo alla tua natura.

Ma può succedere che tu sappia scrivere, non necessariamente bene, e che non t’importi nulla che qualcuno ti legga. Che tu sia curioso, dotato di un certo fiuto per le situazioni, che il mondo e le persone che ti circondano t’interessi, anche perché con una distaccata gestione della realtà pensi di riuscire a tirar su due lire e a ritagliarti un piccolo spazio di potere.

Caro amico, benvenuto tra noi. A te abbiamo dedicato questo manuale, svelando i segreti di una professione tra le più antiche del mondo. A te, giornalista nato, che vuoi battere con noi la strada, riserviamo gli ultimi consigli.

Per diventare seri professionisti ci sono due possibilità.

La prima, impraticabile, è l’assunzione in un giornale. Scordatelo. E’ un vecchio trucco che non funziona più. Se non hai avuto la fortuna di farti assumere come praticante dal ‘manifesto’, salvo poi salutare i compagni allo scadere dei diciotto mesi e passare alle principali testate nazionali, l’unica possibilità è il praticantato d’ufficio.

Raccogli con cura tutti gli articoli e i relativi pagamenti (anche 500 lire bastano): dopo il primo tagliando (pubblicista), intensifica la tua attività e attendi pazientemente un’ondata di prepensionamenti. 

A quel punto porta tutto all’Ordine dei giornalisti della tua Regione: per pareggiare i conti dell’Inpgi qualcosa ti riconoscono, fai l’esame e diventi professionista.

Oppure iscriviti a qualche scuola di giornalismo, lavora gratis duramente nelle testate convenzionate e segui il piano di studi. L’esame ti spetta di diritto. In un modo o nell’altro riuscirai a diventare un professionista, che comunque è sempre meglio che lavorare. Tanto un lavoro non lo troverai ugualmente, ma farai parte della grande famiglia di lavoratori del futuro, i free lance. Una prospettiva decisamente allettante.

In verità può anche succedere che tu abbia una zia funzionaria di partito. In tal caso non ti servono consigli. Sarà la zia a farti assumere dall’organo –d’informazione, ovviamente.

Ma non farti illusioni: se anche ti viene riconosciuto il praticantato e ti dicono che sei lì per fare informazione, se anche fai l’esame e lo superi, in realtà sei solo una pedina per un finanziamento. Lo capirai solo quando e se ti capiterà di scrivere un articolo vero per un vero giornale. Ed è probabile che, piangendo, tu ritorni dalla zia chiedendole un posto d’addetto stampa di un onorevole. Che comunque è sempre meglio che lavorare.

Noi non vogliamo scoraggiarti, ma farti prendere coscienza della realtà. Sentire la vocazione al giornalismo è missione e passione. In senso ecumenico.

Praticantato vero o d’ufficio, volontariato universitario o pratica da dattilografo, verrà il giorno in cui comprerai un manuale e ti getterai nello studio, matto e disperatissimo, in previsione dell’esame. Ascoltaci, ti prego, caro futuro collega, ascoltaci.

Noi sappiamo che la prima cosa che ti viene in mente è cercare un collega dell’Ordine che ti presenti alla Commissione.

Non lo fare. Ogni sessione vanta centinaia di candidati, ogni commissario altrettante centinaia di raccomandati. Siccome sono uomini faticano a tenere a mente i nomi di tutti, è più semplice promuovere tout court e evitare così gaffes, magari con amici di vecchia data.

Sii dignitoso, fidati di te stesso e delle tue capacità. In virtù della presenza dei grafici e dei fotografi –condannati inspiegabilmente alle tue stesse prove scritte- qualsiasi testo tu produca sarà valutato in modo positivo.

Concentrati piuttosto sull’uso della macchina da scrivere, anzi cerca di procurartene una in tempo da antiquari e rigattieri della tua città. Non sottovalutare le insidie del nastro, la fatica di un ritorno a capo, l’impossibilità di un controllo automatico delle battute. Allenati.

Quanto ai test, non preoccuparti: sei libero di andare quando vuoi in bagno, ammesso e non concesso che la ressa di persone che vi colloquia amabilmente consenta l’accesso. Parla con i tuoi compagni di strada, avendo cura di scegliere quello che a istinto ti sembra più preparato. E comunque confronta le risposte. Superati brillantemente gli scritti hai tempo per preparare l’orale.

Scegli, per la tesina, un argomento noto a te solo, tipo ‘La situazione politica del Gimzebikstan del Sud’. Il tuo relatore ti chiederà il nome della capitale del Gimzebikstan del Sud e plaudirà alla risposta (Karabaul).

Non strafare, attendi che ti chieda –domanda trabocchetto- quello della capitale del Gimzebikstan del Nord. Basta rispondere Babarum e sarai immediatamente dirottato ai magistrati, con ampi cenni di consenso.

Adesso ascolta bene: devi mandare a memoria i compiti del Presidente della Repubblica, conoscere la differenza tra un Gip e un Gup e qual è il nome dell’Ente che è organo di consulenza delle Camere e del Governo in materia sociale ed economica, quanti membri ha e come sono suddivisi tra esperti e rappresentanti di categoria.

Non puoi consultare nulla, né rispondere ‘Non lo so, ma so dove reperire i dati’. Se sbagli sei fregato, ma se ti viene in mente ‘Cnel, 80, 1 presidente, 20 esperti e 59 rappresentanti’ nessuno ti chiede se ti fermi o raddoppi, ti stringono la mano e te ne torni a casa col tesserino di giornalista in tasca.


Dal Deuteronomio 7, 7-8: Non già per essere voi più numerosi di ogni altro popolo, ch’il Signore v’ha prediletti e prescelti, poiché voi siete il meno numeroso di tutti i popoli. Ma per l’amore del Signore verso di voi, Egli vi trasse con mano potente. E ti liberò da quella che per te era schiavitù da lavoro mettendoti nelle mani di un Editore” (per alcuni filologi c’è un ‘d’Egitto’, che non figura nella versione apocrifa fin qui utilizzata).

Rispose Isaia 44,8:Non v’impaurite, non vi spaventate. Già da lungo tempo te lo feci udire e lo annunciai e voi siete i miei testimoni: c’è dunque un Editore fuori di me? Non c’è potente ch’io non conosca".

Questo manuale non è dunque solo per te, giornalista nato, che hai superato o stai per superare l’esame. E’ per tutte quelle persone iscritte a un Ordine e che, nonostante tutto, anche dopo decine di anni di onesta professione faticano a prendersi troppo sul serio.

Ossia per me, qualche amico o, forse, lettore del Barbiere della Sera. Soprattutto per lo sponsor che l’ha generosamente pagato. L’unico che può anche sull’Editore.


FINE


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-Il Manuale del buon giornalista-
Copyright 2001 Chiar.mo Prof. C. Magrìt - Il Barbiere della Sera
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