Apparenza

 

Certe serate, si sa già come vanno. Esci con gli amici, vai a mangiare fuori, ti abbotti come un agnello. Poi ti senti satollo come una scrofa pronta da scannare.

A volte, magari, ci hai pure la fortuna d’incontrar il ragazzo d’una amica (di amici) che tenta di spacciarti la guerra in Bosnia come "Guerra Santa" e altre cazzate simili.

E non resisti alla tentazione di dirgli, che, in fondo, si "vede" che ha fatto la guerra in Bosnia, si "sente"! Poi, grazziaddio, c’è pure quello che, per troncare il discorso, commenta argutamente: "Peccato!… Io ero filo-serbo!"

Grande! Poi, dopo, si va al lago! "Rambo" non ci segue. Qualcosa mi dice che io non sono l’unico cui non frega nulla!

Il lago. Cazzo che bello! Ci sono le Stelle che si sbracano nell’acqua, così calma che pare olio! Una cantante dal gran culo e dalla voce fiacca intona canzoni difficilissime! Ma si sa, per digerire, in realtà, questo è quel che ci vuole: cazzeggio andante e Luna a "Marechiare". O il lago, a seconda delle contingenze. Odore di fieno tagliato, che ti punge il naso, un po’ di clamore… e via così, sdraiati sulla spiaggetta un paio di minuti, a fissare le luci dell’altra riva, quel liquido scuro che pare ci puoi quasi camminare. E, in ultimo, le stelle spruzzate sul cielo con "effetto neve". Ti accorgi che ce ne son proprio tante. Poi ti togli gli occhiali, e le Stelle scompaiono. Ti rimane solo la sensazione di dejà vu!

È tutto talmente "incantevole": quelle ragazze dai lunghi capelli, occhi scintillanti, sorrisi ammiccanti e glutei inguainati in pantaloni o gonne che ti sturbano, che non vedi l’ora di andartene. Ci congediamo da quell’ameno luogo. Meno male: ‘troppa bellezza, a stomaco pieno’, verrebbe da pensare. Non lo penso. Ho sonno. C’è pure chi ha freddo. Mi pare ridicolo.

In macchina, al ritorno, gli altri parlano. Sto in silenzio, cosa che mi capita tanto raramente che tutti – un po’ a turno – mi chiedono se sto bene. Sistematicamente, mi destano dal dormiveglia. Biascico due incomprensibili parole ogni volta. La bocca impastata. La mia lingua è un enorme gnocco arido e frigido.

Quando devo prendere io la mia macchina, son già di nuovo bello sveglio, ma ancora satollo come un atollo delle Figi! Parlo poco, le parole me le son tenute per adesso. Forse troppe.

Allora, trovo parcheggio a cento metri da casa mia. Mi abbasso a spegnere lo stereo. Son le due e mezza di notte. Son così pieno che piegarmi in avanti m’è quasi uno sforzo. Sento un botto, vetri rotti. Penso: "Ogni volta che vuotano i nuovi cassonetti di metallo, fanno un casino incredibile!" Chiudo la macchina.

Al centro della strada c’è un parcheggio a spina di pesce, sopraelevato di dieci centimetri circa rispetto al piano stradale.

La scena pare svolgersi alla moviola. Guardo alzarsi un po’ di polvere. Normale, quando scaricano quei cassonetti che paiono bisonti di ferro. Poi, in una grottesca girandola di considerazioni, prendo coscienza che i cassonetti si trovano più a lato, e che – assurdamente – mi ricordavo un albero dall’altra parte della strada.

Mi dico: "Vabbe’, non pensare subito male." Ma le alternative son poche. Vedo, però, che dai palazzi circostanti, di sette piani, tutt’intorno, si accende una sola luce. Tutti dormono, e se ne fregano alla grande.

Passo dall’altra parte. Una macchina coperta dalle fronde di un albero. Vedo una ragazza in piedi, e il suo ragazzo che la consola.

"Non stanno male!" E’ la prima considerazione. Faccio per prendere il cellulare e chiamare il 113, ma un uomo, sui trent’anni, testa rasata, già sta chiamando. Andava a casa con moglie e figlioletta di due anni, e s’è beccata ‘sta rogna.

Il ragazzo alla guida è premuroso, premurosissimo! Non pensa a sé, fors’anche perché non si è fatto nulla. Trema. Comprensibile. Lei ha qualche taglietto sulla faccia, forse ha il setto nasale rotto, piccole ferite lacero-contuse sul volto. Verosimile trauma cranico, pure se non vedo lividi sulla sua fronte. Il parabrezza ha resistito. Non sono entrati rami nell’auto. La dinamica, spiega il ragazzo: Uno sbuca all’improvviso, lo evita, piglia l’albero. Paradossalmente è fortunato. Di solito lì è pieno di macchine. Nessuno reclama per un albero. Per una macchina, sì!

L’uomo che ha telefonato dice di aver visto effettivamente un pazzo che correva, ma null’altro. Io, a dir la verità, nulla. Ma non ho sentito neppure la sterzata che avrebbe dovuto fare una macchina che si sarebbe dovuta immettere così repentinamente nella strada, stando a quanto affermava il ragazzo. Sembrava sicuro. Non glie ne fregava un cazzo della macchina. La ragazza aveva appena qualche taglietto, la macchina distrutta. Ma, a lui, della macchina, non glie ne fregava proprio nulla. Strani, i sensi di colpa, ho pensato un attimo. Poi mi vergognato delle mie considerazioni.

Della macchina non glie ne fregava nulla, veramente. La ragazza aveva due taglietti. Era arrivata l’autoambulanza. La macchina sarebbe restata là!

"Che cazzo me frega d’ ‘a machina! ‘A ragazza mia sta mmale! Dio, ch’ho fatto! Io vengo co’ voi! Ahò, mo vie’ ‘n amico mio, ditejjie che sto all’ospedale! Ciccì’, Ciccì’, come stai?…"

Sembrava che non avesse occhi che per la sua ragazza. Una biondina, dall’aria dolce, ,grassottella, con una felpa azzurra con sopra Paperino o simili. La vita sua, sembrava che gli stessero portando via, a questo ragazzo, la vita sua.

Spaventatissima, lei, chiaro, con quei due occhioni innocenti, così mi parvero. Ci mettemmo a prendere tutti i documenti che c’erano nella macchina.

A lui, non glie ne importava nulla! "Ciccì’, Ciccina mia! Che t’ho fatto! Come stai?" Ma stava bene, si capiva, grazziaddio, si vedeva, da quel poco che ne capisco, e pure quelli dell’ambulanza l’avevano confremato! Di certo, però, la cintura non la portavano. C’era sangue sul cruscotto dalla parte del passeggero. Lui aveva l’air bag, che ora giaceva floscio sul volante. Una macchia rosa buttata lì.

Noi eravamo impegnati a recuperare la macchina. Per impedire, oltre al danno, la beffa di veder ritirare la patente a quel ragazzo. Quel ragazzo che si preoccupava soltanto della sua pischelletta. E ci sarebbe parso un delitto inaudito infierire.

L’uomo sui trent’anni, frattanto, bestemmiava che non voleva "un cazzo di responsabilità!" Ma era ovvio che, oramai, ci stava; e se la stava cavando benissimo.

L’ambulanza partì.

"Dio, Ciccì’, che t’ho fatto!" diceva.

La vita sua, la vita sua, pareva che gli stessero portando via!

L’uomo sui trent’anni accompagnò moglie e figlioletta a casa. Bestemmiò della responsabilità che s’era preso. Ma, oramai... Tornò subito. A me non andava di lasciare l’auto incustodita. Dovetti anche dire a un paio di macchine di curiosi che era tutto a posto. Ma – visto che dai casermoni nessuno s’era degnato d’affacciarsi solo – mi fece molto piacere vedere quell’interessamento. Per quelli che dormivano, potevi anche crepare. E forse avrei fatto lo stesso io! Chi lo sa.

Arrivò finalmente l’amico del ragazzo.

Esclamò: "Ma ‘sto poraccio! È propio sfigato! Tutt’a llui je capitano!"

"– Aggiunse l’uomo sui trent’anni – m’aveva accennato a qualche casino ch’aveva combinato! Se vôi, potemo fa’ sparì’ la macchina, prima ch’arriva ‘a polizzia, però deve pagà’, me dispiace!"

"Ahò, che te devo da dì’? Pagherà! Già je fai ‘n favore!"

 

Nel frattempo che il carro attrezzi arrivava, l’amico ci spiegò.

Ci confidò – e non so dire se con una punta di amarezza, o che… c’era poco da capire – che quel ragazzo aveva avuto un incidente pochi mesi fa.

Gli avevano ritirato la patente. Aveva ammazzato uno, così disse! Cioè, stava facendo inversione a U, e un motociclista gli si "spalmò" sulla fiancata… "Ahò, quello c’è rimasto… Ha fatto arifà la fiancata da poco! E mo’…"

"Strano che j’hàbbino aridato la patente" Commentò il trentenne.

"Ha rifatto l’esami. Saranno ‘n par de settimane… Questo, la madre, la fa morì’, ‘n giorno de questi!"

Poi, aggiunse quasi con noncuranza, come se fosse il minore dei mali, che aveva fatto abortire la ragazza appena tre giorni prima.

Lo disse con una tale leggerezza che lì per lì non realizzai. Dopo, che so, lo stomaco, me lo sentii di pietra, come se avessi ingurgitato mattoni. Mi si strinse d’un tratto, ebbi la nausea. Non per l’aborto. Però, mi immaginai in un istante la scena. Le ultime settimane di quella coppia. L’ultima settimana.

Gli ultimi quattro giorni. E forse, forse – pensai per un grande istante – quello era il sabato sera che lui aveva portato fuori lei, magari per ricompensa per avere accettato d’abortire. Era un pensiero crudele. Ma mi venivano alla mente gli occhioni di quella ragazza non bellissima, grassottella. Mi fissai le scarpe. Avevo l’anima e lo stomaco in rivolta, e nel cuore un misto di acredine e compassione. Compassione per quella ragazza.

Pensai: "Quale amore può sublimare tutto questo? Quale bisogno d’affetto può giustificare il fatto che lei si accontenti di quel bene malato, "perverso", che lui le offre?" Ma io, in fondo, non sapevo niente. Nella mia mente, però, i pezzi si ricomponevano.

L’aveva fatta abortire? Non poteva essere vero. Lei, ancora con lui! Dopo tutto questo. Lei, con quell’aria spaurita, con quella felpa di Paperino, senza trucco. Lui – che ripeteva – "che t’ho fatto!" Ma no, così scontato! Fissai lo sguardo sulle scure macchie d’olio sopra asfalto nero. Poi portarono via la macchina.

Me ne tornai a casa. Lo stomaco mi sembrava un vulcano attivo. Nausea che mi saliva con un frizzare su fino al naso. Cercavo di lasciar correre le immagini nella mia mente. Vidi lui, così dispiaciuto, così avvilito, così innamorato. Vidi lei, che mi pareva un cerbiatto spaurito, con quella felpona azzurra che l’avvolgeva a sacco. Doveva voler molto bene a quel ragazzo. Forse troppo. Non so. Non sapevo niente. Mi dispiaceva, mi dispiaceva per tutti: per lei, per lui, per il motociclista. Mi dispiaceva pure per l’albero.

E per il bambino… Cazzo, non l’avevo mai vista così. Il primo sabato sera, per lei… no! Non l’avevo mai vista così. Mi dispiaceva per tutti, per tutti, sì, e per il mondo (che andava avanti in questo modo, e io non ci potevo fare niente), per l’affetto malato, per le occasioni mancate, per i rimpianti.

E pensavo.

Ad una ragazza sola.

Ad un albero morto.

Ad un bambino mai nato.

Mi ripetevo che non era giusto, ma che il mondo, volente o nolente, andava avanti così da sempre.

 

 

 

HomePage