LA GARA

Caldo. Appiccicoso. Umido.

Acqua.

Tuffo. Sensazione rinfrescante di mille bollicine azzurre che stuzzicano la pelle come leggere scosse elettriche.

Riemergere, mi sembrava, dall’eternità…

Una barca di pescatori – in lontananza – rientrava nel porto, ed io osservavo il loro lavoro crogiolandomi nell’immensa tranquillità chiara. Altre due bracciate, e poi, stendersi sul dorso. Godere di quell’istante come se fosse un attimo di gioia pura. E il Sole mi guardava fisso.

"Antò'!"

Silenzio, da parte mia. Chi era? L’acqua nelle orecchie era il migliore anestetico della ragione e delle ansie.

"Antò'!" Ancora! Raffaele non poteva mancare; laddove c’è pace, deve esserci pure chi deve romperla… dev’essere legge divina!

"Ahò, ma che vôi?" gli urlai contro.

"c’avemo da fa’ co’ quelli der Colle der Pino, ‘na gara. Semo troppo pochi. Ce servi tu, sinnò, sai che ffigura de…"

"Ho capito, poeta. Nun rovinà’ l’atmosfera. Ma proprio a me dovevi da venì a rompe l’anima? E Mimmo Tartajia? E Riccardo?"

"So’ già in squadra. C’è puro ‘r Provola e ‘r Mollica… Tutti ‘nsomma. Ce manchi tu, dajjie ch’è tardi! – È ‘na cosa ‘n granne!… E te vòi move’?"

"E vengo! Ma che dovemo da fa’, de presciso?"

"Dovémio da fa’ ‘r giro de lo scojjio der Gabbiano! Chi arriva pe’ primo de le du’ squadre, vince… e l’antri pagheno da beve pe’ ‘na settimana a tutti quelli dell’antra squadra."

"Vabbe’ vabbe’ – Sto a venì’!"

Quelli del Pino erano già tutti in fila sulla battigia. Marione sudava come un canguro; ma si sapeva che, in acqua, la sua mole grassa e unticcia diventava una gazzella africana inseguita da un leone. Anche per questo il suo secondo soprannome era Viado (ma sottovoce, perché menava!).

Marione e Raffaele si accordarono sulle regole: Nessuna, ovviamente, sangue incluso (e consigliato), e poi, però, alla fine, tutti a mangiare – amici come prima. E si rimaneva veramente amici. Io e Raffaele – in una gara simile – a momenti ci affogavamo a vicenda. Per una che poi, mentre noi nuotavamo « perigliosamente» ne’ flutti, s’intratteneva giocosamente con uno del Pino. A cui noi – eroicamente ed anonimamente – rompemmo le ossa. Da quel giorno, loro con le loro donne, e noi… pure (tranne con quella di Marione, vi ho già detto perché).

Il via lo diede, appunto, la ragazza di Marione (imparziale): Giovanna, detta la Fardona (o Farda), per i suoi splendidi occhi di Stella.

Spruzzi alti e schiuma di neve nel blu del cielo e del mare.

"Dajjie – dajjie!" la spiaggia gridava; da su gli scogli un’immensità vociante di gente inneggiava all’una e all’altra parte. Altri, facevano solo chiasso, ma partecipavano così a quella corrida marina.

Dall’alto del faraglione, lo Scoglio del Gabbiano, un ragazzo del Pino osservava – sempre imparziale – la gara. Finchè desiderò gettarsi anche lui nella vorticosa mischia. Era questo, dunque, l’asso nella manica di Marione. Bracciata dopo bracciata, tentai di recuperare Marione e il suo nuovo alleato, ma i muscoli, per quanto poterono, non ressero il confronto.

Acqua – intorno a me. Ed intanto gli altri ci riprendevano. Ma Marione e compare avevano troppo vantaggio. E io non ero – mio malgrado – quel fuoriclasse che avevo sempre lasciato credere.

L’adrenalina saliva per livore, rabbia e furore. Lo spirito agonistico lasciava il posto a un’animosità sublimata. Vincere non era necessario. Perdere così, non andava giù. Marione ce l’aveva fatto apposta. Vincere onestamente non avrebbe avuto gusto.

Marione e compare toccarono terra con un grido scimmiesco. Molto appropriato alle persone.

Com’era prevedibile, s’ebbe rissa (soltanto verbale – gli sganassoni sarebbero giunti la sera).

Intanto io mi guardai attorno, poi urlai al più vicino dei miei:

"Ma se pò sapè’ de chi è stata lla bell’idea de fa’ ‘sta bbojjiata?"

"De Raffaele!"

"A Raffaé’, ‘cci tua, ma ‘ndo stai?" gridai con quanto fiato m’era rimasto in corpo (ben poco).

Ma Raffaele non c’era già più.

E non c’era neanche Giovanna la Farda.

Due più due…

La sera gli sganassoni volarono pure per quello.

Poi io presi da parte Raffaele, lo consolai. Lo portai sul pontile, e, librandolo giù dalla banchina, nell’oleoso nero mare notturno, aggiunsi:

"Mo fatte ‘n bagno. Nuota, nuota, che notà’ ffa bbene…"

 

Fine

 

 

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