Come tutte le mattine lo scossero le vibrazioni ed il rumore della metropolitana che passava a non più di dieci metri dal suo appartamento “…arredato e signorile a due passi dal Central Park e dagli uffici commerciali di Manhattan…” :  a parte il brusco ma necessario risveglio a cui era oramai abituato quello che lo faceva stare male era come il sonno travagliato che fece.

Sognò infatti l’Italia e la sua squadra di calcio giovanile, il campo di calcio in terra battuta, il suo allenatore perennemente incazzato, i compagni di squadra, i genitori e suo fratello al di là della rete che gridavano e lui che era pronto a parare il rigore : il giocatore avversario battè la palla con una forza tale che pareva in jet ma l’esito di quel tiro di cui aveva intuito la traiettoria si confuse con l’arrivo della metro.

Un brivido di freddo lo fece sussultare appena poggiò un piede a terra “In questa cavolo di città cambia il tempo senza un po’ de mezza stagione… oggi me devo ricordà de passà al 48° piano a comprà qualcosa…” nella valigia che si era portato e che aveva frettolosamente composto prima di partire pochi giorni prima, aveva camicie leggere e vestiti di cotone che iniziavano ad essere leggeri anche perché appena arrivato gli avevano detto che l’inverno nella grande mela era rigido quanto basta.

Ciò che lo aveva spinto ad accettare quel lavoro appena laureato era quello di volare via dal suo minuscolo paese, dalla sua piccola città universitaria, piena di problemi piccoli e di piccole chiacchiere e di cominciare a vivere veramente alla grande, come aveva sempre sognato.

A casa l’avevano presa male come quando decise di essersi rotto le scatole di giocare a calcio: non che suo padre ci tenesse particolarmente ma gli fù proposto di andarsene in uno squadrone di serie C, chance piovuta dal cielo senza che avesse avuto il tempo di rifletterci un po’ su .

Scelse di sbattersene di allenamenti ed allenatori scassanti, di sabati sera a dormire, di visite mediche e pasticconi da ingerire prima dei pasti e si rifugiò matricola in una facoltà che manco lontanamente avrebbe immaginato di poter frequentare.

Oramai aveva preso gusto a tuffarsi tutte le mattine nel mucchio selvaggio delle avenue, prendendo l’autobus e la metro come una delle formichine che vedeva dall’alto del 105° piano della torre in cui lavorava : riusciva a scorgere col binocolo l’agenzia di moda e gli spogliatoi del 101° piano della torre di fronte.

Era solo nel suo ufficio, era abbondantemente un anticipo e decise di tirar fuori il binocolo dal cassetto della sua scrivania : forse si poteva vedere qualcosa anche di mattina presto.

S’accostò al vetro oscurato ed iniziò a guardare; il sole penetrava nell’ufficio e cominciava a picchiare duro sopra all’atmosfera sporca dell’aria di Manhattan : nessuna modella al 101°.

Alzò lo sguardo al cielo e vide un aereo passare su in alto nel cielo ed era quasi come un puntino mentre Jack arrivò da dietro furtivo senza farsi vedere, per fargli paura.

“Jack, non fare l’imbecille…t’ho visto riflesso” “Merda! Credevo fosse la volta buona che t’avrei fatto fare un salto in aria!” s’appoggiò di fianco a lui attaccato al vetro “A che pensi…” “ E tu di prima mattina mi fai ‘ste domande?” “Mah ti vedo strano… poi sei arrivato prima di me stamattina e prima di Burns… la cosa mi puzza!” “No è che ho un rigore in sospeso con me stesso” “Eh?” “Niente niente … non vorrei che avessi sbagliato qualcosa…” “Ma che dici.. non ti capisco…” “Voglio sapere solo come va a finire… magari lo risogno stanotte…” “Ascolta… mi sa che oggi con te non è aria eh?.. ci vediamo dopo alla pausa caffè.. tieni il mio intanto, ti schiarisse le idee…” Jack uscì.

Prese ancora una volta il binocolo : dal 101° ancora niente.

“Magari stanotte appena me rimetto a letto vedo come va a finire…” Ripose il binocolo nel cassetto della scrivania, si stiracchiò le braccia e mise le mani dietro la nuca.

Scorse il calendario e tolse la pagina di lunedì, sbadigliò ed accese il suo laptop.

“Sarà una lunga giornata oggi…”

 

WTC, Manhattan, 11/9/2001