Gli atomisti: Leucippo e Democrito

 

L’ipotesi che la realtà sia costituita di atomi, cioè di punti non ulteriormente divisibili e , perciò, insecabili (in greco àtomoi), formulata da Leucippo, e condotta a estreme conseguenze da Democrito di Abdera, si avvicina al tipo di indagine e di esigenze proprie di tutti gli uomini di cultura del V secolo. Indubbiamente essa prende le mosse dalla problematica impostata da Zenone d’Elea.

Di Leucippo sappiamo pochissimo: fu contemporaneo di Anassagora; sem­bra che sia nato a Mileto, abbia soggiornato ad Elea, ove avrebbe conosciuto Zenone, e che, poi, trasferitosi ad Abdera, sia entrato in rapporto con Democrito. Avrebbe scritto Il grande ordinamento del mondo, di cui non abbiamo nulla, e L’intelletto, di cui ci è pervenuto un frammento. Democrito di Abdera (in Tracia) sarebbe nato verso il 460/57; vissuto a lungo, fin verso il 370, avrebbe scritto molt­issimo. Tra le molte opere - scritti di astronomia, geometria, aritmetica, etica, linguaggio, medicina - ne avrebbe composto una intitolata Piccolo ordinamento del mondo. Sembra che il corpus democríteum sia andato disperso molto presto. Come punti fondamentali del suo pensiero si possono considerare:

 

l. gli atomi e il vuoto;

2. il costituirsi di molti possibili mondi, e non di un solo universo, esclu­dendo ogni ordine finalistico;

3. il farsi autonomo del mondo degli uomini e del loro linguaggio;

4. la scienza come discorso matematico-geometrico su cui si costituisce la nostra conoscenza del mondo.

 

Per Democrito ogni realtà è impensabile se non viene rappresentata esten­sivamente, cioè corporeamente. Poiché ogni realtà, in quanto estensione (corporeità è divisibile, si deve ammettere, non essendo possibile la divisibilità all'infi­nito - come già dimostravano le aporie di Zenone di Elea - un'infinità di punti non ulteriormente divisibili (atomi). Perché questi atomi abbiano la possibilità di aggregarsi o disgregarsi, formando le cose, è necessario però ammettere uno spa­zio (vuoto) in cui gli atomi siano collocati.

Gli elementi del reale sono, dunque, gli atomi e il vuoto. Nell'infinito vuo­to si muovono gli infiniti atomi, estensioni finite e quindi grandezze corporee che non si differenziano tra loro per aspetti qualitativi (gli atomi non hanno qualità), ma per aspetti quantitativi, cioè per forma e grandezza (di qui la differenza fonda­mentale rispetto ai semi, o omeomerie, di Anassagora, concepiti tutti qualitativamente differenti). Muovendosi, gli atomi si agganciano e si sganciano costituendo i corpi e tutti gli infiniti aspetti della realtà, a seconda dell'ordine e della posizione in cui nel composto vengono a trovarsi.

Gli atomi differiscono fra di loro solo per la forma e la grandezza, per l'or­dine e per la posizione: «Per es. A differisce da N per la forma; AN differisce da NA per l'ordine, Z differisce da N per la posizione». Quelle che tradizionalmente ,sono considerate le qualità degli oggetti (colore, odore, sapore, ecc.) non appar­tengono agli atomi né ai loro composti, ma nascono dall'azione degli atomi sugli organi di senso: esse esistono solo nel soggetto che sente, sono mutevoli da sog­getto a soggetto, sono opinione; mentre «verità sono solo gli atomi e il vuoto».

Gli atomi infiniti e l'infinito vuoto sono posti da Democrito come i principi che rendono ragione di tutti i fenomeni: dagli atomi in perpetuo movimento nel vuoto nascono gli infiniti mondi, le infinite singole realtà. Il moto degli atomi non è qualcosa che viene loro dall'esterno, da una mente che conferisce e organizza il moto: Democrito esclude il problema dell'inizio del moto degli atomi, quasi che potesse pensarsi un momento in cui essi fossero fermi, privi di moto e che fosse necessario porre una causa del moto esterna e anteriore agli atomi stessi. Gli ato­mi sono in eterno movimento nel vuoto e sopraggiungendosi reciprocamente si urtano, e gli uni rimbalzano come si trovano, gli altri si allacciano fra loro secondo la simmetria delle forme, delle grandezze, delle posizioni e disposizioni e si raccolgono, e così si compie la na­scita delle cose composte, mentre la morte consiste nel disgregarsi.

I mondi nascono da «vortici» costituiti dal raccogliersi di una massa di ato­mi in un grande spazio vuoto; e vi sono sempre infiniti mondi, alcuni eguali fra lo­ro, altri disuguali, alcuni in formazione, altri già compiuti o in dissoluzione: «in una parte nascono mondi, in un'altra ne scompaiono». Posti gl'infiniti atomi sempre in moto nell'infinito vuoto, non vi son mai gli atomi a sé e poi i composti, ma infinite composizioni e scomposizioni che si ricompongono in altre composizioni.

Uomo, come ogni altra realtà, è un insieme di atomi, di atomi sottili e sfe­rici, ignei - aerei (anima) che reggono in unità atomi più pesanti e compatti (corpo); nell'equilibrio fra questi atomi consiste la vita, che si mantiene finché gli atomi co­stituenti l'anima, e gli atomi dell'aria esterna, mediante la respirazione, si equili­brano a vicenda. Il muoversi degli atomi determina nell'uomo quelle che diciamo sensazioni: più precisamente il sentire è un movimento causato nel soggetto dall'azione di effluvi di atomi che provengono dai corpi esterni. Tali effluvi di ato­mi sono le immagini (èidola) delle cose, concepiti come materiali: così tra i sensi dell'uomo e i fenomeni presi in sé si vengono a collocare come intermediari le im­magini delle cose che propriamente sono ciò che l'uomo direttamente conosce.

Come la sensazione, così il pensiero nasce dal sopraggiungere delle imma­gini dal di fuori: fra l'una e l'altro non v'è differenza qualitativa (l'intelletto è l'ani­ma stessa, e questa è composta da atomi), ma vi è solo una maggiore o minore sot­tigliezza; pur restando difficile stabilire la differenza fra due livelli di conoscenza, una volta che sensazione e pensiero sono ricondotti direttamente all'azione di ato­mi sugli organi del corpo, Democrito distingue una conoscenza oscura cui appar­tengono le qualità sensibili, e una vera che giudica di quella prima conoscenza sen­sibile e «che ha l'organo più sottile nella mente». Resta tuttavia che il conoscere per Democrito, essendo legato all'azione delle immagini delle cose sui sensi - imma­gini che costituiscono una realtà a sé stante, proveniente dalle cose -, non può com­prendere «quale in verità sia ciascuna cosa». Di qui da un lato un certo scetticismo insito nella posizione democritea («in verità non sappiamo nulla: nel profondo è la verità»), dall'altro il carattere convenzíonale del sapere: sono infatti gli uomini a im­porre i nomi (espressioni convenzionali) alle immagini delle cose che conosce. Co­sì le voci, dapprima «prive di significato e inarticolate», si determinano poi in paro­le, «espressioni convenzionali», indicanti i «simulacri», ma non aventi nessun rap­porto di coincidenza con la natura dell'aggregato che designano.

Secondo la testimonianza di Ecateo di Abdera (democríteo del IV secolo), Democrito avrebbe tracciato una storia del progresso della società umana. Gli uo­mini, dapprima isolati e in balìa delle fiere, sotto la spinta del timore avrebbero co­minciato a organizzarsi in società e ad articolare parole come espressioni conven­zionali per indicare i vari oggetti; secondo le varie società che si vennero formando in vari luoghi nacquero per convenzione le varie lingue. Usciti così dallo stato feri­no con la nascita del linguaggio e della vita associata, gli uomini vennero poi sco­prendo le varie arti, per migliorare le loro condizioni, e le strutture politiche per il giovamento comune. Si delinea così un profilo di storia dell'umanità in cui tutto si svolge e si determina per opera dell'uomo, entro confini umani. In quest'ambito non c'è posto per dottrine religiose che sono nate ‑ come la credenza negli dèi ‑ dal terrore e dall'ignoranza dei primi uomini innanzi a fenomeni naturali di cui non conoscevano le cause. Inutili quindi le pratiche religiose: l'uomo solo è padrone del proprio mondo e deve fare affidamento solo sulle proprie forze.

Coerente a questa concezione è l'etica di Democrito fondata sull'equilibrio dei moti dell'animo e del corpo: se il criterio dell'utile e del dannoso sta nel pia­cere e nel dolore, la felicità nasce dalla misura del piacere, dalla repressione dei moti sfrenati, degli eccessi, che danneggiano il corpo e l'anima; il saggio si pone sopra le passioni, ama il bene per sé, si astiene dal male non per paura ma per do­vere. Distaccandosi dagli immediati godimenti sensibili, sempre legati a oggetti caduchi, il sapiente godrà della «tranquillità dell'animo», cioè di quello «stato in cui l'animo è calmo e equilibrato, non turbato da paura alcuna o da superstizioso timore degli dèi o da qualsiasi altra passione».

Essenziale dunque è in Democrito questo richiamo all'uomo che costruisce sia la conoscenza scientifica e il linguaggio, sia la sua etica, la società, la storia. Al­trettanto importante è, infine, ricordare un altro punto che riguarda la possibilità dell'uomo di costituire il proprio mondo in quanto ricostruisce la natura in ter­mini geometrici e matematici. Siccome, infatti, tutto scaturisce nello spazio (esten­sione) dall'incontro di atomi, tutto è traducibile in termini di figure (corpi) e dei loro rapporti quantitativi (misure e calcoli: aritmetica).

Tutte queste problematiche vennero convergendo in Atene dal 455 a.C. circa. Platone, nel Parmenide, sottolinea che fu in quest'epoca che, in Atene, fecero enorme impressione il pensiero del «venerando e terribile» Parmenide e la proble­matica di Zenone. Attraverso Anassagora, i sofisti, Democrito, le vecchie e cristal­lizzate concezioni entrarono in crisi: di questa crisi il grande interprete fu Socrate.

 

 

Epicuro: Atomi e vuoto

 

La sensazione, che è alla base di ogni conoscenza, attesta l'esistenza della corpo­reità. Ma ciò che è corporeo, in quanto esteso, è divisibile all'infinito e, perciò, im­plica, perché non si riduca al nulla impensabile («niente viene da ciò che non è»), un'altrettanto infinita serie di non passaggi, di individui (in greco atoma), concet­tualmente non riducibili ad altro (minima, elàchista). Essi in sé sono indivisibili. Epicuro chiama semi gli atomi, perché non possono essere pensati né come punti fisici (ulteriormente divisibili), né come enti matematici (mere astrazioni), ma co­me principi da cui tutte le cose sono generate. Inoltre, ogni corpo, in quanto deli­mitazione di spazio, è in un luogo (tòpos). Come, dunque, i corpi suppongono gli .7tomi (minima), i luoghi suppongono un luogo che li contiene tutti e permette il movimento degli atomi, e che, perciò, non ha alcun luogo (il luogo dei luoghi): non luogo, ma vuoto (chenòn), inteso non come contenente, ma come spazio, pura estensione (non a caso detta da Epicuro, con termine ricavato dal Timeo di Platone, chòra). La divisibilità all'infinito implica un'infinita serie di indivisibilità.

Chòra (o vuoto) ed atomi sono dunque le uniche vere realtà, condizioni dell'esistenza di qualsiasi corpo e di qualsiasi movimento, alle quali si giunge dal­ testimonianza dei sensi (corpi e luoghi) «mediante la ragione». Ogni esistente

un incontro di atomi che costituiscono i corpi: gli atomi, secondo il loro recipro­co rapporto, costituiscono la forma o schema per cui in un determinato rapporto gli atomi sono questo essere individuale, in altro rapporto un diverso essere individuale; non esistono quindi essenze, strutture permanenti al di là della varia configurazione degli aggregati di atomi. Epicuro sottolinea che tutta la realtà sca­turisce dall'incontro degli atomi, diversi solo per forma, grandezza, e aventi tutti un loro peso e, perciò, in sé ciascuno avente un movimento. Come per Democrito, gli atomi non si differenziano qualitativamente, ma solo per caratteristiche quantitative; molto importante, rispetto a Democrito, è la considerazione del peso tra le caratteristiche proprie degli atomi, per spiegarne il moto. Il peso degli atomi non è relativo ad altri: è peso specifico; non a caso Epicuro usa il termine barùs. Gli ato­mi si muovono eternamente secondo una direzione rettilinea nell'infinito spazio; in questo spazio, proprio perché infinito, non esistono il basso e l'alto, quali pun­ti di riferimento assoluti, come voleva. Aristotele; con la dottrina epicurea dello spazio infinito cade così la dottrina aristotelica dei «luoghi naturali». Gli atomi dunque vanno nel vuoto secondo una direzione rettilinea, portati dal loro peso, tutti con eguale velocità: dal loro urto reciproco nascono nuove direzioni di mo­to e nascono gli aggregati di atomi, i corpi e quindi i mondi, infiniti, «in parte si­mili al nostro, in parte dissimili». Secondo la testimonianza di Lucrezio, l’urto fra

gli atomi avverrebbe perché nella loro caduta essi deviano dalla perpendicolare (deviazione: clinamen), scontrandosi gli uni con gli altri: «se gli atomi non devias­sero - scrive Lucrezio - tutti cadrebbero come le gocce di pioggia, in giù nel vuo­to infinito, a perpendicolo». Tutto dunque avviene non per necessità, per cui non v'è alcun bisogno di ricorrere a spiegazioni teologiche e finalistiche.