STORIA PATRIA


FRA DOMENICO PELLAURO

EREMITA

in

S. SILVESTRO DI RONCEGNO


(Estratto dal periodico La Famiglia Cristiana).






TRENTO
STAB. TIP. G. B. MONAUNI, ED.
1889.




PREFAZIONE.

      Nel N.° 3 della Famiglia Cristiana di quest'anno si fe' cenno del pio eremita Domenico Pellauro, il quale menò una santa vita nell'eremitaggio di S. Silvestro al Marter di Roncegno, eremitaggio che, malandato per l'ingiuria dei tempi, venne richiamato in vita, almeno nella chiesa, lo scorso anno, come ivi pure si disse.
      Di quest'uomo singolare, che tuttogiorno corre nell'ammirazione del popolo, avrei bramato prima d'ora di esporre alcuni cenni più dettagliati ad edificazione del popolo, e stavo ricercando notizie, ma avanti giorni mi fu dato di trovare la fatica risparmiata. Il periodico " Il Tomitano " di Feltre dell'anno 1880 stampava, col titolo che ho posto di sopra, alcune notizie di fra Domenico Pellauro.
      Credo fare cosa grata ai vostri cortesi lettori se mi permetto di riprodurle, togliendo o mutando solo quelle cose che da indagini posteriormente fatte meritano ammenda. Furono scritte da un egregio sacerdote, ora parroco in un paese della nostra diocesi, dal quale attinsi anche le necessario correzioni al suo lavoro, ed al quale rendo pubbliche grazie.
      Va da sé, che quanto verrò esponendo non merita altra fede che l'umana, ove non sia dichiarato alcunché dalla santa Chiesa cattolica. Il Tomitano adunque scrive presso a poco cosi.





1.

      Se la memoria degli uomini inutili dilegua col suono del bronzo che li accompagna al sepolcro, quella all'incontro de' benemeriti e dei giusti erompe, come sole, dalla pietra che li racchiude, e attraversa vivissima i secoli. Indarno la invidia ne vorrebbe oscurare la luce, indarno la ingratitudine li dimentica; in quella guisa che Iddio non lascia perire nemmeno una scheggia delle ossa de' santi suoi, così non soffre che si abbia ad ecclissare un raggio solo delle loro opere insigni. E se avvenga che talvolta l'oblivione gravi sovra il sepolcro di un'anima pia. Iddio, qui revelat profunda de tenebris (Iob XII. 22), la riserba ai tempi poveri di nobili esempi, perché valga a scuotere chi brancola nelle tenebre, e l'innamori delle virtù. Fra queste pie anime merita un posto fra Domenico Pellauro.
      Di quest'uomo di Dio non abbondano per verità le memorie, ma insieme non si può dire che ne faccian difetto. Un solitario, che non usciva dal suo eremitaggio che ne' giorni festivi, ed era intento unicamente a mortificarsi ed a pregare, e non avea altro consorzio col mondo che coi devoti e confratelli delle vicinanze, che movevano a lui per consiglio e preghiere, non poteva per fermo dare grande alimento alle opere degli agiografi.
      Tuttavia ebbe per scrittore accurato della sua vita il benemerito storico della Valsugana, il dottor Girolamo Bertondelli, la cui autorità nella svolta materia è senza eccezione, come colui che non solo era contemporaneo, ma andò fornito di retto discernimento e di esemplare pietà.
      Girolamo Bertondelli, per dir qualche cosa anco di lui, nato il 1607 e morto il 24 giugno del 1690, fu dottore in medicina, podestà per qualche tempo di Borgo, provveditore della Valsugana, destinato nel 1636 ad impedire che si propagasse la peste scoppiata in Levico, ambasciatore per la sua patria presso il Principe di Mantova, apprezzato assai dalla venerabile Giovanna Maria Dalla Croce, che aiutò non poco nella erezione del convento di S. Anna di Borgo, e ultimamente nella sua vecchiaia consecrato sacerdote. Egli fu scrittore diligente e coscienzioso, cosi da meritare che il maggior Consiglio di Feltre lo eleggesse nel 1683 cittadino onorario. Come si vedrà col confronto dell'epoca della vita, di Dom. Pellauro fu contemporaneo, fu per di più conterraneo di Valsugana, per cui merita tutta la fede su ciò che scrisse dell'eremita.
      E accresce più la fede se si ponga riflesso al fatto che egli scrisse venticinque anni dopo la morte di Domenico, epoca sufficiente da un lato a far cessare un eventuale infondato entusiasmo, ma non troppo rimota da far perdere la memoria delle sue gesta. Se Bertondelli avesse alterata la verità, si avrebbero avute le contraddizioni dei Canopi protestanti, che sino dal 1580 lavoravano nelle miniere di Roncegno, e ai tempi di G. Bertondelli soprasseminavano nella Valsugana la zizzania delle loro dottrine e suscitavano ogni fatta di questioni e di violenze. Né hassi a dimenticare il fatto grave, avvenuto circa quel tempo, della caduta del Marter, la quale avvenne fra il 16 e 19 settembre 1665, anno stesso in cui il Bertondelli scrisse la storia della Valsugana.
      Da ciò che scrisse Girolamo Bertondelli nel suo Ristretto della Valsugana, e da altre fonti, il Padre Giacomo Schmidt, della Compagnia di Gesù, scrisse la "Vita di Domenico Pellauro" stampata nel 1732 nella pregiata sua collezione: I Santi del Tirolo. Il pio e dotto Gesuita si trasporta nei tempi e nei luoghi solitari dell'eremita, in quella solitudine che fu la palestra delle virtù di quell'uomo, e che ci desta commozione e ammirazione.


II.

      Le solitudini quiete e tranquille, in quella guisa che per mezzo delle loro dilettevoli amenità attirano a sé gli animi dal rombazzo degli affari e li ristorano, cosi hanno anche una special forza di sollevare il cuore dalle cose terrene verso Iddio e le cose celesti. Fra i romitaggi della Valsugana ve ne avea uno alle rive di un lago presso al Marter di Roncegno, lago che si nominava Lagomorto. Il P. Montebello asserisce che in una carta del sig. Fiscale Giuseppe Cavalier Hippoliti si trova che i signori di castel Tesobo avevano diritto a " Due partes lacus de Roncegno " mentre la terza parte spettava ai diritti dei signori di Montebello. Ora questo lago non esiste più, ma ai tempi dell'eremita era circondato da. folta selva da una parte, mentre dall'altra ne percorreva la riva la via Claudia lungo il Marter per Trento.
      Gli altri eremitaggi della Valsugana erano: S. Lorenzo sur un monte vicino a Borgo, Santa Margherita e S. Vendemiano, ai tempi di Fra Domenico Pellauro abitati anch'essi da eremiti, ora deserti.
      La patria di questo è la Valsugana; stando ad un'iscrizione che trovasi sul suo ritratto è "dalli masi del Borgo di Valsugana" nella parrocchia di Roncegno, bella borgata celebrata adesso per il suo Stabilimento balneare, e nei secoli andati per le sue feconde miniere. Queste nel 1580 vennero levate in appalto con tutte le altre del Tirolo da protestanti di Augusta, i quali vi introdussero i canopi, ossia lavoratori della stessa loro religione protestante, non si sa se per ispirilo di proselitismo o d'interesse. Fatto si è che a poco a poco si misero a spargere le loro dottrine, a destare l'odio contro del Clero, a suscitare questioni e violenze nella valle. Affine appunto di reagire a questa corrente la venerab. Giovanna della Croce fu indotta a fondare il convento di S. Anna di Borgo.
      Domenico Pellauro fu di costumi amabili e retti. Passò la sua giovinezza come servo fedele nella casa dei nobili uomini Poppi di Borgo, che abitavano, a quanto si dice, nella casa Lachmann. Qui il pio Domenico udia spesso leggere le vite dei Santi Padri antichi e degli eremiti; quindi un po' alla volta si accese egli di amor di Dio di tal fatta, che si decise di volgere le spalle al mondo e di ridursi in un luogo solitario, giusta l'esempio dei santi romiti, a far penitenza de' suoi peccati, e indi servire solamente il Signore, che in una maniera migliore compensa i suoi servi. Se dalla lettura de' libri perversi si infiltra nell'anima il veleno e la tendenza al mal fare, dalla lettura delle vite dei Santi, o altri libri spirituali, si viene infervorati; essa lascia sempre qualche scintilla nel cuore, la quale poi accende la fiamma della carità, e produce il miglioramento dei costumi.
      Tal fu di Domenico. Indossa un lungo abito grigio di grosso panno, s'accinge i lombi di rozza fune, e cosi vestito intraprende un pellegrinaggio alla Santa Casa di Loreto; di là passa ad Assisi e a Roma. Ivi gli furono concesse molte grazie spirituali. Da Roma, arricchito della benedizione papale, ritorna in patria, e si ritira nel romitaggio di S. Silvestro.
      Giammai fu veduto uscire dal suo romitaggio, eccetto alle domeniche e feste, in cui egli si recava a Roncegno per assistere al servizio divino; nella quale occasione egli purgava dalle macchie il suo cuore nel Sacramento della Penitenza e riceveva il Pane degli Angeli. Soddisfatta la sua divozione, il pio uomo moveva frettoloso verso il "suo paradisetto" come egli soleva chiamare il suo romitaggio.
      Fra Domenico cominciò questa guisa di vivere col continuo digiuno, e colla stessa astinenza dal cibo eziandio la finì.
      Si cibava una volta sola al giorno, e ciò faceva di sera. Si asteneva dai cibi di grasso, anche perfino quando era ammalato, affine di mortificare la carne che non abbia a ribellarsi allo spirito. Per colorire un po' questa rigorosa astinenza, affinché restasse nascosta agli occhi degli uomini, ne accusava il suo ventricolo, dicendo che altro cibo non poteva ricevere.       Di notte fra Domenico concedeva al suo corpo poche ore e su quattro assi vestito, giacché impiegava la maggior parte della notte nell'orazione, meditazione e aspre discipline.
      Una cosa però attristava lo zelo del servo di Dio: che egli, cioè, non sapeva leggere; a tale scopo non risparmiò fatica e diligenza fino a tanto che finalmente lo imparò.
      Quindi in poco tempo apprese la maniera di recitare il Breviario, che da allora in poi recitò ogni giorno. Le vite e le storie dei Santi Padri gli procurarono grande conforto ed eccitamento sempre maggiore ad emulare le loro virtù.
      Egli leggeva anche altri libri spirituali, così che, se alcuno lo udiva parlare di ciò che v'era contenuto, riceveva una indicibile consolazione. Di tal guisa fra Domenico passava tutti i giorni, poco curante delle cose temporali e del suo nutrimento; poiché egli era intieramente approfondito in Dio, il quale procurò al suo servo tutto ciò che gli era necessario.


III.

      Lo splendore di una vita così pia non si poteva trattenere più nel silenzio d'una cella e di un romitorio, ma a poco a poco si dilatò così che non solo il popolo, ma anche il clero accorreva a lui per ammirare la sua santità, e per riceverne conforto. Un illustre prelato, superiore di un monastero, non istimava d'avvilirsi nel visitare ogni anno questo pio romito. Domenico accoglieva ognuno con volto piacevole, intratteneva tutti con discorsi amorevoli ed umili, cosi che ciascuno con grande contentezza di cuore ed esuberante gioia si accomiatava da quel caro padre, e ritornava a casa sua.
      La sua modestia nel tratto, i suoi occhi continuamente rivolti verso il cielo o umilmente fissati in terra, il venerabile volto dimagrito e pallido dalle penitenze ed austerità porgeva la vera copia di un eremita dei primi secoli del cristianesimo, quasi che quella solitudine di Egitto, ammirabile e avanti tempo cosi rinomata, si fosse trasfusa nel romitaggio di S. Silvestro.
      E accorrevano a lui da luoghi remoti altri pii romiti, i quali veneravano il servo di Dio come loro padre carissimo e loro maestro, da cui essi apprendevano il vero modo di vivere secondo la loro vocazione.
      Se non che una tal cosa troppo prolungata non poteva piacere all'infermo, il quale non lasciò nulla d'intentato per osteggiare furiosamente il nostro pio eremita. Nel tempo della notte particolarmente il servo di Dio doveva sostenere duri ed aspri combattimenti. Di spesso veniva battuto dal demonio, come l'altro abate ed eremita S. Antonio. Però egli stette fermo ed invincibile; l'inferno rabbioso non ottenne altro guadagno che questo: la virtù del valoroso Domenico diventò sempre più calda.
      Con l'elemosina che egli riceveva da persone divote fece abbellire e compiere la sua chiesuola; innalzò un nuovo altare magnifica- mente lavorato in onore della Madre di Dio, la quale era dipinta sul muro, e che, come egli stesso confessò, gli avea concesse grazie e beneficii segnalati. Si procurò addobbi e utensili necessari per la chiesa, i vestiti sacerdotali dei diversi colori secondo il rito ecclesiastico, tutti di seta ed anche bordati d'oro.
      Allorquando poi Domenico e per la tarda età e per le malattie era divenuto quasi impotente a recarsi a visitare la sua chiesa parrocchiale di Roncegno, una pia persona gli procurò il beneficio che gli venisse celebrata la S. Messa nella chiesetta del romitaggio ogni festa e domenica, per soddisfare così alla tenera sua devozione. Frattanto non mancavano fatti straordinari, che Dio operava nel suo servo Domenico, per dar a conoscere quanto accetto era al Signore questo pio eremita. Ne riferiremo alcuni tolti dal Bertondelli, e ai quali non si ha da prestare ben inteso altra fede che l'umana.


IV.

      Un fanciullo di otto anni piangeva e gridava giorno e notte a cagione di un tumore doloroso. I desolati genitori non seppero a quale altro mezzo appigliarsi che ricorrere al pio romito Domenico.
      Essi portarono quindi il fanciullo da lui scongiurandolo di una preghiera; e perché l'umile eremita non si lasciava indurre, lo chiesero volesse almeno fare il segno di croce sopra lo infermo loro figliuolo. Mosso finalmente dalle lagrime dei genitori e del fanciullo, lo segna con questo segno salutare del cristiano, e tosto e l'ulcere e il dolore cessano del tutto, ed il fanciullo vien condotto a casa sano e robusto.
      Una donna di nobile lignaggio avea in costume di visitare l'uomo di Dio ogni anno per proprio spirituale conforto. Una volta vi andò appunto nel tempo che fra Domenico giaceva infermo. Alla signora si erano molto gonfiati i piedi, e perciò soffriva acerbi dolori. A caso scorse ella le scarpe che usava il pio eremita, in tutta secretezza si cava le sue e mette le scarpe di Domenico, e tosto il dolore ai piedi sparì.
      Vi fu un tempo che per l'alta neve caduta all'improvviso non si poteva uscire e girare, e ciascuno era quasi tenuto prigione in casa propria. Nessuno quindi poteva recar cibo all'eremita, il quale soffriva grande mancanza di tutto. Cionondimeno il paziente non si diede affanno, ma continuò nelle meditazioni, finché il suo corpo, stanco dopo si lungo digiuno, un po' alla volta cominciò a perdere le forze. Stando così le cose, vide un giorno fuori dinanzi alla finestrella tre pani. Meravigliato, li prende, li bacia, e nel tempo stesso porge all'Onnipotente le dovute grazie.
      Fra sé stesso poi ruminava come mai tali pani gli fossero venuti, o chi li avesse portati a lui in mezzo a neve sì alta, locché non poteva essere avvenuto altro che nella notte prece dente, avvegnaché i pani già di buon mattino si videro avanti la finestra. Per accertarsi di più poi spia intorno alla sua cella se vedesse qualche vestigio umano sulla neve, ma non vide alcuna traccia: egli quindi riconobbe che non la mano dell'uomo, ma bensì quella di Dio gli aveva recato quei pani. Cadde tosto in ginocchio, e fra le lagrime tenerissime ringrazia la divina generosità e Provvidenza. Tutto questo fra Domenico raccontò al confessore piangendo dalla consolazione. In tal guisa l'amorosissimo Iddio ha fatto cibare il suo servo e recargli del pane, come una volta a S. Paolo primo eremita nel deserto, non già per mezzo di un uomo, ma per mezzo di un angelo.


V.

      Ma già correva circa il quarantesimo anno che fra Domenico menava la vita in quel luogo solitario, allorché piacque al Signore di sciogliere il caro vecchio dai lacci del suo corpo dimagrito ed estenuato, il che avvenne per mezzo di una malattia di pochi giorni. L'eremita, dopo aver ricevuto i SS, Sacramenti, se ne volò al ciclo colla bocca sorridente nell'ottantesimo anno circa di sua età, il 29 marzo 1640.
      Appena si divulgò la fama della morte del venerando eremita, ciascuno accorreva dolente per vedere ancora una volta colui al quale nel corso di sua vita aveva ricorso per aiuto e per conforto. E siccome generalmente cresce vieppiù l'affetto e il desiderio verso una persona quando questa vien tolta, così solo dopo la sua morte si poté bene accertarsi quanto egli fosse amato dai suoi devoti.
      L'accorrere infatti del popolo, il compianto, il lamento divennero generali e s'accrebbero nel dì della sua sepoltura, che fu il sabato innanzi la Domenica delle Palme, nel qual dì la folla del popolo che andava e veniva e visitava l'abitazione crebbe a tale, che sembrava una processione continua. Questi con flebile voce lo chiamava beato, quegli santo, ciascuno ne esaltava la pia e virtuosissima vita.
      Per cominciare i funerali fu necessario cacciar il popolo colla forza. Allorché esso vide levare il cadavere per seppellirlo, fu una ressa per baciar la faccia, le mani del defunto, per torgli il rosario, il cordone di cui era cinto, o qualche cosa che il venerando eremita avesse usato in vita, se pur loro venia fatto, o tagliargli un pezzetto del suo saio, così che, se non fosse intervenuta l'autorità, egli sarebbe stato spogliato del tutto.
      Passati alcuni giorni, per ordine superiore,. alla presenza del R.do Parroco di Roncegno e di altre persone il cadavere venne disumato, affinché si potesse dipingere al naturale da un bravo pittore. A grande sorpresa di tutti trovossi il cadavere che esalava un gratissimo odore, la carne fresca come se fosse vivo, le membra molli e flessibili sotto la mano di chi le toccava. Affinché il pittore poi lo potesse colpire meglio nella fisionomia, e quindi in quel lavoro non si potesse apporre alcun impedimento ali' arte, si poggiò il cadavere sur un cataletto, che v'era in chiesa, nella quale occasione gli astanti osservarono qualche movimento.
      Il meraviglioso in questo cadavere per altro non finì. Imperocché diciassette anni e due mesi più tardi fu aperto di nuovo il suo sepolcro, perché vi si voleva porre accanto un altro romito morto in quel luogo. E dopo cosi lungo spazio di tempo trovossi nuovamente il cadavere di fra Domenico del tutto incorrotto e spirante soave olezzo come se fosse allora allora sepolto.
      Il Bertondelli, che colla biografia di fra Domenico giunge fino a questo punto, venticinque anni dopo che morì il Pellauro scrive alcune persone aver attestato, che dopo la morte dell'Eremita per la fiducia in lui ottennero dal Signore non poche grazie.


VI.

      Tale si fu Domenico Pellauro. Nella chiesetta di S. Silvestro, ristaurata da ultimo, si trovarono nell'avello sei scheletri intieri ma nissuna traccia di abito, per cui non si seppe precisare nulla di più, né distinguere quale dei sei sia stato quello del Pellauro. Vi si rinvennero due medaglie: sopra una sta l'effigie di S. Teresa e la Madonna, sull'altra di S. Carlo Borromeo e S. Paolo I eremita. Si danno due ritratti in pittura ad olio del santo eremita, ritratti che sembrano di buon pennello e dello stesso autore, e, confrontati l'uno coll'altro, sono dirò quasi identici, benché di dimensioni differenti. L'uno trovasi a S. Brigida in casa del signor Carlo Pacher. Il Pellauro è dipinto sopra il legno, ha gli occhi socchiusi, il colore assai smorto, tanto da far credere che sia stato dipinto dopo morto, come difatti consonerebbe col detto più sopra. È vestito del saio di S. Francesco col cappuccio. Ha tutti i capelli ma bianchi; è assai magro.
      L'altro trovasi nella sacrestia della Parrocchia di Torcegno; è identico ma più grande, vi si vede anche una mano scarna che snocciola i grani della corona.
      Su ambidue questi ritratti leggesi la seguente iscrizione:

     "La vera effigie del Romito di S. Silvestro da li Masi del Borgo di Valsugana, morto in conceto di santo, chiamato Domenico Pellauro."
      Avanti un mese, dal ritratto del sig. Pacher fu fatta una copia e messa in una grande cornice coll'iscrizione: "Domenico Pellauro Eremita morto in concetto di santo ai 22.3 1640, sepolto in questa chiesa". Essa venne collocata nella chiesa di S. Silvestro al Marter. Anche quest'ultimo ritratto somiglia molto agli altri due; tiene pure la corona in mano, ma il colore non è così smorto né pallido come negli altri.
      Il Bertondelli dice che diciassette anni più tardi venne sepolto il successore del Pellauro, e può essere benissimo. Nei registri parrocchiali o trovato un altro successore morto nell'eremitaggio di S. Silvestro. Chiamasi fra Serafino; questi passò a miglior vita il 14 febbraio 1670, e venne sepolto nella chiesetta di S. Silvestro dal R.do Parroco di Roncegno D. Matteoti.
      Ecco ciò che si legge nel Registro:
      " Die 14 Februarii 1670. Frater Seraphinus Eremita in Eremo S.ti Silvestri ad lacum, Sacramentis munitus, animam Deo reddidit, sepultus est in eadem Ecclesia a me Plebano Matteoti ".

Zi.









Edizione anastatica
dell'estratto edito nel 1889
dal plurisecolare
Stabilimento Tipografico G.B. Momauni
in
Trento







L'originale di questa ristampa è di proprietà di Francesco Simonetto