L'Aquilone, n. http://www.aquinet.it/framearchivio.html

 

I COLONIZZATORI DELLA VALSUGANA

1874-1914, la corsa verso la terra

Chi girasse per il Brasile, nei territori degli Stati di Espirito Santo e Santa Catarina, si meraviglierebbe per la quantità di nomi di località che ricordano il Trentino, ma più precisamente la Valsugana: a Nova Trento (Santa Catarina) si trova una località denominata Valsugana, mentre a Santa Teresa (Espirito Santo) le Valsugana sono due: Valsugana Velha e Valsugana Nova. Sempre a Nova Trento, esiste una località che alcuni vecchi denominano ancora Ronzenari (da Roncegno), anche se oggi è chiamata più comunemente Tirol. A poco più di 100 chilometri da Nova Trento, nel municipio a maggioranza trentino-brasiliana di Rio dos Cedros, si trova la vallata denominata Samonati (da Samone). Infine, nel Sud di Espirito Santo, nei territori della ex colonia di Rio Novo, negli anni '70 del secolo scorso una linea coloniale era stata denominata Nuova Levico.

Potrebbe anche essere vero che quello italiano non è stato un popolo colonizzatore di terre vergini, anche se la cosa non ci trova del tutto d'accordo. Ma è anche certamente vero che alcune zone italiane diedero numeri cospicui di coloni soprattutto all'America Meridionale: il Veneto, la Lombardia, il Trentino ed il Friuli. E in Trentino, la Valsugana. Questa valle, popolosa ed agricola fu, all'interno della regione denominata Tirolo Meridionale o Tirolo Italiano facente parte dell'impero austro-ungarico sino al termine della prima guerra mondiale, la prima a liberare centinaia di contadini che si riversarono in Brasile ed Argentina per colonizzare terre di foresta tropicale. Probabilmente fu anche la valle trentina da cui partì complessivamente il più alto numero di emigranti che presero possesso di un pezzo di terra non solo in America Latina, ma anche in Bosnia, tra il 1874 ed il 1914, ed in altre zone dove governi o privati distribuivano delle terre da mettere a coltura. Le ragioni di questo fenomeno sono certamente complesse ed in questa occasione non vogliamo soffermarvici (1).

A partire dalla metà dell'Ottocento il Trentino, ma anche altre limitrofe regioni dell'Italia Settentrionale, visse una crisi di trasformazione, peraltro piuttosto dilatata nel tempo, che portò ad acuirsi l'emorragia sociale costituita dall'emigrazione. Come in tutte le terre alpine anche in Trentino non si trattava di un fenomeno nuovo: a partire almeno dal XIV-XV secolo dalle alte valli avevano iniziato a spostarsi, stagionalmente, flussi di emigrazione di mestiere: venditori di stampe, ramai, segantini, poi seggiolai, arrotini, salumieri, venditori ambulanti di mercerie ed altro ancora.

Si trattava di lavoratori che partivano dalle alte valli, quei territori in cui la lunga stagione invernale e la scarsità di terreni agricoli costringevano gran parte degli uomini a trovare una occupazione ed un reddito altrove durante i mesi morti per l'agricoltura.

Ad essi, sempre però con movimento stagionale, si erano aggiunte a partire soprattutto dalla fine del XVIII secolo schiere di contadini provenienti dalle medie e basse valli. Non portavano più nelle pianure e nelle città una loro professionalità specifica ma si occupavano in qualità di braccianti, soprattutto braccianti agricoli: per legare le viti, spaccare la legna, raccogliere le foglie di gelso. Anche in Valsugana i due fenomeni erano apparsi. Per quanto riguarda l'emigrazione stagionale di mestiere ricordiamo che alcuni villaggi della zona meridionale della valle avevano iniziato a mandare per l'Europa i venditori di stampe almeno a partire dal Settecento. Si trattava di una occupazione stagionale che i valsuganotti appresero dai vicini abitanti dell'Altopiano di Tesino che già dal Cinquecento si erano messi in cammino (prima con pietre focaie per archibugio, poi con stampe e libri) (2).

A partire dalla metà dell'Ottocento iniziarono ad avvertirsi, in Trentino e Valsugana, i primi effetti di quella crisi epocale che, in definitiva, era un portato dello sviluppo capitalistico che aveva trasformato l'Europa centro-settentrionale. Si aprì l'epoca dell'aisemponerismo (da Eisenbahn Arbeiter, lavoratori delle ferrovie) che portò migliaia di trentini ogni anno in tutta Europa, poi anche in gran parte del mondo, sulla scia di quella grande ondata di lavori pubblici che si protrasse sino alla prima guerra mondiale. Ma con gli anni '70 la crisi trentina si acuì: vi contribuirono il distacco di Lombardia e Veneto (che costituivano i mercati naturali del Trentino) dall'Austria, la drammatica crisi nella produzione di bachi da seta e poi anche dei setifici, le devastanti alluvioni del 1882 e 1885 ed altro ancora. Concomitantemente, alcuni paesi d'oltreoceano iniziarono a mettere in cantiere delle legislazioni che miravano ad attirare schiere di contadini europei che avrebbero dovuto popolare vaste aree disabitate. Tra questi soprattutto il Brasile e l'Argentina (ma anche Messico, Venezuela, Guatemala e, meno, Australia e Sud Africa). Si aprivano così le porte di quella che per l'Italia (ma anche per il Trentino che al tempo faceva parte dell'impero austriaco) venne denominata la grande emigrazione. Partirono a centinaia di migliaia verso l'America Meridionale, ma anche verso gli Usa dove, però, pochi poterono avere terra e continuare ad essere agricoltori, e la maggioranza fu costretta a lavorare nelle miniere e nelle fabbriche, e verso l'Europa dove trovarono lavoro pure in miniere e fabbriche. Il flusso migratorio trentino si era fatto drammaticamente cospicuo ed anche complesso. Ad esempio, si calcolava che dal 1890 al 1914 uscissero annualmente dal Trentino dai 20.000 ai 40.000 emigranti. Tra di loro si contavano i tradizionali emigrati stagionali provenienti dalle alte valli, gli emigrati temporanei (coloro che all'estero ci stavano sino a quando c'era lavoro o che, comunque, vi rimanevano un tempo per poi rientrare in patria) e gli emigrati che invece cercavano di mettere radici lontano da casa. Tra coloro che sceglievano di trasferirsi oltreoceano, accettando le offerte di appezzamenti di terra a basso prezzo dei governi o degli imprenditori agricoli locali, la stragrande maggioranza era costituita da famiglie coloniche della basse valli. Le nostre indagini sull'emigrazione trentina verso il Brasile hanno confermato che le due zone che più inviarono contadini diretti verso gli esperimenti di colonizzazione pubblica furono la Valsugana ed il territorio che si estende tra le città di Trento e Rovereto. Perché? Certamente non era indifferente a ciò il boom demografico che aveva interessato più le basse che le alte valli a partire almeno dalla fine del Settecento. Come pure, una certa rilevanza aveva avuto sul fenomeno la malattia del baco da seta, a partire da metà Ottocento, e la successiva crisi dei setifici che colpirono drammaticamente proprio la Valsugana e la Valle dell'Adige in cui queste produzioni erano più sviluppate (sopra una certa altimetria il gelso, alimento dei bachi, non cresce). Peraltro, la crescente pressione fiscale sulla proprietà fondiaria colpì dapprima in modo devastante la piccola proprietà delle basse valli. Gli abitanti delle basse valli, infatti, tradizionalmente erano meno abituati alla mobilità stagionale che, invece, per qualche decennio permise alle alte valli di continuare a far fronte alle uscite finanziarie che scaturivano dall'imposizione fiscale (anche se a partire dagli anni '90, mentre le bassi valli iniziarono a diminuire di molto la loro emorragia emigratoria, le alte valli inizieranno a conoscere il fenomeno dello spopolamento, che sino ad oggi non si è ancora del tutto arrestato). Va peraltro notato che era nelle basse valli che si trovavano i migliori contadini trentini: spesso piccoli proprietari, ma anche a servizio della grande proprietà. Erano costoro che disponevano delle terre migliori, più facilmente coltivabili e più redditizie, anche se la piccola proprietà in Trentino aveva conosciuto ormai un processo di atomizzazione che l'aveva ridotta a estensioni davvero misere (3).

 

I valsuganotti al seguito di Pietro Tabacchi

Il primo trasferimento di massa di contadini italiani verso le terre americane si ebbe nel 1874 e partì proprio dal Trentino (4). Si trattava della cosiddetta Spedizione Tabacchi (5).

Pietro Tabacchi era un trentino che agli inizi degli anni '50 si era rifugiato in Espirito Santo, a Nord di Rio de Janeiro, dove nel giro di qualche anno aveva messo in piedi una fiorente attività commerciale, basata soprattutto sull'esportazione di legname, a cui aveva affiancato l'acquisto di ingenti estensioni di terreno. Verso gli anni '70, approfittando di una legislazione nazionale che per favorire l'immigrazione europea forniva finanziamenti governativi a chi vi si applicasse, aveva presentato dei progetti di immigrazione alle autorità. Alfine, nel 1873 Pietro Tabacchi stipulò un contratto con il governo di Rio che prevedeva l'inoltro di un certo numero di contadini europei nelle sue terre, ottenendo il finanziamento di una certa somma da parte del ministero dell'agricoltura. L'imprenditore avrebbe inserito questi lavoratori in una sua fazenda in cui avrebbero coltivato il caffè. Lo stesso Tabacchi si diresse in Trentino dove avvicinò gli emigranti. Con l'aiuto del suo conterraneo Pietro Casagrande riuscì alfine a mettere insieme un gruppo cospicuo di famiglie, formato da quasi 400 contadini che partirono alla volta di Vitoria il 3 gennaio del 1874. Altri avrebbero dovuto seguirli in spedizioni successive nei mesi ed anni a venire. Per la precisione, si trattava di 388 contadini, accompagnati dal Casagrande e dalla sua consorte, dal medico Pio Limana e dal sacerdote Domenico Martinelli. Il contratto che i capifamiglia sottoscrissero con Tabacchi prevedeva che ogni famiglia avrebbe ricevuto 12 ettari di terra, pagabili in 5 anni ad un prezzo favorevole. Anche il trasporto dai villaggi trentini e sino a destinazione era a carico dell'imprenditore e così il vitto e l'alloggio per i primi 6 mesi. In contropartita gli agricoltori si impegnavano a lavorare per Tabacchi per un anno, col compenso del solo vitto, e per altri tre anni a richiesta dell'imprenditore e con compenso in danaro preventivamente pattuito. In pratica, Pietro Tabacchi avrebbe fatto disboscare un'ampia zona di foresta tropicale ai contadini, vi avrebbe fatto piantare il caffè che avrebbe fatto lavorare per i primi anni dagli stessi. La cosa non andò a buon termine. La zona di colonizzazione, tanto per iniziare, era situata presso il 20esimo parallelo, a qualche chilometro dalla città portuale di Santa Cruz. Si trattava cioè di zona pienamente tropicale ed ubicata al livello del mare. Non offriva certo le migliori condizioni climatiche per le famiglie europee, anche se nei decenni successivi altre migliaia di agricoltori del Nord Italia vi si stabiliranno, riuscendo alfine ad acclimatarvisi. Ma non fu questo il problema principale, anche se il gruppo di trentini fu colpito già all'arrivo in Brasile da una non meglio identificata epidemia che condusse a morte molte persone. Si dà il caso che nel 1867 il governo di Rio de Janeiro avesse promulgato la Legge delle colonie, cioè il decreto 3.784 del 19 gennaio 1867. La norma garantiva agli agricoltori europei che si trasferivano in Brasile un trattamento migliore di quello che Pietro Tabacchi concesse agli agricoltori trentini. Solo per fare un esempio, gli ettari di terra concessi ad ogni famiglia erano da 15 ai 60, ed ogni figlio maschio maggiore di 18 anni poteva a sua volta ricevere un lotto. E i contadini non erano tenuti a lavorare a favore di un signore, né per un anno, né per un giorno.

Proprio a pochi chilometri dalla fazenda di Pietro Tabacchi c'era la colonia di S. Leopoldina. Soprattutto da ciò vennero le disgrazie dell'imprenditore trentino. I suoi coloni dapprima si ribellarono, poi qualcuno chiese la protezione del governo, altri se ne andarono alla chetichella. Dopo alcuni mesi di disavventure continue Pietro Tabacchi morì di crepacuore. Su quella impresa economica aveva giocato molto e stava rischiando di veder andare in fumo decenni di lavoro. Infatti, il suo contratto col governo prevedeva che una prima parte di contributo finanziario gli sarebbe stata pagata solo dopo l'effettivo stabilimento dei coloni sulle sue terre, l'altra dopo qualche tempo. Ma praticamente nessuno di quei quasi 400 contadini si stabilì in fazenda. E Tabacchi aveva già speso fior di quattrini per ingaggiare i contadini e condurli in Espirito Santo. Molti, alfine, si trasferirono nella colonia S. Leopoldina. Altri nella colonia di Rio Novo, sempre in Espirito Santo. Il rimanente gruppo di famiglie prese terra in colonie pubbliche del Paranã e di Rio Grande do Sul, mentre qualche donna e qualche bambino furono aiutati dai consolati austriaci a rientrare in patria.

Sui 78 capifamiglia che si trasferirono in Brasile al seguito di Pietro Tabacchi, ben 46 erano di certa origine valsuganotta (la maggior parte degli altri venivano da altre zone trentine e solo pochissime famiglie erano di origine veneta).Quando l'anno successivo, il 1875, scoppiò in Trentino e nell'Italia del Nord-Est la "febbre americana", ancora una volta la Valsugana vide partire flussi cospicui di contadini. Ad esempio, quelle 700 persone che nel 1875 costituirono il gruppo più corposo di emigranti che in un sol colpo siano partiti per l'America dal Trentino sino alla prima guerra mondiale, erano proprio originarie della Valsugana (6).



Valsuganotti in Brasile e Argentina tra il 1874 e il 1888

Un prete di campagna, Lorenzo Guetti, futuro padre del movimento cooperativo trentino, nel 1888 diede alle stampe una sua statistica relativa all'emigrazione trentina verso l'America dal 1870 al 1887.

I dati ottenuti e resi noti dal Guetti erano dovuti in gran parte alle informazioni ottenute dai colleghi sacerdoti di tutto il Trentino. Pochi erano i casi in cui il prete si era invece rivolto alle autorità civili. Ma ci furono alcuni paesi del Trentino da cui Lorenzo Guetti non ricevette informazioni, altri da cui le ricevette in modo sommario e probabilmente errate. Purtuttavia si trattava di una indagine statistica sufficientemente attendibile e, comunque, l'unica di quello spessore che sia disponibile per quegli anni (ma anche per i successivi e sino almeno al 1914). Ebbene, secondo i dati forniti dal Guetti dal 1870 al 1888 erano partiti dal Trentino alla volta dell'America circa 24.000 cittadini: 5.000 verso il Nord America e 19.000 verso il Sud America.

Su una popolazione che, secondo i cataloghi del clero, era di circa 404.000 persone nel 1880 ciò costituiva quasi il 6% degli abitanti del Trentino. In realtà quel numero considerava la popolazione presente in Trentino e quindi anche tutti gli stranieri che vi erano residenti in quel momento (militari austro-ungarici innanzitutto, poi amministratori imperiali vari, ed altro ancora).

Al Censimento imperiale del 1880, infatti, la popolazione trentina era stata calcolata in 347.000 persone. Quindi verso l'America era partito in meno di vent'anni un contingente di persone equivalente al 7% di coloro che vi risiedevano nel 1880.

La Valsugana fu una delle valli che più diede emigrati all'America, e soprattutto all'America del Sud. Verso quest'ultima destinazione partirono, secondo il Guetti, 1.260 persone dal decanato di Pergine, 1.619 da quello di Levico, 1.347 dal decanato di Borgo e 491 da quello di Strigno. Includendo in questo calcolo i dati riportati dal Guetti nel suo supplemento (che riguardava i primi mesi del 1888) si giunge ad un totale di quasi 5.000 persone.

La scarsità di partenze dal decanato di Strigno (che comprendeva l'Altopiano di Tesino, piuttosto popoloso con i suoi 7.000 abitanti sul totale dei 16.000 segnalati dai cataloghi del clero per l'intera valle) conferma come le alte valli all'epoca fossero aliene da emigrazioni di massa e definitive.

Il Tesino, compreso il villaggio di Bieno, era ancora massicciamente occupato nella vendita ambulante tanto che solo una sessantina di persone furono segnalate in partenza per l'America. E tra loro, con tutta probabilità, la maggioranza era costituita da venditori di stampe che all'epoca batterono tutta l'America Latina, facendo ritorno in patria dopo un certo periodo di permanenza all'estero. In secondo luogo nella zona di Strigno il setificio, pur conoscendo una crisi di vasta portata, dava ancora lavoro e reddito a migliaia di famiglie. In tutti i casi, se ci atteniamo ai numeri della popolazione segnalati da Guetti, dalla Valsugana era partito il 7,69% degli abitanti verso l'America Meridionale, contro un 4,57% relativo a tutto il Trentino.

Se invece consideriamo la popolazione verificata dal censimento del 1880, notiamo che fu l'8,92% dei valsuganotti che lasciò la patria per le lande sudamericane (più del 10% se teniamo in conto anche le partenze verso il Nord America, contro solo il 6,87% dall'intero Trentino). (8)

Tenendo per buoni i dati della popolazione indicati dal Guetti, annotiamo che dal Perginese partì l'8,9% della popolazione verso l'America ed il 91% di quel flusso si diresse verso l'America del Sud.

Nel decanato di Levico la percentuale saliva al 12% (l'82% del flusso verso l'America del Sud), scendeva all'8,6% dal decanato di Borgo (l'89% del flusso verso l'America Meridionale) ed ammontò a solo il 3% dal decanato di Strigno. Tenendo in conto anche i numeri forniti da Guetti nel supplemento, segnaliamo i paesi con il massimo numero di emigrati verso l'America Meridionale: Levico 508, Pergine 410, Novaledo 361, Borgo 302, Barco 293, Caldonazzo 244, Torcegno 174. Ma forse, per far rilevare l'ampiezza del fenomeno sociale, vale la pena indicare i paesi che videro partire la maggior percentuale di popolazione verso l'intera America (sempre basandoci sui cataloghi del clero, e quindi con una popolazione superstimata): Novaledo 31,95% (tutti al Sud meno 1), Barco 31,54% (tutti al Sud meno 1), Vignola 25,71% (tutti al Sud), Serso 20,78% (tutti al Sud), Roncogno 16,1% (tutti al Sud), Mala 14,8% e Roveda 13,5%. Una vera rivoluzione demografica: in alcuni paesi una famiglia su 3 aveva abbandonato la patria.

Una statistica, provvisoria e non ufficiale, relativa agli emigrati legali dalla Valsugana verso l'America, compilata dalle autorità amministrative del capitanato distrettuale di Borgo per il periodo tra il 1874 ed il 1884, ci aiuta a capire come il grosso dell'emigrazione valsuganotta verso l'America si ebbe dal 1874 al 1879 (su circa 3.250 emigrati segnalati, 1.826 partirono nel solo 1875) ed una grande maggioranza si diresse verso il Brasile.

Per quanto riguarda la destinazione dei flussi però mancano le indicazioni certe in quanto il documento, pur nominando il Brasile praticamente in ogni annata, fa talvolta riferimento genericamente all'America. Ma sulla base delle ricerche da noi portate avanti per anni in territorio brasiliano, pensiamo di poter affermare che i quattro quinti del valsuganotti che abbandonarono il Trentino per l'America tra gli anni '70 ed '80 del secolo scorso, scelsero il Brasile. Che, tra l'altro, offriva loro il viaggio via mare gratuito. Il rimanente di quei flussi si diresse verso l'Argentina. In tutti e due i casi, quella gente scelse di entrare nelle colonie pubbliche dove ottenne un appezzamento di terreno.

Si trattava, infatti, di intere famiglie che abbandonarono il Trentino esattamente con l'idea di ritrovare una propria identità contadina in America. Prova ne sia che le informazioni fornite dalla statistica del Capitanato distrettuale di Borgo garantiscono che su 3.250 emigranti circa, quasi 1.500 avevano meno di 17 anni.

Ritroveremo quella gente, di lì a poco, soprattutto nelle colonie brasiliane di Santa Catarina ed Espirito Santo ed un poco meno in quelle di Rio Grande do Sul.

Sui valsuganotti invece che scelsero il trasferimento in Argentina non disponiamo che di pochi dati. Tra questi quelli fornitici da Aldo Dante Pertile che in un suo studio annota come i trentini che tra gli anni '70 ed '80 si diressero verso le colonie pubbliche delle province del Chaco, Entre Rios, Santa Fe e Cordoba, molti erano originari della Valsugana: Borgo, Pergine, Levico, Castelnuovo, Grigno, Telve. (9)

Vita difficile nelle colonie, ubicate in territori a clima tropicale o sub tropicale il più delle volte, in piena foresta vergine per quanto riguarda il Brasile (ma anche le terre del Chaco argentino), lontano da città, ferrovie e strade. Ma dopo un periodo tragico di qualche mese, il colono si trovava proprietario di un appezzamento di terra di 20-30 ettari che gli forniva il necessario, ed anche di più, per la sua vita. E che gli permetteva di coltivare quelle tradizioni contadine centenarie che in Europa erano invece assediate e costrette all'agonia da una modernità che stava avanzando velocemente assieme al sistema di produzione capitalistico.




Nelle terre bosniache

Colonizzatori quindi, ben più che in altre valli trentine, o in altre zone italiane. Ma i valsuganotti in quel periodo che va dal 1874 al 1914 parteciparono numerosi anche ad un'altra "avventura di colonizzazione". Anche se i numeri, stavolta, furono decisamente meno corposi. Si trattava delle colonie create dal governo imperiale austriaco nelle terre di Bosnia ed Erzegovina che passarono dall'amministrazione turca a quella austriaca dopo il Congresso di Berlino del 1878 e ben presto furono occupate militarmente dall'esercito di Francesco Giuseppe. Già da quell'annata incominciarono a confluire in Bosnia, alla chetichella, gruppi anche cospicui di lavoratori trentini. (10)

Si trattava soprattutto di operai e braccianti che cercavano lavoro nella costruzione di strade o di infrastrutture che il governo austriaco stava finanziando nelle nuove terre. A partire dal 1879, però, sui giornali trentini si iniziò a vociferare di colonizzazioni che gli austriaci volevano mettere in essere in Bosnia ed Erzegovina, anche per popolarle di genti fedeli alla corona e contrastare la grande influenza dell'islamismo. In molti casi, varie famiglie trentine tentarono di contattare direttamente le autorità amministrative di quelle zone per ottenerne terra, in proprietà o in affitto. E ben presto nacque un flusso spontaneo di persone che dal Trentino si trasferivano definitivamente in Bosnia. (11)

I valsuganotti furono della partita e tra le prime famiglie a spostarsi troviamo i Lorenzin, Libardoni, Perina ed Andreatta di Levico, Trainer, Dalprà, Montibeller e Boschele di Roncegno.

Nel 1882, infine, l'amministrazione bosniaca decise di mettere mano alla colonizzazione, su terre libere o in mano ai begs, nobiltà di origine turca. Quando nell'autunno del 1882 un periodo di piogge eccezionali devastò vaste aree europee e mise sulle ginocchia l'economia agricola trentina, infierendo duramente sul territorio della regione, i progetti di colonizzazione vennero accelerati.

Di lá a qualche tempo nelle zone bosniache giunsero migliaia di contadini provenienti da molte zone dell'impero austro-ungarico: di lingua italiana, tedesca, russa, rumena, slava.

Nel 1883 partirono dal Trentino i primi "esploratori", legati ad altri gruppi di famiglie disposte a trasferirsi in quelle terre. Tornarono con buone notizie: c'erano terre disponibili, sia per l'acquisto che per l'affitto. Nell'estate del 1883 iniziarono le spedizioni trentine verso Bosnia ed Erzegovina. La gente copriva quella distanza (con tutto quanto poteva portare con sé) facendo uso soprattutto del treno. Le spedizioni si susseguirono ed i contadini vennero stabiliti in alcune località, nella zona di Banja Luka. Si trattava di famiglie provenienti dalla Valle dell'Adige (Aldeno, Romagnano, Ravina soprattutto) e dalla Valsugana (Roncegno, Borgo, Ospedaletto). Un folto gruppo di famiglie trentine, molte originarie di Nave S. Rocco e dintorni, a Nord di Trento, si diresse anche in Erzegovina, nella zona di Konjic. Queste ultime, dopo un infernale inverno vissuto tra stenti e privazioni, sbandarono e fecero ritorno in Trentino. Raccontarono di patti non rispettati dalle autorità locali, terreni impossibili da coltivare, imbrogli di tutti i generi. Molti furono i morti, per malattia, sottonutrizione e stenti.

In Bosnia invece gli altri trentini vennero convogliati nelle zone di Mahovljani, Laktasi, Prniavor, Kobatovci, Palackovic, Krnete. In tutto in quegli anni '80 si spostarono forse un migliaio di trentini tra Bosnia ed Erzegovina. Nelle liste dei partenti tra il 1883 ed il 1884, proposte da Umberto Raffaelli, si contano circa 700 persone. (12)

Tra costoro si trovavano con certezza più di una cinquantina di famiglie della Valsugana (di molte altre di cui non si conosce con certezza l'origine, però, i cognomi stanno ad indicare la provenienza dalla valle del Brenta). Ma negli anni seguenti furono altri i nuclei familiari valsuganotti che partirono alla spicciolata: "ricordiamo che da Ospedaletto, nel maggio 1883 erano iscritte per l'emigrazione in Bosnia più di 100 persone, per non parlare di quelle di Roncegno". (13)

Doveva trattarsi di una colonizzazione dagli esiti meno drammatici di quelle brasiliana ed argentina, portata avanti in Europa, anzi, in un territorio che era amministrato dalle stesse autorità imperiali che governavano sul Trentino. Ma in effetti così non fu, a dimostrazione di come un processo di colonizzazione di nuove terre abbia comportato, ad ogni latitudine ed in ogni epoca, difficoltà notevolissime.

In Bosnia si formarono, col tempo, due zone in cui venne concentrata l'immigrazione trentina: nei pressi di Mahovljani le famiglie originarie di Aldeno e dei dintorni di Trento (con qualche valsuganotto) e nei pressi di Stivor quelle provenienti dalla Valsugana. Ma la cosa non avvenne nei primissimi anni, che furono densi di difficoltà, con coloni costretti ad affittare terreni di altri per il mancato rispetto delle promesse di distribuzione di terra. Scriveva al suo ex padrone Rachele Girardelli di Scurelle, emigrata in Bosnia con il marito e tre figlie il 15 ottobre 1884: "Dal giorno che siamo arivati non abbiamo ricevuto nissun denaro nemmeno animali e ancora dicono che a noi non ci consegnarano neanche per l'avenire: di vivanda una libra di farina al giorno e tristisima. Poi posso dire che abbiamo visuto per tre giorni addietro di solli frutti." (14)

La donna per sopravvivere aveva spedito le tre figlie a servizio a Banja Luka e chiedeva al barone, le cui terre aveva lavorato in Valsugana, di pagare alla sua famiglia il viaggio di ritorno. In una successiva lettera, scritta dalla figlia Clementina Girardelli, sappiamo invece che le autorità erano disposte a concedere dei terreni alla famiglia, ma non avrebbero aiutato i colonizzatori con nessun altro anticipo, né di animali, né di generi alimentari (come invece era previsto nei progetti di colonizzazione).

Dietro lettere come queste sono individuabili la stessa disorganizzazione e lo stesso pressappochismo che avevano portato alla disperazione le decine di migliaia di italiani che negli anni precedenti erano stati accomodati nelle foreste del Sud brasiliano. Solo che in Bosnia, quei trentini si trovavano in territorio amministrato dalle proprie autorità nazionali, dentro un progetto di colonizzazione messo in piedi dalla burocrazia asburgica. Eppure, Ursula Sigismondo, di Roncegno, scriveva in Trentino che la sua famiglia aveva ricevuto terra ma non aveva ricevuto gli alimenti necessari alla sopravvivenza sino all'avvenuto raccolto. E la terra concessa loro non era immediatamente lavorabile, in quanto si trattava di una porzione di bosco. Peraltro, la famiglia aveva speso tutto il danaro di cui disponeva per il viaggio in treno ed il pagamento delle spese di "osteria" per i primi 40 giorni di permanenza in Bosnia.

Come accadeva in Brasile alle famiglie che giungevano numerose in epoche non adatte alla semina, anche i Sigismondo persero il tempo propizio per la coltivazione (il che volle dire un anno di miseria).

Ma dopo i primissimi tempi di difficoltà, talvolta di vera e propria tragedia, i valsuganotti seppero rimettere in piedi una comunità, un'economia agricola soddisfacente. Secondo Mariarosa Sartorelli abbandonarono alla spicciolata i terreni che erano stati loro assegnati dal governo e, col tempo, si raccolsero nella zona di Stivor dove acquistarono nuovi terreni direttamente dai bosniaci.

A poco a poco rimisero in piedi una economia agricola basata sull'autoconsumo. Il poco denaro liquido che riuscivano a mettere assieme per acquistare quanto non era producibile in loco, veniva loro dalla vendita dell'uva, di cui si fecero grandi produttori, e dal lavoro (specie in edilizia) che i maschi trovavano nei vicini centri abitati durante il periodo morto dell'agricoltura.

Le famiglie trentine, pur mantenendo lungo i decenni vasti segmenti della loro cultura originaria, compresi i dialetti di valle del Trentino, si inserirono pienamente nella vita bosniaca. Ma la storia dei Balcani riserverà loro sorprese sgradite.

Le famiglie di Mahovljani, in grande maggioranza, abbandonarono quelle terre negli anni '40, timorose di persecuzioni politiche e incitate a ciò dalle autorità fasciste. Dopo più di mezzo secolo dal loro arrivo in Bosnia vennero spostate in altre terre di colonizzazione, stavolta in Italia, nell'Agro Pontino. (15)

Resistettero, invece, i valsuganotti di Stivor. Ma durante gli anni '70 ed '80 del 1900, a decine e centinaia si sparsero per l'Europa in cerca di lavoro e di reddito, a causa della stagnazione economica della Bosnia all'epoca di Tito. Moltissimi, poi, dovettero fuggire dalla guerra civile (anche facendo ritorno in Trentino dopo cento e più anni) che avrebbe dissolto la Jugoslavia in anni recenti. Ma ciò accadde quando quelle terre erano state messe a coltura: quei colonizzatori avevano vinto la loro battaglia.

 

L'ultimo sogno coloniale, Minas Gerais

Per decenni ancora la Valsugana offrì al mondo famiglie contadine che cercavano una terra in proprietà, per poter continuare a vivere secondo cadenze che le erano state proprie per secoli. Quando il governo brasiliano, fortemente condizionato dai grandi piantatori di caffè di S. Paolo, abbandonò a se stessi gli esperimenti di colonizzazione, i valsuganotti (anche se in numero più contenuto) continuarono a dirigersi verso il grande paese latino-americano. Li attirava ancora quel biglietto di viaggio gratuito. Che stavolta, però, non li avrebbe condotti verso un lotto di terra in proprietà, ma verso la fazenda, la grande piantagione di caffè dove per anni avrebbero dovuto servire un padrone, spesso in condizioni davvero ingrate.

Il sogno, propagandato a bella posta dai latifondisti e dai governi da questi egemonizzati, era quello di poter acquisire una terra propria dopo alcuni anni di permanenza al servizio del nuovo signore. Cosa però che accadde per una percentuale piuttosto bassa di quelle centinaia di migliaia di contadini italiani (moltissimi i veneti) che emigrarono a San Paolo. Nel 1910 e 1911 un folto gruppo di valsuganotti venne ancora attirato verso un esperimento di colonizzazione portato avanti in Brasile, stavolta nello Stato di Minas Gerais. Uno studio dell'Ufficio per la Mediazione del Lavoro di Rovereto (16) stabilì che nel 1911 erano emigrate dal Trentino 22.445 persone. In realtà, quel numero non si riferiva all'intero campione della popolazione trentina. Erano stati sentiti solo 300.000 abitanti per quanto concerneva l'emigrazione continentale e 289.000 per quella transoceanica (su una popolazione totale di 377.077 persone). Furono probabilmente più di 25.000 gli emigrati trentini in quell'annata. Un dato certo, comunque, era la scarsa attrazione esercitata ormai dall'America e che promanava quasi esclusivamente dagli Stati Uniti. Infatti, sugli oltre 22.000 emigrati annotati dall'Ufficio roveretano, solo 3.153 si erano diretti in America: e di questi 2.153 avevano scelto gli Usa, 575 l'Argentina e solo 218 il Brasile. Un dato interessante riguardava la Valsugana che da sola aveva fornito 54 espatri verso l'Argentina e 120 verso il Brasile (solo 74 le partenze verso gli Usa). (17)

Tra questi ultimi si contavano 44 uomini, 25 donne e 51 ragazzi sotto i 14 anni.

Gli studiosi dell'Ufficio per la Mediazione del Lavoro sottolinearono la cosa: "Se fortissima è in Valsugana l'emigrazione continentale, debole invece vi è l'emigrazione transoceanica e questa con uno spiccatissimo carattere coloniale; mentre infatti in nessun altro distretto del Trentino troviamo una forte emigrazione mista, cioè di uomini, donne e fanciulli, per il Brasile la troviamo invece nel Distretto di Borgo. Omettendo infatti i dati per Bosentino, troviamo nel 1911 un'emigrazione di 120 persone, di cui 51 sotto i 14 anni, per il Brasile, mentre verso la fine del 1910, come informa il municipio di Borgo, partivano 8 famiglie di complessivamente 52 persone in compagnia di altre famiglie dei limitrofi comuni per il Brasile e precisamente per lo Stato di Minas, con l'intenzione di darsi all'agricoltura".

In effetti, nel 1910 la politica immigratoria del governo regionale di Minas Gerais si era fatta più competitiva nei confronti dei concorrenti di S. Paolo. Anche in questo caso si trattava di reperire manodopera per le piantagioni di caffè ed allo scopo, i paolisti erano stati maestri in ciò, si cercava anche di realizzare delle colonie in cui famiglie contadine riuscissero a venire in possesso di lotti di terra. La speranza era quella di illudere gli emigranti europei e di farli accorrere a migliaia alla ricerca di terra in proprietà, per poi invece deviarli verso le fazendas, dove avrebbero lavorato sotto padrone. Nel 1910 erano partite decine di famiglie per Minas dal Trentino e le autorità austriache si erano allarmate.

E quando sul "mercato emigratorio" appariva una nuova offerta di terre in proprietà, dalla Valsugana contadina si alzavano le mani dei capifamiglia e gruppi cospicui di persone partivano verso il nuovo sogno. Così avvenne nel 1910 e 1911. Si temeva potesse scatenarsi una nuova "febbre brasiliana", come era stato negli anni '70 ed '80. Le cose parvero precipitare e agli inizi del 1911 una novantina di famiglie, forse 500 persone, partirono per Minas.

C'era gente del Roveretano, della Val di Cembra e, soprattutto, della Valsugana. (18)

Per quanto è dato di sapere, i valsuganotti e gli altri trentini si diressero verso la colonia Wenceslau Braz, sovvenzionata dal governo ma di proprietà di un privato, un vescovo. Le poche notizie che si ebbero all'epoca in Trentino su quel flusso migratorio direbbero di un insuccesso di quella spedizione. Le autorità amministrative parlarono di "plaga del tutto inadatta ai nostri emigranti" (19) e informarono che quelle famiglie in gran parte sbandarono, ed alcune chiesero ai consolati austriaci di pagare loro il rimpatrio.

Più recentemente uno studio brasiliano ha confermato che a Wenceslau Braz giunse effettivamente il gruppo di immigrati e che le cose non girarono affatto bene per loro. Ecco come si erano svolti i fatti. Nel 1910 l'arcivescovo di Mariana aveva firmato un contratto con lo Stato: entro 2 anni avrebbe importato coloni europei fondando una colonia nelle sue terre. Un rappresentante dell'arcivescovo fu in Europa a scegliere gli immigranti. Ritornò con 48 famiglie. Arrivando alla colonia 38 famiglie (altre rimasero a Rio in attesa dei bagagli che per un disguido non erano giunti con loro), trovarono solo 10 case per alloggiarli. Gli immigrati furono mal accomodati, parte in vecchie case della fazenda dell'arcivescovo, parte in case di Sete Lagoas, una località vicina. Non ricevettero i lotti di terra e gli aiuti che erano stati loro promessi. Si ebbe probabilmente una sollevazione dei contadini. Per evitare problemi diplomatici intervenne il governo di Minas che dovette assumere la direzione del nucleo e trasferire gli immigrati in altre colonie dello Stato. Intanto, la maggior parte delle famiglie abbandonò la colonia per trasferirsi a San Paolo.

Probabile che qualcuno sia rimasto infine nelle terre dell'arcivescovo, ma di ciò non si ha conferma.

I valsuganotti, comunque, erano ancora una volta accorsi numerosi al richiamo della terra in proprietà. Lo avevano fatto sin dall'inizio, da quel 1873 in cui Pietro Tabacchi era stato in Trentino per avvicinare famiglie coloniche da avviare nelle sue terre di Espirito Santo. E lo fecero copiosi negli anni '70 ed '80, attirati dalla colonizzazione imperiale brasiliana (oltreché da quella ufficiale argentina e dalle nuove colonie messe in piedi in Bosnia da sua maestà l'imperatore Francesco Giuseppe). La loro vita in colonia, come quella di decine di migliaia di italiani del Nord, tedeschi e polacchi, fu inizialmente durissima e densa di tragedie. Ma in breve in quei territori nacquero delle comunità abbastanza fiorenti, basate sulla piccola proprietà diretto-coltivatrice. Comunità che ancora oggi portano nomi che ricordano la Valsugana: Valsugana, Valsugana Vecchia, Valsugana Nuova, Samonati, Ronzenari. Come pure, il ricordo valsuganotto è presente nel centro della Bosnia, a Stivor, non solo nei cognomi che ricordano la valle del Brenta ma anche nel dialetto dei vecchi.




NOTE AL TESTO

1 Per quanto attiene alle ragioni storiche che aprirono i flussi migratori dal Trentino verso l'America, si veda R. M. Grosselli, Vincere o Morire. Contadini trentini (veneti e lombardi) nelle foreste brasiliane. Parte I: Santa Catarina 1875-1900, Provincia Autonoma di Trento, Trento 1986.

2 Si veda E. Fietta Ielen, Con la cassela in spalla: gli ambulanti di Tesino, Ivrea 1987.

3 Verso fine Ottocento la proprietà media trentina non raggiungeva l'ettaro e mezzo di estensione ma in montagna si assestava tra l'ettaro e il mezzo ettaro.

4 In realtà, un caso di trasferimento di poco più di 150 liguri nelle foreste di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, si ebbe nel 1836. Ma la cosa rimase fine a se stessa, mentre la spedizione di valsuganotti di cui tratteremo aprì le porte di una massiccia immigrazione italiana e trentina in Brasile. Si veda A. Franceschini, L'emigrazione italiana nell'America del Sud. Studi sulla espansione coloniale transatlantica, Roma 1908.

5 R. M. Grosselli, Colonie imperiali nella terra del caffè. Contadini trentini (veneti e lombardi) nelle foreste brasiliane. Parte II: Espirito Santo 1874-1900, Provincia Autonoma di Trento, Trento 1987, pp. 150-175.

6 Quella gente finì in gran parte in Santa Catarina ed Espirito Santo. Altri in Rio Grande do Sul, sempre in Brasile. Tra loro anche il prete di Caldonazzo, Bartolomeo Tiecher. La narrazione delle vicende della loro partenza dal Trentino e poi dal porto di Le Havre è contenuta in "La Voce Cattolica" (Trento), 04.11.1875.

7 L. Guetti, Statistica dell'emigrazione americana avvenuta nel Trentino dal 1870 in poi, compilata da un curato di campagna, Trento 1888.

8 Va annotato che al tempo erano inclusi in questi numeri anche gli emigranti dell'Altopiano di Lavarone. Ma la cosa non variava di molto perché non erano invece inclusi quelli di Civezzano che oggi può essere considerato Alta Valsugana.

9 D. Pertile, Canto a la voluntad, Federacion Medica del Chaco, Resistencia 1989.

10 M. Sartorelli, Ai confini dell'impero. L'emigrazione trentina in Bosnia 1878-1912, Provincia Autonoma di Trento, Trento 1995.

11 I nostri calcoli dicono che tra il 1878 e il 1914 furono forse 1.500 i trentini che emigrarono in Bosnia, centinaia dei quali rientrarono però dopo qualche tempo. Si veda R. M. Grosselli, L'emigrazione dal Trentino. Dal Medioevo alla prima guerra mondiale, Museo degli usi e costumi della gente trentina, S. Michele a/A 1998.

12 U. Raffaelli, Verso la Bosnia e l'Erzegovina: un caso di emigrazione organizzata, in C. Grandi (a cura di), Emigrazione. Memorie e realtà, Provincia autonoma di Trento, Trento 1990.

13 M. Sartorelli, op. cit., p.105. Così afferma la studiosa: "Un fattore caratterizzò l'emigrazione in Bosnia dalla Valsugana: la sua indipendenza. Nel caso degli abitanti di Aldeno, di quelli dei dintorni di Trento e di quelli di Nave S. Rocco, le partenze avvennero con una certa regolarità ed organizzazione e si concretizzarono tutte in tre sostanziali spedizioni avvenute nell'autunno del 1883. Nel caso della Valsugana, invece, il flusso verso le regioni bosniache iniziò prima e proseguì fino alla fine del secolo, con frequenti e continui espatri".

14 Scuola Elementare di Scurelle, Co' la valisa en man. L'emigrazione da Scurelle e dalla Valsugana, Cassa Rurale di Scurelle-Comune di Scurelle, Strigno-Levico Terme 1997, p. 59.

15 Le vicende relative a quel trasferimento e a quella colonizzazione si ritrovano in P. Perotto, Radici Pontine, Pomezia 1990.

16 Ufficio per la Mediazione del Lavoro di Rovereto, L'emigrazione trentina nel 1911 (Tabelle statistiche), Rovereto 1912.

17 Il resto degli emigranti era diretto in Europa e più della metà rimaneva entro i confini dell'impero austriaco. Fortissima era la partecipazione valsuganotta ai flussi emigratori verso il Vorarlberg, dove gli uomini trovavano lavoro nelle costruzioni pesanti ed in edilizia e le donne e i minori nella fiorentissima industria tessile. C. Grandi, Dalla Valsugana al Vorarlberg. Una storia di donne (1870-1915), in AAVV, La migrazione artigianale nelle Alpi, Arge Alp, Bolzano 1994.

18 Ufficio per la Mediazione del Lavoro di Rovereto, op. cit., pp.7-23 e 29.

19 "Il Trentino" (Trento), 19.05.1911.

L'Aquilone, n. 10 http://www.aquinet.it/framearchivio.html

 

EMIGRAZIONE TRENTINA: LA SITUAZIONE

Per entrare nel mondo complesso dell'emigrazione è necessario farsi accompagnare dalla Consulta provinciale -costituita dalla Giunta provinciale all'inizio di ogni legislatura- che formula proposte ed esprime pareri in ordine ai problemi comunque concernenti questo fenomeno che ha inciso e ancora incide tanto profondamente nell'economia e nella cultura del Trentino.

Nella "finestra" delle cifre troviamo subito 30mila indirizzi di famiglie in possesso della Provincia, che presumibilmente corrispondono a 100mila persone. In realtà si pensa che gli emigrati di origine trentina in giro per il mondo siano complessivamente almeno 450mila (questa stima comprende emigrati della prima, seconda, terza e quarta generazione), di cui non si conosce indirizzo per la stragrande maggioranza. Da qui la necessità di un ulteriore censimento. In Cile è affidato a studenti universitari, ma censimenti analoghi si stanno facendo in Argentina e Uruguay. Successivamente, se ci saranno i mezzi, si procederà anche in altri paesi.

A comporre la Consulta sono quindici emigrati all'estero da almeno cinque anni e, tra essi, almeno cinque rappresentano l'emigrazione extraeuropea. Con loro otto rappresentanti delle associazioni degli emigrati trentini riconosciute dalla Provincia, tre delle organizzazioni sindacali, due dei comuni, quattro dei comprensori, quattro degli istituti nazionali di patronato e assistenza sociale, uno dei settori economici (designato dalla Camera di Commercio), il dirigente dell'Agenzia provinciale del lavoro, due consiglieri provinciali, un membro della Giunta provinciale con la qualifica di presidente, un dirigente della Provincia con funzioni di vicepresidente. Per motivi di snellezza e di tempestività degli interventi, nell'ambito della Consulta è costituito un Comitato esecutivo composta dal presidente e dal vicepresidente, oltre a sei membri eletti tra i componenti la stessa.

Figure importanti nella Consulta sono i quindici 'Consultori all'estero". Due risiedono nel Nord America, rispettivamente in Canada e negli USA; quattro sono nell'America Latina (Brasile, Argentina, Uruguay e Cile); gli altri sette in Europa (Inghilterra, Belgio, Germania, Francia, Romania, due in Svizzera). I loro compiti, che andranno meglio precisati con la nuova legge, riguardano la verifica di congruità e di efficacia degli interventi e delle correlate spese da sostenersi direttamente all'estero. Ogni anno arrivano a Trento portando ciascuno una propria relazione che ovviamente trae radici dai 120 Circoli degli emigrati che fanno capo alla Trentini nel mondo e dalle 9 Famiglie, cinque delle quali costituite in Svizzera e quattro in Argentina, che formano l'Unione delle Famiglie trentine all'estero. L'una e l'altra possono essere finanziate dalla Provincia fino ad un massimo del 95% degli importi ammessi, anche se in realtà fino ad oggi non si è mai superata la soglia del 92%. Una nota: per quanto riguarda la Consulta e il Comitato sono previste alcune innovazioni nel disegno di legge di riforma.

A presiedere la Consulta è attualmente Sergio Muraro, assessore al personale, ai trasporti e responsabile del settore emigrazione.

"L'incontro dei rappresentanti dei Circoli e dei Consultori con l'Ufficio Emigrazione della Provincia - informa Muraro- è ampiamente rappresentativo e si prolunga per una settimana, durante la quale si affrontano i problemi degli emigrati distinguendoli per gravità e separandoli nelle due forme, perché la fame ha due aspetti: c'è quella dello stomaco e quella del cervello. La prima si trova esclusivamente in Sud America, mentre gli altri avvertono solo la seconda esigenza. Quest'ultima si manifesta con l'ansia di sapere tutto quello che avviene in Trentino. Dimostra per la terra d'origine un attaccamento che noi abbiamo perso. Il Trentino è come la libertà: l'apprezzi solo quando ti manca. La loro storia è una lezione di vita per le vicissitudini che hanno attraversato, per noi inimmaginabili".

I problemi maggiori rimangono quelli della "fame dello stomaco" che ancora oggi, alla quarta generazione, affrontano i nostri emigrati in Argentina, attenuati in Brasile, meno estesi in Uruguay.

"Anche qui -precisa l'assessore- occorre differenziare: in Argentina, al confine nord con il Brasile, c'è lo Stato del Chaco. Qui la situazione è grave: ci sono da soddisfare le due primarie esigenze del sostentamento e della casa".

Per il sostentamento si attinge al Fondo di solidarietà.

'Si tratta di un sussidio erogato in moneta locale, che ha la finalità di sopperire a situazioni di grave bisogno economico e a particolari emergenze di natura sanitaria di nuclei familiari di origine trentina all'estero. I relativi interventi sono sostenuti quasi esclusivamente in Sud America ed interessano attualmente circa 100 nuclei famigliari, ai quali viene destinato un assegno mensile rapportato alle reali condizioni economiche e comunque a livello di minimo vitale. Nel 1998 si presterà attenzione anche al particolare bisogno delle famiglie di origine trentina che ancora vivono in Bosnia. Un intervento, per concludere, che serve solo ad aiutarle a sbarcare il lunario".

Per l'abitazione si agisce dai primi anni '90 quando, con la presidenza di Malossini, si comincia a dare un aiuto mirato agli emigrati più bisognosi. Nel Sud America si avviano una quindicina di progetti che puntano alla ristrutturazione o alla costruzione di una "casetta". Si dice così per capirsi: sono quattro mura, un tetto di lamiera e i servizi. Sono state così realizzate 20 abitazioni nuove e si sta attualmente ultimando la ristrutturazione di altre 15.

 

I PROGETTI

Fin dall'inizio del proprio intervento diretto nel settore dell'emigrazione, la Provincia Autonoma di Trento ha riservato particolare attenzione alle precarietà politiche, sociali ed economiche che hanno caratterizzato, anche e soprattutto in anni recenti, i Paesi sudamericani. In questo contesto la Provincia ha avvertito l'urgenza di intervenire con strumenti rapidi e incisivi e con progetti mirati a favorire l'instaurarsi di opportunità di autosviluppo delle comunità di emigrati.

I finanziamenti necessari sono stati reperiti non solo sul Fondo provinciale per l'emigrazione, ma anche sulla legge provinciale in materia di cooperazione allo sviluppo. In cifre, nel 1997 la Provincia, sul fronte dell'emigrazione, ha impegnato 3 miliardi e mezzo, mentre negli anni scorsi la disponibilità si aggirava sui tre miliardi circa. Attualmente i progetti sono indirizzati a comunità trentine in Argentina, Brasile e Uruguay: quattro in Argentina, tre dei quali a Chaco, uno degli Stati confederati con capitale Resistentia.

Riassumendo: con il primo si tende al risanamento igienico-sanitario di abitazioni in condizione di grave degrado e all'assistenza sociale, al fine di recuperare a condizioni di vita più dignitose le famiglie di origine trentina; scopo del secondo progetto è il miglioramento delle tecniche agricole e la formazione degli agricoltori per incrementare e diversificare la produzione rispetto alla monocoltura del cotone; il terzo si sta realizzando nel villaggio Pampa dell'infierno ed è finalizzato alla realizzazione di un caseificio e a istituire il sistema di raccolta del latte nella zona. Oltre a ciò si punta a organizzare il sistema di macellazione e a sviluppare e organizzare i temi legati alla commercializzazione dei prodotti. Questo progetto zootecnico riguarda l'allevamento di capretti, già in atto ma allo stato brado.

"Venne inaugurato nel febbraio 1997 alla presenza del governatore - ricorda Muraro - e adesso, attuando il sistema dell'inseminazione artificiale e allevando in recinti, si contano 600 capretti. il progetto sta funzionando molto bene: per questo si prevede la realizzazione di un piccolo macello".

Pampa dell'infierno: una comunità costituita completamente da oriundi valsuganotti dai cognomi come Angeli, Minati, Busarello, Stefani, Libardi, laggiù dal 1885. 113 anni fa, quando arrivarono, ebbero a vergognarsi di essere trentini. Questa comunità venne letteralmente "scoperta" solo nei primi anni '90!

A Pampa dell'infierno Muraro c'è stato e la voce rimane a metà quando racconta di questa "impossibile" realtà. "E' un'esperienza che cambia la vita, anche la vita del duro. Non rientra nelle nostre capacità di recepire. Eppure, lei dovrebbe vedere -qui e anche nelle altre tristi realtà- la loro dignità. Incredibile, una dignità che colpisce. Forse nel DNA dei trentini non c'è più. Non chiedono nulla! Nei loro confronti, nei confronti di tutti i 450mila suoi emigrati il Trentino ha un debito che non saremo mai capaci di saldare. Questa gente che è andata via ha permesso ad altri di restare. Certo, occorre distinguere tra l'emigrato in Svizzera e quello in Sud America, che crede a un Trentino ancora asburgico, tant'è che viene chiamato austriaco e parla ancora il dialetto trentino del tempo".

In Argentina il quarto progetto è stato concluso nel 1997. Proposto a Viedma in collaborazione con amministrazioni pubbliche locali, va creando opportunità di occupazione nel settore turistico attraverso la realizzazione di un campeggio.

Quattro progetti anche in Brasile, dove si contano 160mila emigrati, la maggior parte dei quali concentrata nel sud del Paese, sparsa fra gli Stati Rio Grande do Sol, Santa Catarina e Parana. Qui si ritrovano intatti il dialetto, i costumi e le tradizioni, quelle culinarie comprese (polenta e scodeghini).

"Anche qui la costante è una profonda religiosità, per cui ogni comunità, appena giunta, ha subito provveduto alla chiesa e al cimitero. Non sono ricchi ma vivono dignitosamente e sono grandi lavoratori. Hanno casa e sono artigiani allevatori e coltivatori".

Un progetto si sta attuando a Nova Trento e a Rodeio, dove si vogliono realizzare due cantine che offrano opportunità concrete ai giovani che hanno frequentato i corsi di viti-vinicoltura presso l'istituto agrario di San Michele all'Adige. Vengono costruite con la collaborazione della Federazione dei consorzi cooperativi di Trento.

A Nova Trento, Rio dos Cedros e Rio do Oeste i progetti sono invece di carattere zootecnico e lattiero-caseario. Agricoltori di origine trentina vengono agevolati nell'acquisto di bovine da latte e di attrezzature e aiutati a migliorare le strutture dal punto di vista igienico e funzionale.

Il terzo progetto è per Camboriu, dove vengono assegnate borse di studio per la frequenza al Collegio agricolo di questa cittadina. Gli studenti sono impegnati in un'azienda agricola di 180 ettari annessa all'istituto, nella quale sono presenti tutte le colture e gli allevamenti di interesse per la realtà dello Stato di Santa Catarina. Le quote messe a disposizione dalla Provincia per i giovani di discendenza trentina sono investite nella creazione di un laboratorio per la trasformazione artigianale del latte e della carne, in futuro anche per laboratori di biologia e chimica.

Per quanto riguarda il progetto Fondo di solidarietà si è già detto. Non resta che menzionare l'intervento in Uruguay, a Montevideo. Si tratta di un progetto a carattere zootecnico: attraverso la costituzione della cooperativa Urutrent si mira all'allestimento e alla gestione di un allevamento di conigli, in considerazione delle notevoli possibilità di commercializzazione di questo tipo di carne. Il coordinatore dei progetti per il Sud America è il dottor Ciro Russo.

Claudio Brandalise