Castel Ivano

Vi faremo conoscere una località turistica del Trentino, dove la natura custodisce la storia e la cultura dei tempi passati. Quanti di noi avranno sognato di vivere in un castello, invece di trovarsi immersi nei rumori assordanti della città...
Ma noi tramuteremo il sogno in realtà, guidandovi all'interno del Castel Ivano, un sontuoso maniero, a cui fa da splendida cornice la natura che protegge la sua millenaria storia.

La storia di Castel Ivano è molto complessa: le vicende storiche sono condizionate dalla sua collocazione geografica. E' stato costruito in vetta ad un colle lungo la Valsugana, che è una stretta valle tra il Trentino-Tirolo e la pianura veneta, lungo il fiume Brenta. Diverse popolazioni (i Galli, i Romani, i Goti e i Longobardi), risalendo il fiume, sono arrivate in questo luogo. La costruzione del primo nucleo fortificato risale al 590 d.C. e si deve proprio ai Longobardi che, probabilmente, eressero anche i vicini Castelli Telvana, Selva e Pergine.
Un documento, datato 13 giugno 1187, ci fornisce per la prima volta notizie di un "signore di Ivano".
I signori di Ivano erano delegati di potere (ministeriali) del vescovo di Feltre, al quale apparteneva la Bassa Valsugana, detta anche Feltrina, per investitura di Corrado il Salico avvenuta nel 1027; l'anno seguente si impossessò del castello Ezzelino da Romano.
Successivamente gli Scaligeri si impadronirono del maniero e sulla torre affrescarono il proprio stemma; alla lega contro i signori di Verona, promossa dai Veneziani, parteciparono anche Carlo di Lussemburgo e Giovanni di Carinzia, figli del re di Boemia e a loro il vescovo di Feltre concesse la giurisdizione sulla Bassa Valsugana.
Nel 1365 Francesco da Carrara si impadronì del castello, nonostante la strenua opposizione di Biagio da Ivano.
Lo stemma delle ruote del carro dei Carraresi è quello che si vede tuttora sulla torre, affrescato sopra al pendente degli Scaligeri.
Nel 1388 Gian Galeazzo Visconti, Signore di Milano, si impadronì dei territori già appartenenti a Francesco da Carrara e li governò fino alla sua morte.
Nel 1413 la Valsugana rientrò nell'orbita di casa d'Austria e in essa rimarrà per ben cinque secoli.
Massimiliano I d'Asburgo affidò il castello di Ivano ai conti di Wolkenstein-Rodenegg, come feudo pignoratizio: si può ammirare lo stemma di questo casato sulla torretta dell'antico ingresso.
Da questo momento muta l'importanza storica del Castello di Ivano, per tanti i secoli così notevolmente presente nelle vicende della Valsugana, anche per le funzioni giurisdizionali.
Il conte Leopoldo di Wolkenstein lo ereditò dallo zio omonimo e consolidò soprattutto la funzione di abitazione privata e di salotto di incontri culturali. Questa fase termina con il conte Antonio Wolkenstein, che fu anche ambasciatore d'Austria a San Pietroburgo.
Durante la prima guerra mondiale Castel Ivano fu sede del Comando di divisione e subì enormi danni e devastazioni.
I conti Wolkenstein, di cultura e lingua tedesca, abbandonarono il luogo e cedettero il castello alla famiglia Staudacher che, da allora, ha preso l'impegno di conservare vivo il ricordo di un luogo di così alto significato storico, soprattutto per la Valsugana sud-orientale.
Il castello visse però anche vicende di gloria e potenza quando divenne sede, quale feudo tirolese, dell'importante giurisdizione confinante con le terre venete.
Illustri ospiti, nel corso dei secoli, poterono ammirare, dalle finestre gotiche, la verde e tranquilla plaga animata dagli ameni paesi di Ivano Fracena, Samone, Spera e Strigno.
Questi borghi, circondati dalla fertile campagna, ricordano ancora, in alcuni aspetti architettonici, le attività economiche del passato, come, ad esempio, l'allevamento del baco da seta, particolarmente importante nella prima metà dell'Ottocento, quando a Strigno erano in attività ben otto filande o nei primi decenni del Novecento, quando le campagne profumavano dell'acre aroma del tabacco. Ora la terra produce frutta di qualità ed i declivi che separano Strigno da Spera sono rinomati per la pregiata produzione di castagne.
Pittori vaganti vennero fin qui lungo tutto il corso del Medioevo, seguendo dapprima quanto rimaneva della grande via imperiale romana e poi lungo le più agevoli vie commerciali, segnate da ospizi ed eremitaggi come quello, antichissimo, di San Vendemiano, nei pressi di Ivano Fracena. Portarono pennelli e colori fin entro le più piccole chiese dei più isolati paesi.
Ne sono testimonianza gli affreschi della chiesa cimiteriale di sant'Apollonia di Spera, opera di un artista che ripropone in maniera ingenua, ma affascinante, il gusto trecentesco d'area veneta o quelli, altrettanto interessanti, della chiesa di san Donato di Samone.
L'atmosfera raccolta e suggestiva di questi antichi edifici si armonizza splendidamente con i tortuosi sentieri, delimitati dai muri a secco, un tempo frequentati da pellegrini, viandanti e dai mercanti girovaghi che da questi paesi emigravano, d'inverno, in tutte le zone dell'Impero Austro-Ungarico.
L'ultima preghiera era per la popolaresca santa Caterina o per il grande san Cristoforo, che sempre offrirono protezione agli abitanti nei molti momenti di pericolo causati dall'impeto dell'acqua o del fuoco ma, soprattutto, dalle ricorrenti malattie che mietevano vittime fra gli uomini e gli animali. Assume quindi un valore del tutto particolare seguire queste antiche vie, impresse nella storia del luogo, che offrono, ad ogni curva, un aspetto nuovo e stimolante, nella splendida fusione tra il colore caldo delle antiche pitture e la cristallina trasparenza dell'aria.
Il paesaggio dei dintorni di Strigno è dominato soprattutto dalla slanciata cuspide gotica della chiesa pievana dell'Immacolata, che offre un garbato contrappunto alla campanella tintinnante della cappella seicentesca dedicata alla Madonna di Loreto, piccolo santuario assai caro alla popolazione del circondario. Le origini del paese si perdono nella notte dei tempi, come testimonia il ritrovamento delle strutture abitative di un insediamento preistorico sul dosso di Penile. Sul vicino "Colle delle Castellare" fu fondato invece l'antico castello di Strigno, demolito nel corso dei fatti d'arme del 1365 e non più ricostruito.

I boschi sembrano dipinti con il verde più profondo che la natura sa esprimere, chiazzati dalle brune sporgenze delle rocce e dall'immacolato colore dei fiori che si riflettono negli innumerevoli specchi lacustri. Vi sono poi plaghe vastissime ed incontaminate, particolarmente adatte per escursioni a cavallo o con la "mountain bike". Non di rado, salendo lungo i sentieri che partono dalla valle, accade di incontrare un timido capriolo o qualche altro animale della ricca fauna che, fortunatamente, popola ancora il gruppo del Lagorai.
Corsi d'acqua fragorosi scendono a precipizio verso valle, dove vanno ad ingrossare il torrente Chieppena che lambisce l'abitato di Strigno o il Maso che si immette, un po' più ad occidente, nel fiume Brenta.
Anche il monte Lefre, specie di baluardo naturale posto in posizione predominante, offre innumerevoli possibilità di passeggiate tra boschi e radure, tra malghe, masi di monte; la flora presenta caratteristiche di grande interesse.
Scendere nell'ora del crepuscolo verso i paesi disseminati nella valle, mentre le ombre degli alberi si allungano sui prati abbelliti dai fiori, costituisce un'esperienza degna di essere vissuta. Le ultime luci del giorno rendono ancora più attraenti le deliziose architetture di ballatoi e scale di legno che sembrano rincorrersi.
E' un momento magico, che ci porta a desiderare di godere la cordiale, familiare accoglienza degli alberghi, dei vari agritur e delle case private, dove si può assaporare il gusto più schietto della cucina valsuganotta.

E' dunque una possibilità di turismo diverso quella offerta dai paesi di Ivano Fracena, Samone, Spera e Strigno, una riscoperta della natura, dell'arte e della storia, secondo ritmi e tempi di tutta distensione, in un ambiente umano e naturale di grande simpatia e viva suggestione.
Ma ora, ritorniamo all'interno di Castel Ivano per rivivere assieme una leggenda che ci porterà negli anni più bui del Medioevo.

NARRATORE: - I castelli sono sempre legati, nella memoria popolare, a truci fatti di sangue e a delitti efferati.
Nemmeno Castel Ivano, oggi noto centro di cultura, sfugge alla regola. In un passato che ormai si perde nelle nebbie del tempo, i suoi castellani compirono azioni atroci; per punirli, dice la leggenda, il Signore condannò le loro anime a vagare in eterno, in un prato ai piedi del colle dei Fabbri. Nelle notti di luna, dovrebbe esser possibile scorgerle ancor oggi, diafane e inquiete: certamente, dall'alto delle mura, le scorgeva Biagio di Castel Ivano, detto anche delle Castellare, uno dei castellani più feroci del suo tempo; non che lui ci facesse gran caso... no! semmai lo distraevano mentre aspettava che il suo boia introducesse qualche prigioniero disgraziato nella camera di tortura.

BIAGIO: - Mi divertivo molto di più, a sentire i versacci delle streghe, che, nelle notti di vento, erano solite radunarsi nella stanza all'ultimo piano del Palazzo di Qua.
Arrivavano a cavallo delle loro scope e subito era baruffa.
Molte volte ho tentato di sorprenderle per afferrarne almeno una e metterla alla ruota, ma invano... sarebbe stato eccitante misurarsi con un essere del genere... magari per aiutarla a sfuggirmi!... avrebbe potuto intervenire anche il diavolo, ma, nemmeno lui sarebbe riuscito ad avere la meglio su di me.

NARRATORE: - Si diceva, infatti, che nessuno al mondo poteva avere la meglio su Biagio di Castel Ivano, guerriero temerario e intraprendente, gran cacciatore e uomo senza pietà.

Lui, le brutte figure, le faceva quando si recava alla Corte degli altri castellani: ignorante e rozzo, si trovava a disagio negli abiti eleganti, non sapeva inserirsi in una conversazione colta e, invariabilmente, reagiva con violenza e sorrisetti ironici alle frecciatine dei cortigiani... non parliamo poi del suo modo di corteggiare le dame!

NARRATORE: - Di tanto in tanto però, anch'egli doveva fare buon viso a cattiva sorte, e farsi vedere tra i suoi pari. Quando non poteva proprio farne a meno, saltava a cavallo e galoppava fino alla corte di suo zio, il potente Siccone di Caldonazzo.
Fu lì che un giorno notò una bellissima nobildonna, alta e snella, aveva dei lunghi capelli biondi che l'avvolgevano come un manto.
Osservandola, Biagio si ricordò di esser sempre vissuto da scapolo e decise che era tempo di dotare il suo feudo di una castellana: quella sembrava proprio la donna adatta! Così, spingendo da parte a gomitate un paio di gentiluomini, che, secondo lui, le stavano facendo troppi complimenti, la squadrò ben bene, dicendo:

BIAGIO: - Ehilà, pollastrella! mi piaci! Prepara gli straccetti e gli ammenicoli che a voi donne piacciono tanto: presto ci sposeremo.

NARRATORE: - La dama lo fissò con occhi sgranati, poi, sprezzante, rispose:
LA DAMA: - Come osate, tanghero che non siete altro, ringraziate Dio che mio marito non sia presente, perché, altrimenti, vi avrebbe già infilzato con la sua spada!

NARRATORE: - Il marito della dama era un nobiluomo vicino all'Imperatore: per questo Siccone di Caldonazzo, che, per caso si trovava lì vicino, udito questo breve alterco, fece cacciare Biagio dalla sua Corte a pedate e Biagio non gliela perdonò mai più.
Tornato a Castel Ivano, cominciò a covare in cuor suo un odio feroce per il suo drastico parente e per tutti quelli che sapevano conversare bene, essere galanti con le donne e rendersi bene accetti ovunque andassero.
A modo suo cercava di consolarsi per lo smacco subito, dicendosi:
BIAGIO: - Ma io sono Biagio, sono forse il più grande guerriero dell'Impero: quando mi vedono tutti tremano!

NARRATORE: - E per sfogare la sua rabbia faceva acciuffare dai suoi sgherri qualche povero villico e ordinava di trascinarlo nella camera di tortura e di sottoporlo alle più inaudite sevizie.
Le sue urla disperate giungevano oltre le massicce mura del Castello e la gente che le udiva tremava per l'orrore.
Intanto il tempo passava... Di tanto in tanto Biagio si preoccupava al pensiero di non aver ancora una moglie ed un erede; allora mandava messi alla Corte dei suoi vicini per studiare il modo migliore per ottenere una loro figlia in moglie; ogni tentativo però risultava inutile.
La brutalità di Biagio lo aveva reso inviso a tutti, ma ogni volta che riceveva un rifiuto, Biagio reagiva urlando:

BIAGIO: - Tenetevele le vostre oche!... mia moglie dovrà essere molto più bella di loro: alta, elegante, con biondi capelli, tanto lunghi e folti da sembrare un manto.

NARRATORE: - Evidentemente il suo pensiero era sempre volto a quella dama adocchiata alla Corte di Caldonazzo.
Un giorno sembrò proprio che il destino si volgesse in suo favore.
Accadde che Francesco da Carrara, signore di Padova, dichiarasse guerra a Siccone. Biagio, non appena ebbe udita la notizia, saltato a cavallo, si precipitò fuori dalle mura del maniero, alla testa dei suoi soldati, veloce come il vento corse di paese in paese urlando:

BIAGIO: - Uomini, qui in Valsugana, sta arrivando Francesco da Carrara: con i suoi prodi sbaraglierà una volta per tutte i caldonazzesi e ucciderà quel prepotente di Siccone.
Egli pagherà il giusto prezzo l'avermi cacciato dalla sua Corte.
Uomini!... venite con me, a combattere a fianco del signore di Padova!

NARRATORE: - Ma ben pochi risposero al suo appello: i più erano riusciti a precedere il suo arrivo andando a nascondersi nei boschi.
Infine Biagio osò perfino forzare i confini del Tesino, territorio dello zio Siccone di Caldonazzo, per incitare la popolazione alla rivolta.
Ma i villici, che ben conoscevano la sua ferocia e le nefandezze che continuamente andava perpetrando, armatisi di falci, badili e picconi, fecero fronte a lui e al suo manipolo di soldati, costringendoli a fuggire. Pazzo d'ira, ma impotente di fronte a tanta audacia, Biagio dovette accontentarsi di accorrere con i suoi là dove già ferveva la battaglia: i nitriti dei cavalli e il fragore delle armi risuonavano alti nell'aria e il terreno era già rosso di sangue.
Biagio, eccitato dal suo odore, si gettò nella mischia, menando gran colpi.
Abile cavaliere e guerriero temerario, riuscì ben presto ad aprirsi un varco; i nemici che, disarcionati cadevano a terra, venivano passati a fil di spada dai suoi soldati e la polvere alzata dagli eserciti era tale da oscurare il cielo.
A sera le truppe di Siccone volsero in fuga e Francesco da Carrara rimase padrone del campo.
Ancora il giorno seguente, come ricompensa per l'aiuto prestato, egli donò a Biagio di Castel Ivano tutto il Tesino.
Per il signore di Castel Ivano era giunta l'ora della vendetta.
Alla testa dei suoi si precipitò di paese in paese, incendiando, devastando e uccidendo.
Poi corse nella foresta e scovò molti tesini che vi si erano nascosti.

BIAGIO: - Non avevano voluto arruolarsi sotto le mie bandiere, mi avevano fatto fronte ed io li feci trascinare fino al mio Castello, portare ad uno ad uno nella camera di tortura e, messi alla ruota, torturati col fuoco e le corde e, infine, quando non erano proprio più in grado di avvertire il dolore, li feci gettare nella botola rivestita di lame taglienti da cima in fondo.

NARRATORE: - Simili orrori non potevano certo passare inosservati.
La povera gente, tremante d'orrore, udiva giorno e notte le urla dei suppliziati ed i Tesini scampati alla cattura, benché nascosti, cominciarono a tramare piani di vendetta.
Di tanto in tanto Biagio se ne usciva a cavallo dal suo maniero; forse, in una di quelle sue passeggiate solitarie, lo si sarebbe potuto aggredire, uccidere, ma non si poteva sbagliare il colpo: bisognava studiarlo bene...
Intanto una sera, passando accanto ad una casa semi diroccata e apparentemente deserta, Biagio udì qualcuno singhiozzare disperatamente... Tese l'orecchio, sì! sembrava il pianto di una donna: "speriamo che sia giovane e bella", si disse e, soddisfatto per aver trovato il piacere della notte successiva, ordinò alla scorta, che quel giorno era con lui, di andare a cercarla e portarla alla sua presenza.
Dopo un po' udì un urlo lacerante della donna e i passi dei suoi che ritornavano trascinandola.
Sembrava un fagotto di stracci, lacera e sporca com'era... però aveva qualcosa di familiare... Biagio ordinò che le avvicinassero una torcia al viso, sì! sì! era proprio lei, la dama tanto desiderata, colei che a Caldonazzo lo aveva respinto con sprezzo e disse:
BIAGIO: - Per tutti gli Dei, è proprio la mia pollastrella: adesso non potrai più sfuggirmi, bella mia!

NARRATORE: - Le guardie gli dissero di averla trovata accanto ad un ferito moribondo e di averlo subito finito con le spade.
Tutto contento, Biagio esclamò allegramente:
BIAGIO: - Benissimo! Allora adesso la" signora no" è anche vedova! Pensate che fortuna, bella mia, invece che marcire in quella cantina vivrete nel mio bel Castello, con il solo compito di divertirmi e, se lo vorrete, avrete i più bei vestiti e i gioielli più preziosi del regno.

NARRATORE: - A queste parole la bella signora, liberatasi con uno strattone dalle mani degli armigeri, tenendosi ben dritta, fissò Biagio.
I lunghi capelli biondi svolazzavano al vento come una bandiera, ed il viso, bagnato di pianto, aveva un'espressione dura.
Con voce tagliente disse al signorotto:

La DAMA: - Mai, mai sarò vostra! Avete ucciso mio marito, che io amavo teneramente... non l'ho mai tradito in vita e non lo tradirò certo in morte! Siete un vigliacco e un prepotente!...
Avete tradito anche vostro zio e nostro signore: Dio e l'Imperatore lo vendicheranno!...

NARRATORE:- Biagio rimase senza fiato: nessuno gli aveva mai rivolto parole tanto ardite, ma, in un certo senso, esse rendevano ancor più appetibile la sua preda.
Ordinò al seguito, con voce secca, di portarla a Castel Ivano e di gettarla nelle segrete; poi, speronato con furia il cavallo lo diresse a galoppo sfrenato verso il suo maniero e arrivò che i fianchi della povera bestia sanguinavano per le frustate, il cavallo era madido di sudore.
Biagio balzò a terra prima ancora che gli aprissero il basso portone ed entrò di furia risalendo rapidamente lo stretto viottolo che costeggiava l'edificio, salì le scale che portavano alla sua camera da letto: ora quella spocchiosa era sua!..
Però un po' di amaro gli rimaneva in bocca... Cosa aveva avuto di tanto affascinante quel suo marito che non potesse avere anche lui, Biagio delle Castellare?
Lui era ricchissimo, forte, padrone di molta gente, eppure nessuna donna lo aveva mai fatto oggetto del suo amore... proprio lui, Biagio di Castel Ivano, aveva sempre dovuto accontentarsi di rubare le gioie della prima notte di nozze a quei bifolchi dei suoi sudditi... ma perché? Pensa e pensa, concluse che, forse, le donne apprezzavano quelle smancerie dette "belle maniere", gli inchini, i baciamani, frivolezze che lui aveva sempre trascurato.
Con questa avrebbe provato a battere anche quella strada, in fondo non è bello trascorrere una vita con accanto una donna scontenta... E già pregustando il successo s'addormentò beatamente.
Il mattino seguente si svegliò fresco e riposato, pronto ad ogni cattiveria. Subito ordinò che gli venisse portata davanti la dama bionda: non sembrava particolarmente spaventata, solo sprezzante.
Biagio ne rimase sorpreso: nessuno, dopo aver trascorso una notte nei suoi sotterranei, aveva mai dimostrato tanta fierezza.
Malignamente le disse, con voce mielata:

BIAGIO: - Buongiorno mia signora, i sorci e i ragni del mio Castello vi hanno fatto buona compagnia?

NARRATORE: - Con sorpresa di Biagio la donna rispose con voce ferma:

LA DAMA: - Certamente l'ho più apprezzata che non la vostra, signore.

NARRATORE: - Solo il giorno prima tale risposta le sarebbe costata la vita, ma Biagio cominciava a farsi furbo, o almeno così credeva.
Facendo finta di niente, ordinò ai servi di portare ai piedi della donna tutti i tesori dei suoi forzieri e le sete d'oro e d'argento rapinate durante le guerre.

BIAGIO: - Sono vostre signora. Una bellezza quale voi siete non merita altro. Ora fatevi bella: vi mostrerò dagli spalti tutti i miei domini!

NARRATORE: - Ma la bella gridò:

LA DAMA: - Non toccherei questi stracci nemmeno con la punta delle dita, sono bagnati del sangue di troppi innocenti.
Chi credete di essere Biagio di Castel Ivano?... uno sporco assassino!... presto la vendetta di Dio vi colpirà!... io vi maledico per aver ucciso il mio amore, per aver spezzato la mia vita, rovinato la mia patria !

NARRATORE: - Allora Biagio non ci vide più, ordinò di portarla nella camera di tortura e lì la fece frustare a sangue, ma dalle labbra della vittima uscivano solo maledizioni per lui.
Ricorse a torture più raffinate sempre più crudeli, ma nessun gemito uscì dalle labbra della donna. Biagio non sapeva che l'amore ha un fratello ancor più potente di lui: "l'odio".

NARRATORE: - Intanto, nella Valsugana, si era sparsa la notizia che nella camera di tortura di Biagio si trovava una donna della corte di Caldonazzo. Qualcuno aveva visto quell'orco farla prigioniera, era stato riconosciuto il cadavere del marito: fu l'ultima goccia, quella che fa traboccare il vaso. Mentre Biagio continuava ad urlare:

BIAGIO: - Ditemi che mi amate e sarete salva!!!

NARRATORE: - E la dama rispondeva con voce sempre più flebile:

LA DAMA: - Mai, vi maledico, vi maledico...

NARRATORE: - La gente del Tesino si riunì in piazza, se ne aggiunse altra venuta da lontano... Ci si armò alla meno peggio con vanghe, falci, picconi. Poi, approfittando delle tenebre e facendo il minor rumore possibile, i tesini si diressero verso Castel Ivano, risalirono silenziosamente il colle... Sembrava che anche le creature della notte trattenessero il respiro...
I rivoltosi piombarono di sorpresa sulle guardie, le disarmarono, poi spalancarono il basso portone. Con un urlo di trionfo piombarono nel cortile interno, si arrampicarono lungo le ripide scalette, fino alla stanza dove Biagio, sazio di sangue, giaceva profondamente addormentato.
Dieci, cento mani si tesero verso di lui, lo afferrarono e lo trascinarono fuori nella piazza del Castello: Biagio urlava a squarciagola:
BIAGIO: - Soldati a me, spazzate via questa marmaglia!!!

NARRATORE: - Ma inutilmente, anche i soldati, anche la sua scorta personale, stanchi delle sue nefandezze, si unirono ai rivoltosi. Senza por tempo in mezzo, qualcuno corse a prendere la mannaia del boia e, tra le grida di giubilo dei presenti, tagliò la testa a Biagio.
Fu allora che ci si ricordò anche della dama di Caldonazzo; si corse a spalancare la porta della camera di tortura: era vuota!
Si perquisirono tutte le camere e i possibili nascondigli del Castello, ma la donna bionda sembrava svanita nell'aria: evidentemente, si disse la gente, è riuscita a scappare.

Morto Biagio, in Valsugana rimase vivo il ricordo delle sue atrocità. Se ne parlò di generazione in generazione, finché divenne un elemento della tradizione carnevalesca.
Ancor oggi, infatti, a carnevale, vi è l'usanza di tagliare la testa ad un fantoccio e poi di bruciarlo: è l'immagine di Biagio, signore di Castel Ivano. Qualche tempo fa, inoltre, in un muro del Castello, è stato ritrovato lo scheletro di una donna dai lunghi capelli biondi: la dama di Caldonazzo era stata murata viva.

VOCE N. 1 La storia di Castel Ivano non va solamente ascoltata, ma va rivissuta, soggiornando in uno dei paesi che cingono il maniero, che oggi è divenuto Centro Internazionale di Cultura: qui, infatti, si danno appuntamento insigni studiosi di fama internazionale, in occasione dei convegni, di alto livello scientifico, promossi dall'associazione "Castel Ivano Incontri".