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ATTUALITA |
lunedi
10 Dicembre 2001
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pag. 12 |
Enron, uno scandalo americano da cui non si
salva nessuno Manager amico di Bush FEDERICO
RAMPINI
L’unica che ne esce a testa alta è la stampa. In particolare
The Wall Street Journal, che negli ultimi quattro mesi con tre scoop
ha costretto la Enron a uscire allo scoperto: il 28 agosto di
quest’anno, il quotidiano finanziario accusava l’azienda di non
fornire informazioni adeguate sui suoi conti; il 17 ottobre lo
stesso giornale rivelava la possibile riduzione di valore di 1,2
miliardi di dollari; l’indomani denunciava le transazioni equivoche
con societàpartner attraverso le quali alcuni dirigenti di Enron si
erano arricchiti (e avevano occultato il vero indebitamento del
gruppo). Non fosse stato per il Wall Street Journal, chissà per
quanto tempo ancora i vertici del colosso texano avrebbero cercato
di rinviare la resa dei conti. Tutti gli altri, tutti coloro che per
dovere istituzionale o per mestiere avrebbero dovuto avvertire gli
azionisti e impedire la catastrofe, dormivano sonni profondi.
Nell’ordine: i certificatori di bilancio (Arthur Andersen), le
autorità di vigilanza della Borsa (Sec), le agenzie di rating, i
fondi comuni di investimento (alcuni hanno continuato a comprare
azioni Enron tra agosto e ottobre), le banche. Insieme ai dirigenti
Enron, tutti costoro hanno responsabilità immense nell’aver
provocato il più grosso fallimento della storia americana, un crac
che ha messo in liquidiazione giudiziaria un gruppo da 62 miliardi
di dollari (e che all’apice della sua fortuna aveva toccato i 90
miliardi di dollari di capitalizzazione in Borsa). La storia
della Enron è un condensato di lezioni sugli eccessi e gli errori
degli anni 90: dalla liberalizzazione energetica a Internet, dalla
crescita dei fondi pensione privati al boom dei derivati, quasi
tutti i fenomeni più caratteristici del capitalismo degli ultimi
dieci anni sono chiamati in causa in questo disastro. Tutto è
accaduto a una velocità impressionante. Ancora pochi mesi fa la
Enron era oggetto di un culto, era una società venerata dal mercato
e studiata in tutti i manuali di management per la sua capacità di
innovazione. Creata nel 1985 dalla fusione tra la Houston Natural
Gas e un’azienda di gasdotti, negli anni 90 la Enron si presentò
come la protagonista di una rivoluzione: sostituendosi alla
maldestra regolazione statale, l’azienda texana avrebbe cambiato la
produzione, il commercio, la vita economica del pianeta. Partita
dall’energia, grazie alla padronanza di Internet e della finanza
derivata (futures e opzioni) la Enron divenne un pioniere in tutti i
mercati dove si scambiano contratti «reali» e contratti «virtuali»,
partite di merci fisiche o coperture di rischi futuri. In un mondo
dove ogni azienda cerca di ridurre l’incertezza a cui è esposta —
per esempio l’incertezza sul prezzo futuro di una materia prima che
essa vende o acquista — la Enron era diventata un punto d’incontro
obbligato fra domanda e offerta, era in grado di mettere in contatto
ogni tipo di acquirente e venditore, e di garantire entrambe dalle
fluttuazioni dei prezzi. Partita dal petrolio e dal gas, si era via
via allargata a tutte le materie prime, dai metalli alla carta.
Aveva inventato strumenti finanziari esotici per quantificare — e
coprire — perfino il rischio meteorologico: alla Enron si potevano
scambiare anche i futures sul tempo. Aveva messo insieme 21.000
dipendenti, un esercito di talenti commerciali e finanziari senza
eguali al mondo. Dietro il nome Enron ormai si nascondeva, più che
un singolo business come quello energetico, un vero e proprio impero
finanziario, un conglomerato di Borse virtuali. Era una banca
globale che gestiva miliardi di dollari altrui in ogni giornata,
senza essere sottoposta neppure ad una frazione di quei controlli e
di quegli obblighi di capitalizzazione e di solvibilità a cui le
banche normali sono tenute in tutti i paesi industrializzati, sotto
la vigilanza delle autorità monetarie. Alan Greenspan può sapere in
ogni istante qual è la posizione finanziaria netta della Bank of
America o di Citigroup, ma sulla Enron era pressoché sprovvisto di
poteri. Alla fine i dirigenti della Enron si sono dimostrati più
dannosi dei peggiori burocrati. Dopo aver esaltato la deregulation e
la liberalizzazione energetica in nome della superiore efficienza
del mercato, hanno distrutto 60 miliardi di dollari di ricchezza in
pochi mesi: è difficile trovare dei burocrati statali capaci di fare
tanto danno in così poco tempo. Peraltro la Enron nonostante
l’ideologia iperliberista ha avuto con il potere politico rapporti
fin troppo stretti, e questo aggiunge allo scandalo. La società
texana e il suo presidente Kenneth Lay figurano al primo posto
assoluto nella lista dei finanziatori ufficiali della campagna
presidenziale di George W. Bush. Alcuni dei più importanti
collaboratori del presidente — il capogabinetto Karl Rove, il capo
dei consiglieri economici della Casa Bianca Larry Lindsey, il
ministro del Commercio estero Robert Zoellick, il sottosegretario
alla Difesa Thomas White — erano stati fino a tempi recentissimi a
libro paga della Enron, come consulenti o manager dell’azienda.
Tutti avevano posseduto consistenti pacchetti di azioni e stock
options, per loro fortuna liquidati prima del disastro (l’obbligo di
rispettare le leggi americane sul conflitto d’interessi...in questo
caso è stato un vero colpo di fortuna per gli interessati). Lo
scandalo più grave riguarda le manovre che i dirigenti Enron hanno
fatto con i propri titoli, quando solo loro sapevano del disastro
imminente. Il presidente Lay aveva già guadagnato personalmente 123
milioni di dollari nel 2000 (profitto netto) con le sue stock
options, e altri 25 milioni di dollari quest’anno. Negli ultimi mesi
prima del crac, i top manager della Enron hanno venduto azioni
proprie per 275 milioni di dollari: giusto in tempo per liquidare i
propri titoli a un buon prezzo, prima che uscissero le rivelazioni
sui loro trucchi contabili provocando il crollo del titolo (dai
massimi di 90 dollari, l’azione Enron è precipitata fino a pochi
centesimi). Non sono stati altrettanto fortunati i loro dipendenti,
che hanno perso complessivamente 850 milioni di dollari nei fondi
pensione. Alla Enron, infatti, il 62% del portafoglio dei fondi
pensione aziendali (i cosiddetti conti 401K) era composto di azioni
proprie, che la società versava come suo contributo al risparmio
previdenziale dei dipendenti. Il regolamento del fondo pensione
Enron vietava ai dipendenti di vendere azioni prima di aver
raggiunto l’età di 50 anni. Inoltre, per un cambio di gestione
accaduto proprio nei mesi scorsi, tutti i fondi pensione 401K sono
stati congelati — con l’impossibilità di compiere transazioni sui
titoli — poco prima del crollo in Borsa. I dipendenti vedevano
volatizzarsi la propria pensione senza poter fare nulla; i capi si
erano già messi al sicuro. Pochi giorni prima di dichiarare il
fallimento, inoltre, i vertici dell’azienda hanno distribuito
«premi» speciali in busta paga a un ristretto numero di manager
fedelissimi, per 55 milioni di dollari. La giustificazione:
bisognava trattenerli dal fuggire in massa, per garantire una
operatività della Enron durante la liquidazione fallimentare. Per la
massa dei 15.000 dipendenti, invece, appena è scattata la procedura
di liquidazione sono partite lettere di licenziamento con una
modestissima liquidazione di 4.500 dollari a testa. Su questi ed
altri episodi ora la magistratura e un paio di inchieste
parlamentari cercheranno di fare luce. La deregulation elettrica
è uno degli imputati nel caso Enron, ma non è il solo. Certo la
liberalizzazione dei mercati energetici ha portato a risultati
sconcertanti negli Stati Uniti, dalla crisi della California al crac
Enron.
La causa sta nel fatto che la liberalizzazione è
stata totale e selvaggia a monte (nella produzione) e limitatissima
a valle (nella distribuzione agli utenti) creando strozzature e
inefficienze aggiuntive, nuove rendite oligopolistiche e possibilità
di manipolazione dei mercati per gli operatori dominanti come la
Enron. Inoltre l’America ha creduto di poter creare concorrenza con
poche regole e deboli autorità di vigilanza: i poteri di controllo
su quel che accade nel mercato energetico sono ridotti. Ma l’energia
è solo un aspetto del disastro Enron. Grazie alle potenzialità
tecnologiche di Internet e alla sofisticazione dei derivati, la
BorsaEnron intermediava di tutto. Sfruttando la mancanze di regole
sui nuovi mercati liberalizzati, e l’inefficienza dei controlli, la
Enron era diventata da sola una «bolla finanziaria» il cui
funzionamento imponeva livelli enormi di esposizione, che si
reggevano unicamente sulla fiducia. Il trucco usato dai dirigenti
che creavano societàpartner esterne, si facevano prestare da queste
fondi importanti, e le ripagavano in azioni Enron, era un tipico
meccanismo di creazione di credito al di fuori di ogni regolazione e
di ogni vigilanza centrale. Quando la fiducia si è spezzata, la
bolla si è sgonfiata. (Ironia della sorte, a far girare la fortuna
sono stati inizialmente degli investimenti sbagliati ma abbastanza
tradizionali, nelle attività originarie della vecchia Enron: una
centrale elettrica in India, una in Brasile, impianti di
distribuzione dell’acqua). Gli unici ad aver avuto una fiducia cieca
fino all’ultimo sono stati i certificatori di bilancio, le società
di rating, la Sec le banche, gli analisti finanziari. Se costoro non
pagheranno neanche questa volta, di casi Enron ne vedremo ancora
tanti.
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