Il Manifesto, 18 Aprile 1999

Protettorato Nato modello Bosnia?

JOSEPH HALEVI

L e politiche d'austerità e di aggiustamento strutturale promosse dal Fondo monetario internazionale non sono estranee alla crisi jugoslava così come non lo è stato il mercanteggiamento tra i paesi europei riguardante i criteri di Maastricht. In quest'ultimo caso la disintegrazione della Jugoslavia divenne una pedina dell'intrigo europeo. Il ruolo del Fondo monetario è stato sintetizzato in un limpido articolo scritto nel 1996 da Michel Chossudovsky dell'Università di Ottawa ed intitolato Dismantling former Yugoslavia, recolonising Bosnia, disponibile sul sito http://www.lbbs.org/yugoslavia.htm legato alla pubblicazione di sinistra americana Z Magazine.

Chossudovsky individua due fasi nel ruolo destabilizzante svolto dal Fondo nella storia recente della Jugoslavia. La prima, che va dal 1980 al 1989, consiste nelle politiche richieste dal Fondo per la ristrutturazione del debito estero del paese. Come sempre i prestiti concessi dal fondo si accompagnavano a misure di austerità fondate su alti tassi di interesse e sulla svalutazione del tasso di cambio. La stretta macroeconomica, causando un drastico calo del tasso di crescita dell'economia, contribuì ad indebolire le istituzioni federali nei confronti delle singole repubbliche e di quelle relativamente ricche in particolare. La seconda fase iniziata nel 1990 - quando il paese era ormai passato da un tasso di crescita debole ad uno fortemente negativo - combina la stretta macroeconomica con interventi nelle forme di proprietà.

Tale politica venne pattuita a Washintgon tra il premier federale Ante Markovic ed il presidente Bush nell'autunno del 1989. Fu varata nel gennaio del 1990 grazie ad un un accordo "stand-by" con il Fondo monetario ed un finanziamento della Banca mondiale attinto dalle somme che la banca stanzia per gli aggiustamenti strutturali. Come contrapartita, la Jugoslavia si impegnava ad attuare un pacchetto di restrizione fiscale tale da obbligarla a sospendere le spese per trasferimenti alle repubbliche ed alle regioni autonome per consacrarle invece al rimborso del debito estero. La conseguente paralisi del sistema fiscale nazionale diede un colpo mortale alle istituzioni politiche federali per cui, osserva Chossudovsky, "la crisi di bilancio indotta dal Fmi creò un fatto compiuto sul piano economico che, in parte, aprì la strada alla formale secessione della Croazia e della Slovenia nel 1991". In effetti la repubblica serba si rifiutò di applicare il programma Markovic mentre quelle più sviluppate agivano per svincolarsi dai contributi dovuti al governo centrale. Accanto alle misure macroeconomiche, le riforme richeste da Washington vincolavano il governo di Belgrado ad un programma di privatizzazione delle imprese autogestite nonché di chiusura di quelle in perdita. La maggioranza delle imprese da chiudere si trovava nel Kosovo, in Macedonia ed in Bosnia.

La secessione delle altre repubbliche e la guerra che ne scaturì non ha minimamente cambiato la natura delle politiche economiche delle istituzioni mondiali nei confronti dei neo-staterelli della ex Jugoslavia. Ciascuno di questi stati deve in realtà perseverare nella politica precedententemente definita per l'insieme della repubblica federale.

La Bosnia rappresenta forse il modello di riferimento principale per la trasformazione dell'area in un protettorato Nato gestito economicamente dalle organizzazioni internazionali. La Banca Centrale del paese è sotto il controllo del Fondo Monetario che nomina il governatore (che non deve essere di nazionalità bosniaca né dei paesi confinanti) mentre la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Berd) controlla la commissione da cui dipendono tutte le aziende pubbliche nominandone il presidente. Quest'ultimo ha anche la funzione di guidare il processo di privatizzazione dell'economia. Il controllo della Bosnia da parte del Fondo non ha portato a nessuna moratoria sui debiti ma, nota, Chossudovsky, ad una situazione paradossale per cui la maggioranza dei nuovi prestiti viene concessa per pagare gli arretrati. Di fronte a questa realtà gli attuali discorsi dei dirigenti tedeschi su un presunto patto di stabilità nei Balcani è pura propaganda ideologica.

La disperata e suicida corsa all'indebitamento per pagare i debiti, partita al galoppo durante il governo federale di Ante Markovic, significava in realtà indebitarsi per pagare la Germania e l'Austria, paesi nei cui confronti la Jugoslavia realizzava il grosso del deficit nella bilancia dei pagamenti. Contemporaneamente però Bonn e Vienna tagliavano l'erba sotto i piedi del governo federale premendo sulla Slovenia e la Croazia affinché si sganciassero dalla Jugoslavia. Mentre la pressione tedesca si organizzava l'Europa faceva da paravento: ancora nell'estate del 1991 la Comunità Europea forniva un prestito a Belgrado di 850 milioni di dollari ponendo come condizione il mantenimento dell'unità del paese. In tal senso la responsabilità tedesca non risiede solo nella prematurità del riconoscimento della Slovenia e della Croazia, come sostiene Helmut Schmidt nell'intervista al settimanle svizzero Hebdo riportata dal manifesto. Bonn ha prima deliberatamente fuorviato l'Europa e dopo ha gettato la crisi jugoslava sul tavolo delle trattative concernenti Maastricht e il processo d'unificazione europea.

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