Le crisi carbonifere

L'A.Ca.I, sino all'entrata in guerra dell'Italia, spinge al massimo la produzione. Le vicende belliche, la dichiarazione delle miniere come stabilimenti ausiliari e la conseguente militarizzazione della manodopera, mutano nella sostanza i problemi dell'attività carbonifera. Se nei primi anni è possibile mantenere la produzione sui valori del 1940, con una lieve tendenza decrescente (1.200.000 tonnellate nel 1941 e 1.153.230 tonnellate 1942), nel 1943 si registra un calo vertiginoso (312.208 tonnellate).
Le difficoltà dei trasporti e la riduzione del la manodopera (19.653 occupati prima del 1941; 10.280 nel 1942 e 5.841 nel 1943) arrestano drasticamente l'andamento apparentemente dinamico dell'industria carbonifera di Stato. Il bombardamento dei porti che isola la Sardegna, assieme al razionamento dell'energia elettrica, determina la smobilitazione delle miniere.
Questa prima crisi, anche se legata alla congiuntura bellica, rivela già tutti quei limiti tipici di un'industria sorta sulle fragili basi autarchiche che si ripresenteranno puntualmente nel dopoguerra a normalizzazione avvenuta.
Alla caduta del fascismo, una Commissione dell'Amministrazione Alleata con sede a Carbonia si occupa della ripresa della produzione, che avviene su finanziamenti concessi dal governo Badoglio. Dopo la liberazione il carbone Sulcis rappresenta, con la perdita delle miniere istriane, l'unica vera, grande fonte energetica nazionale.
Per questa ragione, oltre alla persistente chiusura delle importazioni estere e al «prezzo politico» fissato per il carbone Sulcis, la produzione sarda gioca nei primi anni della ricostruzione un ruolo fondamentale.
Sono gli anni della ripresa e di una seconda fase dello sviluppo di Carbonia. L'espansione della città è, infatti, parallela alla ripresa produttiva (1.021.271 tonnellate nel 1946 e 1.199.283 tonnellate nel 1947): lo provano il consistente aumento demografico (si passa dai 33.600 abitanti del 1945 ai 44.164 abitanti del 1947) e il carattere di stabilità che la nuova popolazione immigrata tende ad assumere.
Ma la riapertura dei mercati internazionali avvia Carbonia ad una crisi lenta ma inesorabile. La crisi del bacino carbonifero sardo è legata a numerosi fattori: dai mutamenti profondi nei meccanismi produttivi alla dilatazione del mercato, alla «rivoluzione energetica» provocata dal petrolio, alle nuove tendenze di sviluppo della politica mineraria nazionale.
Anche nel 1947, secondo quanto era avvenuto nel primo dopoguerra, i carboni americani, inglesi, polacchi danno un colpo definitivo al mercato del carbone sardo, ritenuto assai meno ricco degli altri: oltre a un minor potere calorifico, infatti, la presenza di un'alta percentuale di zolfo contribuisce al deprezzamento del carbone Sulcis, che necessita di costose operazioni per il lavaggio.
Negli stessi anni si profila chiaramente, intanto, un mutamento nelle scelte governative, volte a ridurre il più possibile l'intervento dello Stato nell'economia. A farne le spese sono le aziende a capitale pubblico come la Carbosarda che si avvia verso il deficit finanziario (nei primi mesi del 1948 raggiunge la cifra di un miliardo di lire).

Siamo al 1950, la popolazione raggiunge il massimo storico di 47.858 abitanti, già nel 1955 scende a 45.255 ab., con una produzione annua di carbone di 1.100.000 t. (erano 1.295.779 nel 1940), nel 1960 gli abitanti sono 39.847, la produzione scende a 714.144 t.; nel 1965 abbiamo 34.404 abitanti e una produzione di 510.105 t.. Oggi Carbonia ha circa 32.300 abitanti, e sicuramente i flussi migratori sono minimamente influenzati dalla produzione di carbone.

Si susseguono anche i piani per cercare di porre rimedio a questa situazione, il più avanzato viene proposto nel 1948 da Mario Giacomo Levi, allora presidente dell'Azienda Carboni, oltre alla forte presenza di zolfo i problemi sono infatti legati alla mancanza di mercato per il carbone minuto (pezzatura al di sotto dei 10 mm) e dello slamm (il residuo di laveria); il piano prevede l'impianto di una centrale termoelettrica alimentata a minuto e slamm e l'utilizzo del carbone per la produzione di prodotti azotati per l'agricoltura. Il piano viene accolto positivamente dagli operai e diviene uno dei principali obbiettivi della ripresa economica, anche agricola. Tuttavia esso è destinato a naufragare perchè il governo appoggia la politica di due società come la Società Elettrica Sarda e la Montecatini; la prima aveva il monopolio della produzione elettrica nell'isola e non vedeva di buon grado la creazione della nuova centrale fuori dal proprio controllo, la seconda era la società leader nella produzione di prodotti chimici in campo nazionale e avrebbe subito dei contraccolpi negativi, dalla produzione di prodotti azotati con il carbone Sulcis. Il piano rimane quindi sulla carta, solo nel 1950 il Ministero dell'Industria finanzierà la costruzione di una centrale termoelettrica presso Portovesme.

Nel 1952 l'Italia entra nella C.E.C.A. (Comunità Economica del Carbone e dell'Acciaio), a favore della "Carbonifera Sarda" vengono stanziati dei finanziamenti dal 1953 al 1955, per soli due anni, mentre per altre attività i contributi arrivano per cinque anni. Appare evidente che la stessa CECA non crede e non ha interesse nel mantenere in vita l'estrazione carbonifera nel Sulcis. Del resto la produzione carbonifera è in crisi ovunque a seguito del boom dell'industria petrolchimica, la stessa Inghilterra, ricca di giacimenti, vede le sue imponenti miniere in crisi.

Il 1954 vede lo scioglimento dell'Azienda Carboni a seguito del piano Landi per il risanamento e riordino delle miniere, è la smobilizzazione e l'esodo dalla città. Si passa da 9.601 occupati nelle miniere del 1951 a 4.432 del 1961, e l'emorragia sembra inarrestabile.

Nel 1959 rinasce un certo ottimismo, legato alla decisione del governo di costruire una supercentrale da 400.000 chilowattora a Portovesme, a questo si aggiunge la ricezione da parte del governo regionale del piano della società tedesca "Zimmer", che prevede l'utilizzo del carbone Sulcis sia come fonte energetica che chimica. In questo crescente ottimismo si arriva al 1962, si prospetta l'acquisizione di tutte le attività della "Carbosarda" all'ENEL, ma nelle intenzioni di quest'ultima vi è tutto il contrario di ciò che gli operai, i sindacati e la città ambivano. L'ENEL non ne vuole saperne di utilizzare il carbone Sulcis per alimentare la nuova supercentrale, gli preferisce l'olio combustibile, e vuole smobilitare le miniere, anzi sarebbe più propensa a non rilevare le miniere, lasciandole al loro destino ed evitando così problemi di licenziamenti e cassaintegrazione.

L'ENEL chiude progressivamente le miniere, nel 1971 le ultime attive di Nuraxi Figus e Seruci chiudono i battenti. Ad allentare la tensione provvedono la realizzazione di una serie di attività, soprattutto presso Portovesme, a partire dal 1968 sono realizzati gli stabilimenti metallurgici "Amni Sarda", "Eurallumina", "Alsar", "Metallotecnica Sarda", un totale di circa 4.000 posti di lavoro. Oggi molte di queste attività sono entrate in crisi, altre hanno cambiato gestione, appare evidente che la mancanza di diversificazione delle attività porta al ripercuotersi dei periodi di crisi di quel determinato settore su tutto il territorio, una diversificazione delle attività riuscirebbe a rendere meno duri questi periodi, almeno permetterebbe l'assorbimento parziale dei licenziamenti e dei cassaintegrati in altri settori.

Nel 1977 la Regione sarda spinge per il rilevamento delle attività minerarie dalla "Carbosulcis", togliendone all'ENEL la gestione.

Oggi, sulla carta, ci sono alcuni progetti legati al carbone Sulcis, legati alla nuova politica di diversificazione energetica, che secondo stime della Confindustria potrebbe ammontare a circa 3-4 milioni di tonnellate annue. Il nodo da sciogliere riguarda però la creazione del gassificatore, eliminando la componente sulfurea si renderebbe finalmente competitivo il carbone Sulcis, le implicazioni economiche e ambientali sono però da anni oggetto di opinioni contrastanti.


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