Eppure.
(Non si trovano spesso recensioni che cominciano con “Eppure”, vero?)
Eppure, viene da dire “eppure”.
Nel senso che gli Oasis qualche fondo lo hanno ben toccato, in questi anni, dopo aver cavalcato la loro “supernova”. La loro credibilità come musicisti e come icone rock è andata scomparendo, vuoi per le gesta da autentici hooligans arricchiti, vuoi soprattutto per dischi che, per ammissione dello stesso Noel Gallagher, non reggono il confronto con i primi due album.
Eppure… Un po’ come capita ai fratelli Inzaghi, quando i due fratelli Gallagher sono a terra, non si fanno mai veramente male. La loro testa quadra è così dura che probabilmente riuscirebbero a fare fronte a muraglie di dissenso ancora più robuste di quelle che attualmente li circondano, e che sono state erette non solo dai critici ma anche da parecchi fan disillusi. Molti di questi, ad esempio, non ricordano come memorabili i concerti dell’ultimo tour, quello piantato a metà da Noel. Del resto non è facile emozionarsi durante esibizioni che in effetti al pubblico danno pochissimo – chi ha visto Liam fare le sue passeggiate sul palco, cantare con le mani dietro la schiena in stile pensionato, oppure trionfalmente sbadigliare a metà di una canzone sa di cosa stiamo parlando. Il fatto è che fondamentalmente, del pubblico agli Oasis non frega niente. Tanto per dire, questo album inizia con l’esempio più lampante di come NON iniziare uno show davanti a 70.000 persone a Wembley – ovvero, dicendo: “Hello, Manchester!” – doppia offesa, campanilistica e calcistica.
Eppure, forse anche perché ci è risparmiata la pena della loro fisicità indifferente ed insolente, “Familiar to millions”, come oggetto di puro ascolto, rende giustizia agli Oasis proprio come rockband. L’arrivo di Archer e Bell ha irrobustito il gruppo, e nonostante in un doppio live non possano mancare momenti di stanchezza (l’antica “Supersonic”, eseguita di malavoglia, “Shakermaker”, o l’esageratamente lunga “Gas panic”), questo è uno dei dischi dal vivo più convincenti e sinceri usciti negli ultimi dieci anni. Forse dipende dal fatto che anche in questo caso il gruppo guarda al passato più che al futuro, realizzando un omaggio ai “live” di una volta e all’alone di leggenda che circondava questo tipo di album, oggi in disgrazia. Non a caso le due “citazioni”, con le quali gli Oasis ancora una volta salgono “sulle spalle dei giganti”, sono “Hey hey, my my” di Neil Young (che rimanda a “Live rust”) e la beatlesiana “Helter skelter” (che rimanda a “Rattle and hum” degli U2). Sì, in molti casi bisogna convenire che i 18 brani di “Familiar to millions”, specie per il non simpatizzante, non risultano certo un festival della fantasia e della versatilità.
Eppure, gli Oasis dimostrano con questo disco che sono in grado anche di ricompattare le fila e dimostrare che in quello che fanno, in quel tanto vituperato chiosare attorno alla tradizione del rock, loro ci credono veramente.



                                                                                                                                                                (Paolo Madeddu)
 

(tratto da Rockol)