Ciò che non può essere detto

 

 

AUTORE: Davide (dravid@libero.it)

 

 

Sappi allora che mi è gradito il dolore, se tu

Non potrai ridere di me.

(Euripide, Medea, v.1362)

I.

Leggere era divenuto straordinariamente faticoso: non riusciva a districare dalla pagina un discorso che fosse differente dall’erompere caotico di estranee allusioni, nell’opprimente solidità di quella stanza, ormai luogo della sua reclusione più che dei suoi studi.

Ogni volta che decidesse di restare da sola, essendo costretta a quell’unica stanza, che la nascondeva alla servile riprovazione di una famiglia (ed ella aveva ormai ritorto il significato di quella parola ad un degradato commercio di bassezze), non era in grado di estendere la sua percezione a qualcosa - e da sempre la conoscenza aveva suscitato in lei un’ansia febbrile, bensì fatta di sincera necessità, ma tale da ripartire il bisogno in uno slancio intellettivo e, non meno vitalmente, nella ricerca di un sicuro tempo impenetrabile ad ogni altro, il momento dove potesse specchiare la propria coscienza in ciò che apprendeva - che fosse realmente autonomo dalla sua camuffata cella.

Quelle pagine latine, probabilmente la salvezza per lei (o almeno per la figlia), la irritavano ormai con veemenza, scoprendola disposta allo spesso disprezzato rifiuto dello sforzo, come se la semplice dichiarazione di un’ingiustizia fosse sufficiente a coronare felicemente l’attesa del suo annullamento. L’oziosa fiducia nel destino, il solo pensiero che vi fosse qualcosa come una norma affine agli stati psichici degli esseri umani a governo dei fatti, semplicemente la indispettiva, oltre a risultare una credenza superstiziosa, e pertanto a maggior ragione inaccettabile per una strega.

Mentre richiuse il libro pensò con triste nostalgia a Tara, che viveva in fondo separata da lei, poiché i loro unici incontri si svolgevano nelle circostanze comuni dei pasti o di qualche fugace uscita; più spesso le aveva parlato, inducendole l’affettuoso e insieme angustiato movimento dei suoi pensieri. Di quell’affetto, che forse era colpevole di averla resa poco incline a sfidare la meschinità altrui, ella stessa vedeva l’inevitabile esito; tuttavia l’unico modo per abbracciare sua figlia giaceva nell’intangibile avvicinamento, per ciò stesso doloroso, alla sua giovane mente.

Si alzò dalla poltrona, una manifestazione di consistente inerzia turchese avvizzito, sul cui le erano consentite alcune ore di lettura: il suo compagno sapeva bene che attraverso un invisibile logoramento ve l’avrebbe resa persino incapace ed allora, forse, si sarebbe completamente disposto ad amarla.

Lei certamente non avrebbe mai potuto e d’altra parte aveva da rammaricarsi con se stessa soltanto per la sua decisione di accoglierlo nella propria casa; comparve quel giorno come una risentita figura sull’uscio, profondendosi in una reticente serie d’adombrate cortesie, simile a chi si disponga favorevolmente verso qualcuno senza tuttavia mai agire, con una sorta di tensione intransitiva, l’atto di porgersi quale strumento, sebbene incongruo ad ogni scopo. E, nel fatto di lasciarsi reggere passivo, egli aveva potuto impadronirsi del luogo privilegiato in cui restare conducendo, per inevitabile sedimentazione, al rovesciamento degli equilibri in un fatto irreversibile, come putredine o sprofondamento.

Affatturando (o avrebbe potuto essere qualche distorta forma di cortesia) dispiacere per l’interruzione indebita entrò nella piccola stanza, il meschino volto sgualcito in una smorfia, tra l’amaro e il compiaciuto, di rigida lungimiranza, poiché le cose non sarebbero mai andate diversamente dalla impantanata, china direzione che vi aveva osservato una volta, riuscendo, per quanto nel suo modo primitivo e immeditato, a comprendere nelle persone l’esatta misura di un desiderio al quale si era interamente uniformato.

Per questo Jessica, vedova e con una figlia, parzialmente estromessa dalla semivita di quella cittadina – e tale era poiché iterava continuamente una medesima giornata, senza avere passato o futuro, eccettuate le domeniche – aveva ritrovato, se non l’amore, almeno l’auspicabile tranquillità che la solitudine sempre nega, nell’animo ben disposto di uno sconosciuto. 

Senza divenire altro questi, per cinque anni, non le era mai apparso un essere non umano, privo del respiro che un essere umano avrebbe dovuto possedere, adagiato su di sé come il non affanno di un bozzolo che attendesse perennemente la nascita di qualche essere appiccicoso dagli arti sottili e orridi. 

Entrò e non le parve diverso da come, per cinque anni, l’aveva riconosciuto.

II.

“Sei attesa in salotto, Jessica, ti prego di raggiungerci”, disse con tono incolore, nel quale serpeggiava l’appagamento per un’avvenuta vittoria, ma non tale da infiammarsi, dal momento che il suo gretto giudizio sulle cose gli impediva ogni euforia, riducendola a qualcosa ibrido di calcolo e adeguatezza agli eventi, non diversi da come egli soltanto sapeva essere, senza scopo procedenti, aggrappati al loro stesso procedere.

Un adirato trasalimento fu per emergere quando lo sentì chiamarla per nome e tuttavia ben presto si acquietò, osservando la studiata provocazione insita in quelle parole: così vicina com’era alla vendetta, benchè gli ultimi preparativi fossero innaturalmente gravosi, non poteva tradirsi, e decise di mantenere la compunta, fredda razionalità che in fondo l’aveva sempre caratterizzata e le serviva, inoltre, come schermo di fronte alla crudele indifferenza della sua famiglia. Non intendeva mostrare un silenzio altero ma un temperamento che atterisse ogni insistita accusa nei confronti della vita-in-parte che ancora conservava sua. Si limitò a rispondere:

“Va bene”, avvertendo una commistione di velata amarezza, abbandonando i libri, e dolce consolazione, al pensiero che avrebbe visto Tara e potuto forse stringerle la mano e offrirle un poco di fiducia.

Tra la porta della stanza in cui leggeva ed il salotto, dov’erano gli ospiti, addossata ad una parete del corridoio, ticchettava una vecchia pendola, con preghiera implacabile, dando a credere un’opera incessante, per ciò stesso diversa dal tempo e dagli eventi.

Fu accolta dai convitati con scontata e circospetta cordialità, attendendosi in effetti una simile reazione: ad infonderle il maggior disagio non furono tuttavia i convenevoli dei signori Van Orman ma la silenziosa subordinazione di loro figlia.

Aveva probabilmente l’età di Tara ma null’altro di lei: sembrava che non fosse attraversata da alcun pensiero e naufragasse o confluisse tutta nell’azzurro ferente dei suoi occhi, la cui intensità mai allentata induceva a crederla un predatore che attendesse di identificare la propria vittima.

E vi avrebbe infierito in modo indicibile, poiché non si trattava del pasto che le fu servito, al quale concesse una minima ed asettica attenzione; né di Jessica, verso la quale mostrava una riprovazione completamente trasposta nella più abile impertinenza della madre.

Jessica pensò che sua figlia fosse al centro delle silenziose intenzioni di quell’essere; ma non potè curarsene che a tratti, poiché la pungente non-sagacia della signora Van Orman sollevava contro di lei una diffidenza tirannica, rendendola tanto più intensamente bersaglio della sua deplorazione quanto più la ritenesse pericolosa, ma pensando questo di lei con la opaca certezza per la quale si sentiva in dovere di inquisirla e piegarla come si riduce ciò che non si può avere in proprio potere al lato negativo del culto.

“Vostro marito è un’ottima persona”, disse usando controllata scortesia, mentre accarezzava a tratti la base del bicchiere e distraeva lo sguardo dall’intelocutrice in modo di affiggervelo all’improvviso, nella speranza di cogliervi un moto inconsulto, la trasparenza di qualcosa non voluto, e trionfarvi elevandolo a capo d’accusa, “ed è una vera fortuna che voi l’abbiate trovato. E non solo per l’appoggio che vi concede, ma per ciò che voi stessa non siete solita fare e che egli fa per entrambi”.

A questa prima conclusione, per la quale il signor Van Orman si distolse dalla conversazione con il padre di Jessica, rivolgendo un cenno compiacente alla moglie, Tara sprofondò il suo odio in una immobilità furente, che la rendeva cupa fino alla totale astrazione dalle cose, quasi volesse smarrirsi a fondo nell’inferno che le si costruiva attorno vedendo a quale grado di penetrazione avesse raggiunto la sua privata, evanescente immagine di specchio, a cui talvolta rimandava la memoria per ricordare come essa potesse in un modo almeno afferrarsi e sospettare nel suo volto una comunanza ancora indipendente con sua madre.

La signora Van Orman, non avendo ricevuto alcuna risposta, proseguì con la medesima sprezzante affabilità:

“Ancora vi ostinate, ma non dovete pensare che ci sia qualcuno maldisposto nei vostri confronti; al contrario, trovate una comunità pronta ad accogliervi” (nel frattempo lo stridio blaterante del marito, un lamento, un verso indistinguibile, di punta metallica strisciante su lamiera, ricombinava le proprie successioni inaudite di cigolii, simile al canto di corteggiamento di un meccanismo da orologeria) “ dunque non abbiate timore, se questo vi frena”.

Jessica avvertì la intima convulsione tra i pensieri di Tara, un distruttivo pulsare che avrebbe voluto scagliarsi contro quel ritaglio sonoro d’una fede inaridita ed istintivamente ne approvò la propensione, cercando di moderarla subito dopo, senza tuttavia che essa in realtà si placasse, dal momento che qualche inconscia fluttuazione o riemersione l’attirò allo sguardo asseverativo e abissalmente vorace della creatura in agguato accanto alla signora Van Orman, la quale ora sollecitava una risposta. Le fu detto:

“Credete che sia ostinata a prolungare questa mia segregazione?”, ed alluse all’uomo di cui meditava il compiuto annullamento.

“Lo dite voi stessa: ‘segregazione’. È la parola giusta: non è la prima volta che vi si domanda di abbandonarla. Rifiutando non vi fate altro che male: e questo potrà non parervi vero perché, come siete ora, al male non avete da opporre nulla”.

“Ed allora non ho scelta che seguirvi”, rispose Jessica con un lieve, modesto sorriso, che pure non fu traccia sufficiente affinchè la signora Van Orman cogliesse il tono ironico di quelle parole. In effetti non fu scossa ma, con simulata rassegnazione, concluse:

“Sarebbe finalmente il caso di farlo. Tutta questa vostra sicurezza” (e un fiotto d’orgoglio ne pervase le fattezze discontinue, scorci di qualcosa a cui si riconosceva, sebbene sfuggente, quasi turbinassero nella molteplicità dei toni e degli atteggiamenti i suoi sparsi attributi fino a decomporsi irrimediabilmente, ancora un barlume di umanità) “può suscitare meraviglia. Per quale motivo non vorreste condurre una vita simile a quella di ogni altro? Cercate continuamente di rimandare le vostre promesse o mezze promesse, e questo, si capisce, dà adito a sospetti”.

Prevenendo con una distesa sequenza di schiocchi e ampie palatali la replica di Jessica, il suo compagno pronunciò un discorso, probabilmente, nel quale attraverso alcune rapide emissioni sostenute da un indeciso ronzio, riscosse l’approvazione della signora Van Orman, a cui il cibo interessava molto meno della propria autoaffermazione, immediatamente rimossa come propria e confusa con quella di un principio, che giustificasse in fondo ogni sua grottesca ed estenuata contrazione o protrazione verso gli oggetti, discontinuità nel campo visivo, su una più estesa chiazza biancastra sottilmente frusciante sonni agitati.

E durante il corso delle parole, se tali veramente potevano essere nonostante la loro apparenza indeterminata, due globi di celeste abiezione stillavano scintille al divincolarsi delle metalliche lingue nel biancore; affamati occhi ansimavano all’adombramento di Tara nel volto di Jessica, bramando prosciugare quell’estrema nuova vitalità, che ancora poteva strapparsi ai vincoli di una famiglia e trovare sollievo.

Mentre la signora Van Orman costituiva se stessa su diverse frequenze restituendosi una configurazione cromatica e si drappeggiava ad ogni impressione sonora in foggia ora d’intrico, ora di nubi, notturne fiamme animalesche, senza baluginare o vorticare, ripetevano un solo anelito con empito di pallore lunare nell’assetata urgenza promanante dal loro restare fissi, poiché nessuno psichico smeriglio vi donava una coscienza diversa dall’attesa della caccia. 

Nulla era più possibile frenare il sovrapporsi degli eccessi di densità propagantisi convenevoli sinusoidali quando avesse trovato l’umida sera nell’aperto un più saldo proposito l’avrebbe indotta a seguire il verdetto di quei globi ferini la stessa leggera afferrante volontà…

Lo svenimento di Jessica rese il congedo degli ospiti più sbrigativo, poiché questa volta il patrigno di Tara aveva ottenuto la sua vittoria e desiderava al più presto assaporarla in solitudine: dunque anche quella folle donna stava cedendo, aveva perduto la tremenda perfezione con la quale un tempo, cinque anni prima, era senza sforzo riuscita a soggiogarlo totalmente.

III.

 

Quando Veruca fu per coricarsi, la scosse un’indistinguibile, aspro stupore. Fu allora che si accorse del taglio, inavvertita insinuante voce di pulsazione lungo l’interno dell’avambraccio, sospiro di voluttuoso dolore senza accanimento.

Le sue unghie parevano, ora, insolitamente affilate.

IV.

 

Appena rinvenuta Jessica ebbe l’impressione di destarsi in un sogno che si rifaceva nitido e la lusingava con la sua consueta blandizie, nuovamente composto a seguito di qualche sfrontata distorsione non onirica, a causa della quale lo scabro paesaggio della sua esistenza perdeva gli usuali arredi in favore di un’accozzata miseria, l’innegabile rarità di cose filiformi in gorghi occhiuti avvolte sopra chiazze abbaglianti.

Osservò la sua mano e il turchese sul quale era appoggiata, corse alle assi del pavimento e poi volse il suo sguardo alla soglia attutente dove il visibile si piega alla danza di un contorno residuale dando spazio all’ineffabile, avvertendo la figura dei regolari ticchettii provenienti dalla pendola. Fu questa consapevolezza del tempo a costringerla verso il libro, che le appariva ancora nemico; in quella estraneità intravide l’opera dell’uomo che odiava ed era riuscito a educarla con tale solerte inflessibilità da permetterle di costituire da sé la propria ripugnanza. 

Appoggiò la sua mano destra sulla copertina, disegnando l’ornato vegetale al suo centro: un aroma agrodolce di stampa ne pervase la memoria foggiandola in amate fattezze ormai distanti, in cui tuttavia inesausto giaceva ancora il rigoroso, ferreo proposito dell’indagine, con cui almeno sarebbe potuta guarire la triste macerazione di sua figlia, incolpevole. Eppure, una volta scorse le prime pagine, il denso cesello nerastro che le lordava le parve una gravosa punizione, a causa senza dubbio della intollerabile facilità con cui, d’altra parte, soffuse torture le venivano somministrate senza tregua; ma forse vi era un motivo meno trasparente, quello stesso del quale la sua vendetta intendeva ottenere la realizzazione più alta.

In quel momento si ripetè la scena, la compiutezza della porta fu straziata da una difforme sferza di spiraglio, qualcuno fece il suo ingresso:

“Ti senti meglio ora?” 

“Mi sono appena svegliata”.

“Molto bene. Dovresti uscire, fare qualcosa. Stare rinchiusa non può che accrescere la tua angoscia”, scandì con una certa premura, come se infine i suoni avessero catturato una disposizione alla benevolenza: ma anche in quel momento il suo affetto non si distingueva da un puntiglio farmaceutico, che, attento ai sintomi psichici, cercava di portarli nell’alveo della normalità, secondo un diritto deciso altrove.

“Mi stai ascoltando?”, le disse con un accenno di preoccupata riprovazione, che tuttavia aveva previsto, desiderato ed ottenuto l’esito sul quale interrogava, dedicandosi quindi a stanarlo per estrarre dalla voce di lei lo stesso suo presentimento vittorioso, soggiogante.

“Vorrei tornare in salotto”, si limitò a rispondere Jessica. 

Quando vide la giornata traboccante di luce fu consapevole di avere trascorso tutta la notte in uno stato di oblio innaturale: forse nel vino o nel suo cibo era stata la causa. Avvertì per la prima volta con rabbrividente precisione le fredde pietre della prigione opprimente in cui l’avevano costretta, dove tuttavia era ancora libera di muoversi. 

Tara le si avvicinò, con un certo timore, inoculatole dal suo patrigno, esitante se chiederle come si sentisse; era in fondo cresciuta senza una vera madre, potendo soltanto accedere al suo distratto simulacro e dunque quale coraggio o sincero attaccamento avrebbe mai potuto provare nei suoi confronti? L’unica ragione per cui non la fuggiva era nel loro tenue legame mentale.

Tuttavia, di fronte all’indecisa ansia di sua figlia, Jessica non sapeva sopprimere un forte rimorso, che la induceva a ritrarsi, per timore che l’eccessivo trasporto, insofferenza di statua alle volumetriche distanze della propria immobilità, l’angosciasse ulteriormente: l’esile contatto condiviso con Tara doveva bastarle e permetterle di volgere il suo senso di colpa in risolutezza.

Si congedò da sua figlia con uno sguardo di rasserenante tranquillità e, avvicinatasi alla finestra del salotto che dava sul giardino, cercò nel verde la concentrazione formale degli steli e delle foglie: volevano che mutasse in consuetudine la sua esistenza, impedendole di riconoscersi in essa come aveva sempre fatto, fino alla morte del solo uomo che avesse amato. Né era umano quell’essere al quale aveva tentato di estorcere una volontà, per quanto invano, scoprendolo vuoto involucro, e temibile per questo, dal momento che poteva sottrarsi ad ogni manipolazione, offrendo semplicemente la superficie liscia della sua insignificanza. 

Viveva come assorbito da compiti minuti, di decenza e severa precisione, fingendo necessità cruciali nella quotidiana inerzia degli anonimi obblighi con altri uomini: questo di terribile stava in lui, non un orgoglio selvaggio che lo rendesse imprendibile, bensì la tenacia con cui cercava appagamento nella sterilità dei rapporti. 

Il suo stesso amore non era che il presupposto della costrizione a ricambiarlo, con la medesima deferenza arida e sommessa: così la sua famiglia era unita da contrattate dipendenze e procedeva meticolosa nell’alveo tracciatone. 

Lei sapeva bene che questa ricerca d’ordine è radicata negli esseri umani, in cui violenta si dibatte, quando sia scossa dall’imprevisto, la negazione di ogni casualità, che ottenebra la coscienza altrimenti forzata all’autodisvelamento, sebbene solo presentito, del suo scarto irrazionale, poiché la stessa negazione è un atto casuale, un temporaneo riparo fatto di inconseguente tremore.

Gli stessi libri svolgono questo fine, per quanto in altra maniera: sono miti di nominazione, che  dicono le cose per renderle inoffensive, pronunciabili in discorsi che ne controllino i guizzi insospettati, la temibile impenetrabilità.

E d’altra parte i discorsi più urgenti sono destinati a fallire, nel momento in cui la sottigliezza con cui si gettano all’inseguimento del caos finisce per suggerirne gli sfumati volti: l’istante della scrittura, in cui la parola dissolve la propria stessa comparsa lasciando intravedere il fatto, è luogo alla magia: per questo non esiste possibilità di spiegarla o comunicarla, poiché la sua attuazione si dà in eventi puri e non in discorsi che li riguardino.

Un incantesimo non è che un tramontare di chi lo compia, il cui defilarsi staglia lo spontaneo evenire dei fatti, che non è essenzialmente altro dalla loro inesistenza come fatti: l’udito degli intelletti occulti non è sensibile ad ogni lingua ma lo è certamente al puro accadere.

Il cominciamento alligna nella parola: dunque è necessaria perfezione razionale per comprendere l’evenire, sebbene essa non si identifichi con l’evenire stesso. Una volta raggiunta, essa rende ugualmente possibile suscitare fatti che annullarne: non vi è ragione per cui qualcosa debba o non debba accadere. Per ogni mondo, totalità di fatti che lo determinano, con una data storia causale, si possono avere infiniti mondi equivalenti che, senza alcuna ragione, cessino di esistere in un istante qualsiasi di tale storia: lo stesso carattere probabilistico delle leggi mostra il loro fondo privo di norma, lo spazio sorgivo e lacerante dell’incantamento. 

Se dunque un’annichilazione fosse consumata localmente, allora si otterrebbe una vendetta più appagante e gelida della morte, priva di ogni violenza biologica: si mostrerebbe che un individuo non ha alcuna ragione di protendersi ad un qualsiasi istante successivo.

 

V.

 

Da qualche minuto si era interamente disposta ad attenderlo, osservando la collocazione dei mobili per allontanare dalla finestra una sconveniente impazienza. In fondo, nonostante il logorio dell’inattività, si sentiva già pienamente coinvolta nell’ansiosa trepidazione di qualche stupefacente avvenimento e fu proprio mentre assaporava l’intimo dominio che in sé poteva imporre ad altri che il suono del campanello ne affrettò i passi detronizzando la sua finzione in favore del gravoso incedere dei fatti.

Quando la signora Van Orman aprì, si vide di fronte quella che appariva una contorsione di appagamento, negli interstizi della perenne smorfia scolpita sul volto del suo complice. Lo invitò ad entrare e nei modi allentati rispetto all’abituale rigore le parve di notarlo assorto da qualche indefinita animosità: una volta seduti, non si trattenne dall’approfondire il suo presentimento.

“La vostra agitazione vi tradisce”.

“Lei sa ogni cosa, fin dall’inizio. Non temo di essere scoperto, ma che lei lo comprenda”, fu la risposta, lentamente forgiata da una voce solida, ma che qualcosa, forse memorie degli ultimi anni, affaticava.

“Io l’ho vista bene, non è più in grado di reagire: siamo noi la sua unica salvezza dallo smarrimento”.

Attraversò metodicamente la guancia con l’indice, esercitandovi una incontrollata pressione, poi le disse:

“Riesce ancora a tormentarmi e continuerà fino a che non le vengano sottratte le ultime forze. Il potere di quella donna è terribile, come la sua malattia. Il più terribile danno l’avrebbe inflitto a sua figlia, se non fossi riuscito ad allontanargliela”.

“Anche nei suoi occhi si cela il risentimento della madre”, precisò con fastidio la signora Van Orman.

“Tara è ancora giovane, e non mi odia. Il padre sopravvive in lei: ma per Jessica non ci sono speranze. Aveva bisogno di un uomo, che le permettesse di continuare a vivere fuori dal sospetto, e così ha cercato di assoggettare me: farmaci, credo…questo proposito la anima ancora, non è spento”.

Una drammatica consapevolezza depose un velo di pallore sopra il suo volto:

“Indifesa, con una figlia, non poteva permettersi di vivere emarginata. Credo sia stata l’assassina di suo marito, ma questo ovviamente non potremo provarlo: purtroppo, ad uno stadio così avanzato di dissociazione, la sola via è toglierle ogni scopo…”.

Queste parole sucitarono nell’interlocutrice l’appassionata fierezza di un gesto doveroso che lasciava spazio alla plasmabilità di un’altra persona, al riscatto di un’anima. Il suo decoro si piegava ora al concitato respiro di scomposte velleità:

“Le daremo nuovi propositi: non sarà difficile accoglierla, una volta che si mostrerà disponibile”.

“Riusciremo presto a condurla fuori di casa. È ancora insofferente verso la sua famiglia ma questo, paradossalmente, potrebbe spingerla verso il resto della comunità. Aveva persino composto un immaginario coerente con le sue allucinazioni: per quanto ora lo nasconda, il fatto di partecipare alle funzioni non ha smesso di intimorirla”.

Una reazione di scandalizzato orrore scosse la signora Van Orman, che fu subito indotta a temperarla con il pietoso appoggio a quell’uomo, di cui immaginava la triste sorte, sebbene non riuscisse a comprendere come potesse essersi fatto irretire, né ad escludere in lui una remota affinità con quella donna, che lei non avrebbe esitato a far rinchiudere immediatamente. Era come se in lui il senso di giustizia si congiungesse ad un’aspirazione di singolare unilateralità, non aliena ad una insolita forma d’affetto: egli desiderava essere per Jessica la sola cura, ed era questa forse una non estirpata coda del vincolo che ella gli aveva imposto.

“Vedrete, riusciremo a risolvere ogni cosa”.

“Credo che sia possibile. Ma perdonatemi, non vi ho chiesto di vostra figlia: mi auguro che la vista di mia moglie non le abbia in alcun modo nociuto”.

“Non preoccupatevi per questo. Non abbiamo voluto nascondere a Veruca il problema perché speriamo che possa diventare amica di Tara, comprendendone la condizione.

Purtroppo sembra che questa sera abbia un poco di febbre, per questo non è scesa a salutarvi”.

Un soffio gelido mormorò incrinature ai vetri della camera, mentre le imposte spalancate lo lasciarono penetrare nella casa, nel cuore della famiglia.

 

VI.

 

Non amava sua moglie.

Ci pensò, con sollievo, quando l’iniziale escrescenza biancastra screziata, percorsa da rivoli, gelidamente fuggitiva, riconobbe con sorpresa come sua.

E di un graffio non si sarebbe preoccupato quando vedeva lei, e sì, una volta sì, le aveva parlato a lungo di cose meno interessanti di quella foga - lo squarcio sembrava rimpiangerla, rossastro e cereo - con cui cercava di colmare la distanza dal cristallino acciaio dei suoi occhi.

Persino la scarmigliatura, spinosa austerità del suo carattere steccato e asciutto, non disordinava le abitudini matrimoniali e, infantilmente, era vero, quell’intonato rimpianto riceveva false risposte nell’eco del suo goffo, severo animo coniugale.

Questa volta, a terra in stupefatta contemplazione - aveva urlato? Soccorritori, ma per che, per rischiare ugualmente di soccombere? - più nitida rifluiva l’immagine: e gli occhi penetranti, che domandavano con criptico interesse, inafferrabile per chi portasse una borsa, schioccante ampia borsa di cuoio…sciocco vaneggiamento, a che serviva pensare che cosa avrebbe fatto da quella distanza senza soccorso, sancita da un’intima verità portata nella borsa, riletta e firmata, ogni mattina con un sinistro risveglio richiusa?

Perché sapeva bene, così facilmente lacerato, mentre zampillavano fitti intrichi da fonti irregolari - e non ancora svenuto, oppure un sogno - di avere qualcosa, una sighiozzante intenzione sopita, una tarda cena, e non poteva, davvero, amare un piatto verdastro di fiori perduti, e tutta quell’opaca umidità, e sorseggiare e mangiare ortaggi fatti d’acqua, no…quella doveva essere un’altra persona perché, molti anni prima, il ricciuto dondolio dei suoi capelli, l’insistente affinità che gliela sottraeva, no…più faticoso il respiro, più freddo, una radente scia d’aria notturna - gli stessi occhi, gli stessi nella belva che lo stava uccidendo e nessun soccorritore.

Trasalì, un ribollente senso di liberazione, l’urlo non osato gli rantolava in bocca ostacolando se stesso - non smetteva sostenendo la finzione che avesse ancora un corpo intatto - e così, proprio così, aveva fatto per lunghi anni, si dice che sia la solitudine ma per lui no, un più profondo timore, ristagnante sullo stomaco o ciò che rimaneva, diverso, molto lontano dal passo attutito nella casa e dai guanti neri guanti domenicali, inelegante testa di bottone, senza odiarla poteva dire che non era adatta a nulla e nemmeno, certamente, a lasciarlo avvinghiare per qualche tremolante accaldante senso di solitudine; non era per questo, poteva morire da solo, divorato vivo, ma una cosa, c’era una cosa - un enorme fegato bluastro, creatura erbacea senza scaglie - che non poteva sopportare - vicino a casa, il suo giardino, erba bluastra e, lì naturalmente, nessun soccorritore - e aveva luccicato una volta in quel sorriso illudendolo su cose in cui era troppo fiducioso e adesso che sentiva le pulsazioni rimbombare ed erano nella casa, senza che potesse distinguere se le luci fossero accese, aggrappandosi allo sguardo cercava il polso delle pareti e gli arrivò alla gola, diluito nel suo stesso sangue - e un ultimo fugace ricordo, la mattina presto quella freschezza di panni e i polsi forti incrociati sulla pagina, senza guardarlo, e avrebbe voluto capire che cosa si celava, quale vicinanza a lui vietata potesse avere la pagina perché quando lo trovò assorto, distogliendosi con un sorriso che forse ne prevedeva l’indecisa angoscia, qualcosa, che sua moglie disponeva con vitrea perfezione, crollò in pezzi e nessuna frase, nessun gesto poteva restituirgli l’intatta speranza di essere una persona un giorno talmente felice da sdraiarsi all’aperto come ora mentre lo stesso sguardo gli sibilava recisa la verità della sua morte gli parve che deglutisse qualcosa di dolciastro e deponesse l’asciugamani fradicio, imbevuto di una freschezza malsana, sul suo ventre, bionda e perduta.

 

VII.

La signora Van Orman aveva atteso suo marito da oltre due ore; la consolava il fatto che sua figlia stesse dormendo, risparmiandole il duplice sforzo di controllare la propria agitazione e quella di Veruca. 

Il sospetto aleggiante non poteva dissipare: e per quale motivo su di lei avrebbe dovuto abbattersi, chiese lamentosa al suo riflesso sulla convessità di una teiera, questa sventura, per quale motivo non era sufficiente restare una vita persone oneste e andare in chiesa e realisticamente disporre le posate sui rispettivi tovaglioli? L’assenza di un motivo non era possibile perché si restava una vita persone oneste e si andava in chiesa e sistemavano realisticamente le posate sui rispettivi tovaglioli e tutte queste erano ottime ragioni per continuare a farlo, inutile pensare al senza ragione, senza chiesa, senza posate, questo si chiama smarrimento e dolore e nessuno vuole il proprio dolore. A meno…

Controllò la vecchia pendola, insolito oggetto nella sua casa, inelegante ammasso ligneo con qualche contrito ornamento più chiaro, drappeggiato in segno di scusa per la rozzezza dell’oggetto, ma chi gliela vendette certo fu meno severo dell’orologio stesso mostrandosi, e disse cose gradevoli, a lei e al marito, ricacciando le gracchianti asperità del denaro nella scipita, dissolventesi complessione del volto, sulla quale avevano frusciato insolitamente nere sopracciglia.

Osservò la linea del tavolo, la tranquillizzante venatura sul telaio delle finestre, in boccioli d’un paglierino brunito orlati dalla tinta più chiara, con regolarità (peristaltica, riemergeva il presentimento) quasi dinamica dischiuse ed assottigliate agli estremi in linee che di nuovo si facevano bordi, placide anse attorno all’incerto variare oltre il (nel) vetro.

Non era l’inaspettato ritardo, in fondo, ad agitarla, ma la sua concomitanza con il successo su quella donna malata e terribile, divorata dalla più oscura delle disgrazie, quella che non può riconoscersi tale e, per questo, va diagnosticando, con oscena, banale precisione la devianza altrui; avvertì la frescura dell’acqua perdersi lungo le pareti dell’esofago, fino ad un punto distante, del quale ogni immagine le era preclusa, in grembo, ignoto luogo di sua figlia, impensabile.

Che l’interno fosse sottratto serviva ad elevare il pensiero verso il rifulgente crinale dello spirito, la dimora luminosa della fede? Così le sembrava, poiché il dolore di una ferita, la fenditura sanguinante del sacrificio, si deve senz’altro al rovesciamento dell’interno dove si rende ostacolo fino a che, almeno, non venga totalmente sparso.

Sentiva di accanirsi in maniera desueta su questo pensiero, ma d’altra parte non sapeva, tracciando l’aderenza delle gocce sulla superficie esterna del bicchiere, negarlo o ritenerlo irrilevante: c’è una ragione per cui siamo estranei al complesso gorgoglio delle nostre interiora e questa perenne distrazione si trova, per ciò stesso, altrove.

La signora Van Orman non era così audace da concludere che una teologia deve basarsi sul metabolismo della caducità, forse persino ingerire i vestigi della miseria e del dolore; non sospettò nemmeno che questo rende il genere umano una specie linfocitica della sostanza divina e che forse alcune implicazioni di un simile punto di vista legittimano l’omicidio. Certamente non fu in grado di pensare tutto questo e piuttosto continuò nervosamente a sfiorare il bicchiere vuoto rievocando astrattamente la congiunzione da cui era nata Veruca, con lieve imbarazzo, salda responsabilità.

Ben presto ogni intermittente mediatazione giunse a trascolorare nell’inerzia dell’attesa, in cui persino la tensione può farsi abitudine ed ottundere ogni suo enfatico accenno o imprevista reazione.

Si alzò, tornò alla finestra, e vide qualcosa di simile ad un bagliore rosso-azzurro; con fatica, fissandovisi, potè scorgere qualche ombra sulla quale si gettavano aloni di quel breve faro circolare: non fu prolungata l’attenzione che la indusse a connettere ogni frammento, distratta congettura in nome di un’ideale più alto, poiché, qualsiasi cosa fosse accaduta, nessun differimento o cancellazione della pena si potevano ora ammettere. 

Decise di non disturbare sua figlia, reputando per sé una buona menzogna celare il coraggio con la discrezione. Una brezza silenziosa spirava tra le quiete, simili case dell’isolato. Sull’atrio, assorta nell’immediato sospetto, non porse attenzione al riflesso lunare del vetro infranto sulla finestra di Veruca, né suppose che l’incantesimo di Jessica avesse iniziato il suo decorso dall’inconscio.

VIII

Passi affrettati scalpicciavano verso quella che le apparve una scena enigmatica di sagome per nulla partecipi, eppure metodicamente guidate da un invisibile canovaccio. Fu la loro doverosa rassegnazione a farle concludere l’esistenza di una vittima. 

Fu l’eccessiva sorpresa con la quale venne accolta a farle concludere l’identità della vittima. Rifiutò di vederla, poiché l’immagine dei fatti si stagliava più nitida nel presentimento già lungamente coltivato della possibilità che nel tracotante dispiegamento del reale.

I documenti avevano permesso, prima che arrivasse, il riconoscimento del corpo.

Di questo la signora Van Orman si rallegrò, dal momento che un eccellente meccanismo s’azionava, attraverso fotografie e firme, componendo ordinatamente il mondo a partire dalla rinnovata pressione sulla carta, dalla confittura delle fotografie, dal periodico esistere che riaffermava in fascicoli azzurrati le sue fattezze, ed emergeva, nell’approvazione, non appena fosse occorso constatarne la lineare, matrimoniale coerenza, da ogni singola voce, dall’effigie violacea impressa con il timbro, recante il nome di una più ampia perfezione, che certamente guardava benevola a ciascuno di quei fogli, ed era benevola, concedendo a ciascuno la sua attenzione, un’effigie, una verità insopprimibile. E l’ora in cui la cerniera veniva tirata sul volto avrebbe potuto essere letta o, in ogni caso, ci sarebbe stata una casella per “ora del decesso” e le cause ne potevano essere esposte con accurata grafia; si sarebbero redatti nuovi documenti intorno agli atomi della storia universale, in un magnifico disegno, sì, disse, magnifico disegno per il quale come non poteva credersi che vi fosse Dio? 

Eppure, circense, come un insensato gioco di prestigio, oscuramente le sorrideva l’intrascrivibile smorfia di quella donna. Che nel suo pacato aggirarne le risposte, condiscendente acquietarla per togliersela di mezzo, avesse concepito una tanto orribile vendetta avrebbe dovuto fin dall’inizio essere stato chiaro: dove se ne sarebbe potuto leggere il cognome? C’era stato un marito, ora il suo nuovo compagno, ottimo profumo, ogni domenica salutandolo ci si convinceva di una redenzione in atto, come se ogni volta capitasse per puro caso, un inconveniente del tutto singolare, l’assenza di sua moglie, che l’avrebbe infine accompagnato la settimana dopo; no, non era un suo strumento, di nessuno si sarebbe potuto dire, di nessuno, pensò lasciando che all’ira si sostituisse un illuminato sdegno.

Forse quella donna riusciva a percepire il sibilo nelle sue vene, udiva il tenue corso dei propri globi oculari volgendo lo sguardo: ed allora non vi era pensiero che potesse coglierla, né, come aveva desiderato, nome che potesse pronunciarla, spazio destinato all’annotazione della sua unica peculiarità, poiché questa era nulla, una scomparsa, la distanziazione da ogni altro. 

Così era necessario, con freddezza, si convinse, impedire che la sua tenebra affiorasse ghermendo l’innocenza nel solco dell’ordine divino.

Sarebbe tornata a casa, evitando ogni reazione eccessiva, di cui pure non percepiva traccia nel sopravvento di un solo proposito, in modo che la calma della giustizia assistesse non più, ormai, il successo, ma la punizione.

Avrebbe telefonato a quell’uomo, di cui forse cominciava a sospettare qualche celata connivenza, e che tuttavia le restava come unico alleato e contatto con il cuore del male: quell’impronunciabile vita, bestiale divincolarsi nella notte degli uomini, aveva infine mostrato la sua unica, sincera identità. E sarebbe forse divenuta visibile guardando all’autopsia come ad un geroglifico, il disegno esposto alla luce del sole di una recondita, tenebrosa minaccia.

Né si sarebbe potuto decifrare quel simbolo senza incorrere nel peccato della sua comprensione: la sua esistenza era tutto ciò che serviva per conoscere il nemico.

IX

Quando ricevette la telefonata fu certo della sua implacabile determinazione. Quella donna che sempre si era infiammata di scherno, appagando la propria crudeltà con il pungente sprezzo offertole da una condizione completamente protetta, era stata per la prima volta ferita da una spietata ritorsione, che stavolta non s’era piegata alla pura possibilità, nel gemito dolente della legge, bensì irritata nel vendicativo lamento della deviazione, compiendo l’estremo sacrilegio di credere all’ordine senza credere in esso.

Per un simile gesto, prova ormai indubbia che all’opera fosse una potenza demoniaca, un sentimento più alto del cordoglio o della rabbia s’era assiso nel suo animo, quel senso d’umanità proprio dell’Inquisizione, grazie al quale ci si dispone ad attuare il più tremendo ed inumano provvedimento, purchè l’anima sia salva: né ora poteva farsi qualcosa di meno.

Con fermezza la signora Van Orman parlò a quell’uomo, e gli fece in tal modo intendere a quale estremo confine la sua buona considerazione l’avesse spinta: nessuna morte decorosa senza il dolore dell’espiazione.

Mentre le sommesse parole domandavano chiarimenti, cercavano con il loro stupore di attenuare lo scandalo, sospingendolo nel terreno di una cauta incredulità, dove un’altra via fosse ancora consentita (poiché in fondo l’amava), Jessica ebbe per la prima volta l’intera consapevolezza richiesta dall’incantesimo, e lo vide lucente, tattile, cedersi alla sua portata. Come sempre accade, di fronte al fine raggiunto ogni fatica si estingue nell’insignificanza, poiché fu eroica fintanto che le si opposero un enigma o un avversario, e non ha più diritto ad esserlo quando la bramosia del compimento ottenebra ogni fiero senso della lotta, in cui lo spirito potè dispiegarsi, farsi multiforme ed infantile nell’abbandono di ogni impresa per la prossima, così tutte serbando nel sempre nuovo slancio dello scorrere vitale.

Non si dovrebbe mai dimenticare che la morte interrompe ogni cosa, fraintendendola per una conclusione, distorcendo la mutevole novità dell’interrotto nel destino fatale dell’ineluttabile. Eppure a qualche cosa ci si deve aggrappare, prima che il già precario respiro dell’identità venga sospinto dall’imprevedibile variazione dei casi; tanto maggiore il dolore quanto più radicato l’appiglio. 

E certamente Jessica era sola, non volendo in alcun modo gravare sulla figlia, poiché sperava per Tara un futuro riscatto, che tuttavia, era costretta  riconoscerlo, chiedeva compromessi. Né sarebbe riuscita a vederla un’ultima volta; lo comprese vedendo l’artefice della sua reclusione entrare, con la vuota calma della disperazione, nella sua stanza, come desiderando interrogarla senza che fosse in grado di figurarsi intorno a che cosa.

“Che cosa stai facendo?”, le chiese, con l’aria di un rimprovero impotente ad intervenire sugli effetti nemmeno immaginabili delle sue azioni. Era molto malata, certamente: ma non era stato in grado - gli rimorse essersene illuso fino a poco prima – di vedere a quale profondità si gettassero le nere angoscie di quel male. Né la terribile atrocità descrittagli dalla signora Van Orman, alla quale associava Jessica in maniera incerta e, per così dire, evanescente, soltanto in forza dell’odio non sopito che ancora provava per la prostrazione a cui ella aveva cercato di sottoporlo, gli pareva fare luce su qualche asperità non scorta, crudeltà attentamente sottratta all’evidenza.

“Nulla”, gli fu risposto, ed era così. Non c’era nulla né si poteva ormai discutere, poiché al dialogo era lasciato esclusivamente il compiaciuto camuffamento dei veri intenti di ciascuno. 

Attraverso la rassegnazione si conduceva l’abnegazione, con l’assentimento il diniego: ed ora tutto si giocava sugli eccessi di zelo, poiché l’avvicinarsi del fine doveva restare nascosto, inarrivabile: questo pensò, accomiatandosi da lei, dopo averla baciata sulla fronte, che avvertì insolitamente fredda, per tentare l’arginamento dell’altro orrore che, nella persona della signora Van Orman, doveva in breve tempo raggiungerlo. 

Si rivolse a Tara, che lo osservava in silenzio, combattuta tra il presentimento di una dolorosa tensione e la risorgente necessità di parlare, o dare l’addio, a sua madre; in lei restava qualcosa del padre - e non avrebbe voluto ridurlo a semplice asservimento nei suoi confronti, poiché credeva di meritare l’amore, la cura di una figlia - il segno ereditario di una salvezza non già distrutta, ma aperta al riscatto della madre, o almeno alla clemenza verso di lei. 

Le chiese di restare, dal momento che avrebbe dovuto proteggere Jessica, almeno entro i limiti di una punizione inevitabile; Tara annuì, mentre soffocava il violento disprezzo per quell’uomo, capace di una gentilezza falsa e conveniente, temperata con sorvegliatezza da qualche ritegno o codice privato diverso dalle persone, più simile ad un potere su di esse.

Benchè sentisse la sua presenza affatto inerme, l’astratto impulso ad un’azione inattesa le provocava insopprimibili tremiti, e le faceva avvertire la facoltà di trarre un autentico valore da quella debolezza, di cui con una sorta di pietoso sdegno era cosciente: s’avvicinò al patrigno promettendogli un muto appoggio.

Jessica era profondamente scossa da un’attesa indefinita che s’approssimava all’esaurimento, spiegando forse il suo trionfo, cosa di cui tuttavia non era affatto certa, reputandolo un imprecisato evento, poiché non esiste nulla di simile al destino, ad una legge che abbia già scandito la sequenza delle nostre azioni prima che essa sia da noi stessi attuata. O forse si tratta di una legge irrazionale, così fluttuante ed imprendibile da non essere mai afferrata come tale e non dunque perché aleggi sopra di noi, bensì per il fatto che ci compenetra e si occulta nella naturalezza stessa della propria realtà: una cospirazione imponderabile sarebbe senza dubbio consolatoria, potendo alimentare il sospetto di un’autorità arroccata chi sa dove, i cui verdetti piombino pure drammaticamente ma entro un gioco di potere ben definito, in modo che ci si possa riconoscere una parte e, solo così, maturare persino odio o dolorosa rassegnazione, tuttavia almeno, con sicurezza, un’identità.

Questo gioco non è garantito dalla norma serpeggiante che invade come semplice natura, spazio offerto degli eventi, subdolamente affine a qualche cosa di donato o di creato o semplicemente di disponibile, laddove invece il suo significato radicale non giace in alcuna origine da cui provenga ma nel suo ineluttabile esserci.

Per accettare questo genere di determinismo non occorreva essere supertiziosi, era anzi necessario non esserlo, ed a causa di una simile condizione Jessica non poteva smettere di propendervi, avendo detestato con fastidio crescente quell’accozzaglia di assicurazioni fallaci mediante la quale altri volevano imporle una vita, renderla omogenea a loro, con il disinteresse allucinato della bontà, quel sentimento terribile e pervasivo d’una santa condizione vera in se stessa, tanto limpidamente approvata da cancellare ogni altro pensiero e giungere, senza rimorso, alla più terribile atrocità pur di sopravvivere nel proprio fulgore. 

L’atteggiamento pacatamente irremovibile dell’uomo che odiava, la crudele gentilezza della signora Van Orman erano segni evidenti della degradazione che interviene quando l’utile sia ricacciato con alterigia e gli uomini, ascesi alla beata litania del disprezzo di sé, mostrino il più penoso egocentrismo, perché radicato nell’assenza di moventi in un essere fragile e finito che  è fatto di moventi e ragioni. Jessica era convinta che l’estrema persecuzione della signora Van Orman non fosse in alcun modo legata all’uccisione di suo marito perché si trattava di suo marito, quanto piuttosto perché si trattava di un omicidio, il crimine ultimo quando l’imperativo può soltanto essere un serio e toccante: “Vivi!”, dovesse in suo nome essere soppressa ogni dignità, calpestata ogni persona, invischiata ogni creatura nel nome di un ideale nobilmente sopra la vita, per avere ancora una dignità ed essere impartito.

Ed allora il modo della sua punizione vacillò, in cerca d’una sottigliezza che segretamente giudicava più vicina al senso della propria esistenza della gelida vendetta meditata; né s’illuse d’essere innocente, poiché Veruca aveva subito quella bestiale metamorfosi per opera sua, ne aveva avvertito il mutamento attraverso l’impercettibile decisione affondata nella mente e nel corpo della ragazza, sorbendone con gioioso impeto di rivalsa il travaglio furente, per il quale l’orrore non veniva meno dal suo condizionamento che dalla prontezza con la quale era assecondato in quegli occhi guizzanti di malignità.

Tara non aveva mai conosciuto sua madre come madre, condividendo con lei un legame troppo intimo, benchè inibito parzialmente da Jessica, per essere davvero affetto, un sentimento che le fosse rivolto e non inoculato, che le fosse porto anziché la invadesse: l’eccessiva prossimità è un’aspirazione infettiva, dal momento che l’amore, la maternità chiedono il diverso e non la corrispondenza, non l’intera solitudine di una compenetrazione e del suo ingannevole abbraccio senza differenze.

E d’altra parte l’assenza di quella donna dalla vita di Tara le impediva meno di concederle il suo attaccamento che di ricevere quello dell’altra: così in lei restava qualcosa del padre, che l’avrebbe salvata e la spingeva ora a proteggere Jessica, ricordando come in fondo le fosse legata da autentico amore, benchè distante e timoroso. 

La signora Van Orman giunse accompagnata da due agenti: il suo ascensivo ritegno le consentiva di trattenere l’ira sprezzante della punizione cui era votata in un’espressione di naturale condiscendenza all’ordine dei fatti, che vedeva necessariamente favorevole al compimento non solo del suo proposito, ma della verità stessa, che doveva pronunciare quell’intrattabile donna, portarla nell’aperto della disamina, dove le preghiere e i medicinali potessero rinvenirne la persona.

E così, nonostante trovasse ad opporlesi l’uomo verso il quale aveva provato più che semplice accordo, dal momento che nel suo sapiente lavoro di condiscendenza ai bisogni altrui (ai suoi stessi) si rendeva desiderabile in un modo decente e privo di trafelate gualciture (quante di esse sugli orli e gli abiti di suo marito, che insopportabile perverso allentamento gli avrebbe guadagnato la perdizione!), decise di ricacciare il trasporto verso di lui nel divorante abbraccio della giustizia e del dovere, verso cui tutta quanta la sua lealtà era diretta, fino alla cancellazione di sé, fino all’eternità del suo nome in quel gesto di giustizia e dovere superiori, in grazia del quale si disponeva la condanna che forse avrebbe evitato quell’altra, senza fine, a cui quella donna era disperatamente vicina.

Non servirono parole per intimare la presenza di Jessica e comandare la deposizione di ogni difesa, rassegnata al compimento dell’inevitabile: in questo silenzio Jessica comparve, uscendo dalla sala di lettura, in volto una pacatezza difficile, segno di quanto il proprio interiore travaglio le permettesse di guardare all’esterno con diverso acume, incontaminato equilibrio, amorevolmente assicurando, consolando sua figlia (benchè avvivasse in lei un’inquieta trepidazione, che si doveva forse al legame mentale istituito con la madre, ora filo d’allusioni e non voluti presagi), senza altro sentimento dall’indifferenza nei confronti dello sciocco, dispotico patrigno al fianco di lei.

Un moto di stupore e impreparazione colse tutti quanti, poiché l’ironica apparizione di Jessica assomigliava ad una parodia della colpa: bene eretta, con una certa gravità, dopo alcuni passi in avanti, d’una lungheggiante metodicità, trovandosi alla destra di Tara, congiunte le mani in grembo, con un portamento che confondeva ospitalità e sfida, si rimise, silenziosamente, alla signora Van Orman ed agli agenti, lasciando il perfezionamento della pantomima al loro tentativo di condurla con sé.

La quiete beffarda che le rinfacciava suscitò una a stento soffocata reazione di scandalo nella signora Van Orman, alla quale pareva di scorgere la più peccaminosa esibizione di un essere corrotto nella dolcezza con la quale una certa coscienza del delitto, e dunque connivenza con le forze indicibili da cui era scaturito, si dissolveva e riprendeva nella spontaneità con cui s’era offerta e sapeva pensarsi, forse persino giudicarsi rettamente, vittima.

Né gli agenti, in effetti motivati più da pressioni esterne che da un chiaro convincimento all’azione, furono freddi e recisi, poiché una preoccupante instabilità vedevano rivelarsi nella persona che li aveva convocati, probabilmente imputabile all’omicidio del quale poche ore prima era venuta a conoscenza: d’altra parte erano al corrente delle cure mediche cui da lungo tempo Jessica era sottoposta, fatte di sorveglianza e disciplina piuttosto che di psicofarmaci e pertanto non tali da escludere la realizzazione di una instabilità ravvivata dalla sua continua frustrazione, cui avrebbe potuto attaccarsi per estrarne i germi di qualche intento persecutorio. Insomma non era necessario che fosse colpevole di un qualsivoglia omicidio; il suo profilo clinico reclamava una degenza regolare e, per garantirla, era del tutto sufficiente un pretesto che ipotecasse con l’allarmismo la propria fondatezza.

Tuttavia qualcosa di parodico traspariva dal contegno di Jessica, mutato da cauto senso di rivalsa ad illuminazione, rimossi gli estremi pregiudizi cui soggiaceva, ora talmente disteso che avrebbe forse approvato il verdetto emesso nei suoi confronti, ma per sollevarsene al di sopra, svelando un’insospettata verticalità, l’apoteosi non immaginabile di un’alternativa. 

Il patrigno di Tara la allontanò da sua madre, senza contrastare la volontà della ragazza, nella quale il timore, come presagio, s’era fatto impulso a ritrarsi, poiché spettatrice poteva essere di quella scena, ma solo ad una distanza sopportabile d’impressioni visive, prima che il tocco, l’ultima richiesta di una parola a Jessica le comunicasse un’abissale, inspiegata inconsistenza (in seguito non le sarebbe parso d’aver visto che una maledizione sottilmente iniettatale, dal momento che il sentimento impalpabile condiviso con Jessica animava ogni sua memoria di soffi scompiglianti e disordinati crolli). Egli stesso si fece più prossimo alla signora Van Orman, dando le spalle all’ingresso di casa.

Osservando le fattezze della moglie in cerca d’una risposta, quasi ne frugasse il volto per attingere alla comprensione del suo ostentato eppure imprendibile rivolgimento, non potè che cogliere un mezzo sorriso - meno ancora - un’insolita curvatura al margine sinistro delle labbra, che parve dilatarsi, scoprendo i denti, in modo irreale, digrignante. Gli stessi occhi, sull’orlo della immobilità, senza contrazione della palpebra, erano percorsi da una vibrante coalescenza per cui sembrava che la pupilla tingesse ed accogliesse in sé l’iride ed il resto del biancore: né egli sapeva ora discendere da quella maschera al corpo, tutto quanto attraversato da un formicolio d’ombra, divenuto ormai una non dissezionabile, non qualificabile sagoma, alla quale riconosceva tuttavia l’identità di Jessica, e ciò accadeva per il volto medesimo, quando ritornava ad appuntarvisi dopo avere brancolato lungo l’altra confusa anatomia. Vi era una distorsione dei tratti, quando l’attenzione vi indugiasse, come se le forme ormai escluse da ogni definizione segnassero i contorni di una persona solo istantaneamente, nell’ipostasi temporale separata da ciò che è trascorso e ciò che s’attende di ricevere, conchiusa nell’attimo in cui dovrà essere ceduta, in cui s’estingue per chi avverte il mutamento.

Che fosse stata sempre un demone e in figura femminile crescesse fin dalle viscere quell’orribile metamorfosi? Che il demone in lei, molti anni prima, avesse sedotto un uomo celando nell’amore la sua consunzione e terribile, stremata morte? Quanta innocenza ancora restasse intatta in Tara non si poteva dire, né se la prole di sua madre s’alimentasse in lei; sarebbe fuggita di casa, di questo era certo, e d’altra parte non era consigliabile che rimanesse.

Per lei ci sarebbe stato un padre, pensò scorgendovi, ora con vivezza nuova, un’evanescenza di Jessica, il sospiro di qualcosa ancora afferrabile, che avrebbe potuto amare.

 

X

 

Guizzi di luce, scagliati come teste di dardi incendiarii nella piena oscurità, parvero rallentare, disporsi a fuoco, infine sinuose fiamme di candele: un presentimento liminare, a metà tra l’accoglienza e la maledizione, la colse percependone un tal numero, disposto ad anse e rilievi, come il volto di una città vista da lontano, durante la notte. L’anima danzante di ciascuna luce finì per trascolorare, alla livida opacità di un crepuscolo, in profili levigati di roccia, lapidi sulle quali, perennemente inarcate, in spettrale sussiego, statue di cui distingueva appena il contorno parevano trascinarla in una danza sovrumana, sublimata nelle pose immobili, ma per questo incessanti, freneticamente insistite fino al limite del gesto, dal quale non era più possibile ritrarsi, con cui s’ergevano su ogni tomba.

Una nera sagoma nascose per un attimo le lapidi, che ne riaffiorarono baluginanti, chiazze violacee contro l’impenetrabilmente cupo verde alle loro spalle: ogni cosa d’improvviso annegò in uno smarrimento tenebroso dal quale, l’istante successivo, emerse un teschio, una testa umana alla quale, cerei e sfilacciati, s’avvinghiavano i resti della carni, simili a fruste bende d’un orribile candore.

Nuovamente, densa tenebra, e poi i barlumi dorati d’un idolo: Buffy avvertiva di non essere piombata nell’acquatico volteggiare dei sogni quanto piuttosto in una sorta di ossessivo rapimento, una distorsione del suo precedente stato, il segreto cunicolo tra i sogni e le profezie. Le parve che un arto squamoso artigliasse il suo collo nel torpore affascinato dell’immagine: l’orrore era sottoposto ad una sottile fascinazione poiché scopriva, alzava lembi del futuro rendendolo abbacinamento d’una vicinanza, voluttà dell’eccesso. Non è forse possibile vaticinio senza delirio e godimento insieme, poiché interviene anche di fronte al più minaccioso destino uno spasimo di pienezza, nello squarcio s’arrovescia un gemito strozzato, l’essere presi dalla visione e il dominarla come ciò che si è colto, forse la condanna ad un fatto ma, all’atto della sua apprensione, il potere su di esso, l’inebriante infrazione di una totalità rilasciata alla propria consapevolezza.

Poi la nitida visione della perdita, poiché l’appagamento sensibile di ciò che trascende il senso del tempo non è cosa che possa trattenersi, e la più stagliata, la successiva conquista della conoscenza, in cui fiaccole, lumi distinti segnano ciò che della profezia è infine contenibile, la geografia del destino, una mappa dai confini sommersi, ma ora estratta allo scandaglio, sottoposta all’ansiosa ricerca delle figure. E al di sotto, attraverso la mappa infine i segni, le lettere di un antico retaggio debordante, oltrepassante, ma stretto come una certezza, nell’attimo in cui non si è ceduti all’estinzione, il sussulto temporale fattosi verbo, “Vampyr”. Immagini dischiuse d’infernale coazione alla crudeltà, ripetizione di segni, sovrastanti, più dell’individuo e forza trascinante della sua esistenza, Buffy fu travolta, pervasa dall’appartenenza a ciò che le si versava pulsante e viscoso nell’animo, un compito nel calice del respiro stesso poiché qualcosa di sottile, una costruzione millenaria o senza origine, o nemmeno una costruzione, qualcosa di sottile attecchiva per ramificarsi biforcarsi autodistruttivo in altre lingue terrigne efflorescendo in venuzze oltre tutta se stessa, privo di altra legge che la crescita, distante quanto poteva sentirlo parte di sé, nel paradosso della totalità fatto di arsure abiuranti e vuoti passi notturni non ancora piegati alla caccia dal satanico lucore come lanterne sacrificali antropomorfiche potessero riscuotersi senza fine infiammava la sua assoluzione di cenere, l’atto impietoso al quale era stata concessa, non suo, nient’altro che suo, nel tumulto di brivido e possessione non era diversa dalla sotterranea bramosia dell’avversario.    

Al suo risveglio nessuna angoscia la tormentava, dal momento che, avvolta e pervasa dalle visioni, le sentiva persino familiari, nel modo, tetro soltanto per chi lo guardi dall’esterno, di un docile assentimento che smette l’apnea per concedersi all’acqua, mentre nelle viscere e nei polmoni torna una distante, uterina increspatura, il contatto con un principio che annega e porta alla luce, oltrepassante, sovrastante.

Lungo le vampe liquide del suo ridestarsi Buffy udì il culmine di un momento, la beffarda risata stemperantesi nel motivo del suo gioco, per il quale aveva rubato la nullità destinatale un giorno  e l’aveva rimirata con il compiacimento del gioco stesso, piegando alla presa spontanea l’indefinita soggezione.   

 

 

FINE

 

 

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