L'Afica nera |
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di Filippo Nibbi |
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Poi che il panìco è
il mangime degli uccelli, spostando l’accento della parola sulla
terzultima sillaba, si produce il pànico tra la gente che tiene in casa
un uccello in gabbia in crisi d’astinenza d’incanto e voli, perché
pànico è una parola dotta, magica misteriosa, ingarbuglia,
creando un vero “cumbrugliume”, cum umbra et lumine, come
l’aradio d’una volta, veramente magica,
perché ci si sentiva l’uccellino della Radio, improvvisamente, quasi per
incanto, girando una manopola. Ascoltando l’uccellino della Radio, negli
anni Trenta, l’Africa nera divenne l’Afìca nera e, negli abissini
più profondi, “Sei scoglio o continente?” si chiedeva alla donna nera
che faceva le faccende di casa, per scoprirne lo stato di provenienza,
come quando siamo ragazzi, che uno guarda una ragazza e arrossisce
perché pensa che è innamorata di lui, ma lei pensa a tutt’altro in quel
momento. In Afìca nera le cicale sono trampolieri. Hanno le gambe lunghe come cipressi. Vedi un albero nero, un cipresso, pieno di cicale che cantano, e non capisci se è una cicala con un cipresso dentro o l’altro serio, nero, che accompagna la cicala al cimiterio.
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