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Umberto
Di Salvatore


tratto da Giorno...


Ancora un mese qui dentro e poi tornerò ad essere un uomo libero che non dovrà più aver paura di riconoscere suo figlio, sposandone la madre. Vivo ogni giorno per questo momento, per il ritorno in questo luogo in cui una mattina le chiederò di non vergognarsi più. So che lei ha capito che sono venuto a conoscenza di tutta la verità ed i suoi sguardi mi lusingano. Lei sa che nostro figlio crescerà ben curato nella mia casa, anzi nella nostra, e non gli mancherà nulla. Entrambi aspettiamo che io esca anche se non abbiamo mai scambiato una parola.

In queste ultime tre settimane sto veramente bene, come non stavo da tempo. Tutto questo mi ha aiutato molto, anzi sono sicuro che se non fosse accaduto, i miei discorsi ed i miei pensieri si limiterebbero a semplici frasi senza senso.

Ho in mente mille sogni da realizzare, fantasie che ogni giorno fuoriescono dal mio cuore felice.Progetti su di noi, sul suo lavoro e sul nostro primo viaggio dopo esserci sposati. Mi ritrovo accanto a lei, a guardarle i capelli, nell’attesa di vivere quel gioioso momento che farà di me una persona finalmente felice.

Le scrivo una lettera ogni giorno ed il mio amore cresce con loro. Non vedo l’ora che possa leggerle. Il parco non mi fa più paura, il tempo, il sole e la luna contornata di stelle mi fanno compagnia durante le mie passeggiate, come in questo momento.

Ho scoperto un piccolo sentiero nel parco. Penso che nessun altro lo conosca e mi ci avventuro sempre con passione, come in questa notte di luna piena che rende i miei passi sicuri. Mi sbaglio, sento delle voci più avanti.

Senza far rumore mi avvicino a quelle persone nascoste, spinto dalla curiosità. Sono un uomo ed una donna, ne distinguo le voci: sono quelle del mio psichiatra e della madre di mio figlio! Mi fermo e smetto quasi di respirare, sento i loro discorsi, la loro schifosissima trama per accaparrarsi il mio denaro, per dare un padre ad un sicuro bastardo, alla repulsione che provava nel fare l’amore con me.

Corro via da lì come un pazzo. Mi fermo alla fontana e ci vomito dentro per poi ricominciare a correre, fermandomi solo di fronte alla porta della mia stanza.

Mi sento disperato, inutile e meschino, ma a pensarci bene non è vero. Io che ho sempre cercato di usare le persone sono caduto nella più vecchia trappola del mondo.

No, non è stata un’offesa quella che ho ricevuto.

Riesco a vedere nuovamente ed il quadro che ho davanti è nitido, ho solo ricevuto vantaggi da questa situazione. Sono andato a letto con una bella donna, ho conquistato la libertà in questo posto schifoso e cosa ancora più importante tra una settimana sarò libero.

Apro la porta e mi sdraio sul letto. Sento fluire il sangue nel mio corpo, sento che tutto ciò che pensavo è definitivamente perduto. Sono stato un romantico coglione per tre settimane, un ciondolo senza volontà nelle loro mani, ma hanno commesso un grave errore: mi hanno detto la verità!

Avrei vissuto da ciondolo ancora per una settimana ed avrei recitato alla perfezione la mia parte, sia con il mio "amore" sia con lo psichiatra.

Poi mi sarei liberato dalla schiavitù in cui ero piombato, percorrendo all’indietro i miei passi per ritrovare ciò che mi aveva reso felice, vivendo nuovamente i miei incubi-reali.

No, loro non l’avrebbero passata liscia per ciò che mi stavano facendo ed il prezzo che stavano pagando, rischiando di dimettere una persona come me, era troppo basso per soddisfare la mia sete.

Bruciai le lettere nel water e con soddisfazione tirai lo sciacquone e raggiunto il letto, mi addormentai immediatamente.

CAPITOLO QUARTO

Sento odore di caffè fumante; ma sto solo sognando.

Non che ne sia totalmente certo, ma l’immagine che riesco a distinguere tenendo gli occhi chiusi me lo fa presumere. Sento la mia natura perversa correre lungo il corpo e la vista espandersi seguendo la fisionomia di quel corpo sinuoso. Lascio cadere la tazza del caffè e comincio a fare l’amore con la bella infermiera.

Sono riportato nel mondo reale da un infermiere che mi comunica che sono in ritardo e che il dottore mi sta aspettando. Lo maledico mentalmente, ogni qualvolta un sogno accarezza i miei pensieri sono riportato nel marciume della vita. Mi faccio una doccia, mi vesto e svogliatamente mi dirigo verso il suo ufficio.

Dopo essermi seduto alla sua bella scrivania, la mia indifferenza crolla all’improvviso, bastano due parole ed il mondo intorno riacquista tutte le sue tonalità di colori: "domani esci!"

Manifesto la mia felicità senza controllarmi, per lui in fin dei conti questa è una reazione normale. Ma non conosce i mille piani che ho già elaborato e che, ad ogni momento, assumono nuove sfumature per rendere la mia vendetta qualcosa che li segnerà per sempre.

Gli stringo la mano cordialmente e lo ringrazio per l’aiuto che mi ha dato in questi lunghi mesi. Leggo nei suoi occhi il piano che conosco e che dovrebbe condurmi, a giochi fatti, in un posto molto simile a questo con un biglietto di sola andata, ma rido felice.

Uscendo da quella stanza, mi avventuro per i corridoi alla ricerca della futura compagna della mia vita. Domando dove posso trovarla ad un infermiere che, trattenendo a stento una risata, mi risponde.

L’ho vista, sta preparando un carrello di medicinali e silenziosamente le sono alle spalle. Le accarezzo i capelli, ma il mio gesto le mette paura e rompe una fiala.

Le chiedo scusa e vado a rinchiudermi nella mia stanza.

Non so quanto tempo è trascorso fino al momento in cui, dopo aver bussato alla porta, lei entra nella stanza.

Si siede sul letto, mi prende una mano tra le sue e si scusa per la reazione che ha avuto prima, ma le avevo messo paura. Mi spiega che le è già capitato che qualche paziente cercasse di toccarla e la cosa la terrorizza; ma con me è diverso.

Si era innamorata dei miei occhi nell’attimo in cui li aveva incrociati.

Aveva seguito con interesse i miei miglioramenti e le ricadute fino alla notte in cui era entrata nella mia stanza per spiare il mio sonno. Era rimasta lì tutta la notte, ad osservarmi senza turbare i miei sogni, senza sfiorarmi con un dito, estasiata da tutto ciò che i lineamenti del mio volto manifestavano. La sera dopo però non aveva resistito e dopo aver aumentato la mia dose di tranquillanti, si era avventurata nella conoscenza del mio corpo, non potendone più fare a meno. Tutto questo durò parecchie settimane e per lei era diventata come una droga, una situazione da cui non riusciva più a liberarsi se non fosse stato per il fatto che era stata scoperta e che era stata spostata al turno del mattino; ma era incinta di mio figlio.

Ero affascinato dalla sua storia, non riuscivo a seguire con precisione tutte le sue fantasie ma stavo al loro gioco. Notavo nelle sue parole, classiche frasi del mio strizzacervelli, il discorso era stato scritto a due mani o forse lui era l’autore e lei la bella attrice.

La strinsi a me e la baciai, approfittando della posizione di forza che il regista mi aveva affidato. Poi la trascinai sotto le lenzuola.

Quando andò via il suo sguardo era soddisfatto. La piccola attrice stava diventando protagonista e regista di quel film. Lei avrebbe riferito sullo schifo che aveva provato in quelle ore, mentendo spudoratamente sui doveri che la parte le imponeva, ma la scintilla dell’astio e della gelosia era stata abilmente accesa. Trascorsi qualche minuto a trastullarmi nel letto, fino a quando decisi che era giunto il momento di preparare le poche cose che la mia ex-moglie mi aveva spedito.

Finalmente tutto era pronto per la felice giornata. Ero eccitato e quel pensiero che cresceva fino ad ossessionarmi, lo ricacciavo indietro con molta difficoltà. Con l’infermiera non eravamo rimasti d’accordo sul prossimo incontro, forse era stato un bene. Mi sembrava tutto così squallido e desideravo uscire da questo posto per iniziare a rendere il gioco più interessante. Cercai di dormire, ma inutilmente ed il risveglio della natura, alle prime luci del giorno, mi trovò intento a fissare il soffitto.

CAPITOLO QUINTO

Dopo mesi di chiusura mentale e fisica camminavo tranquillamente come un uomo libero. Il viale alberato che lasciava trasparire i riflessi del sole, sembrava uscire da un bel film di cartoni animati, facendomi sentire come un principe con la sua bella sposa tra le braccia ed il titolo "the end" sopra di loro. Il certificato che mi avevano rilasciato descriveva tutto il decorso del mio esaurimento nervoso e mi avrebbe permesso, con facilità, di tornare in possesso del mio patrimonio. Pensai ai miei figli, degli estranei ai miei occhi. Non ero mai riuscito a farmi accettare, a poter giocare o ad insegnare loro qualcosa; erano il perfetto ritratto di mia moglie. Mi voltai un attimo indietro e l’allucinazione che ebbi mi sconvolse. Ero sempre in un mondo di cartoni, ma il bel viale era diventato oscuro come una caverna e le fronde si erano trasformate nello sbattere di milioni di ali di pipistrelli che, volteggiandomi intorno, trasportavano il mio corpo verso la mia vecchia dimora, tetra e viva, con le finestre aperte e le stanze illuminate, attraversate da sagome deformi.

Aprii il cancello e corsi via a perdifiato, superando il taxi che avevo chiamato per farmi ricondurre in città. Solo alla fine della discesa mi fermai a prendere fiato e volgendo lo sguardo verso quel posto, notai le differenze di colori e di tonalità che lo rendevano così diverso.

Il taxi mi raggiunse ed io, dopo esservi salito, dissi all’autista dove andare e mi sdraiai per riposare. Il primo impatto con la libertà non era stato dei migliori, anzi mi preoccupava la mia salute mentale colpita da quelle allucinazioni.

Ma non era finita. Non capivo dove quell’uomo mi stesse portando, non riconoscevo più i posti che dovevano essermi familiari, così come i vestiti della gente, i locali ed i negozi. Mi sembrava di vivere un sogno ad occhi aperti, anzi un incubo in cui ero precipitato attraversando prima il viale e poi le strade sconosciute di questa nuova città. I volti delle persone che riuscivo ad intravedere, mentre eravamo fermi ai semafori, mi inquietavano, i loro occhi profondi e le vistose occhiaie li facevano sembrare degli zombi mal truccati, come in un film dell’orrore di basso costo. Ma la partenza dell’auto rendeva nuovamente chiaro il paesaggio, i volti bianchi, i volti neri e le mille sfumature di colore che si possono incrociare girando per New York.

Mi rilassai pensando che lo stress affrontato la notte, per combattere l’ansia di restare in quella pseudo-vita da malato mentale, mi stava ricadendo addosso e le allucinazioni ne erano il chiaro significato; volevo rinunciare ad una vita libera e piena di problemi per tornare in quel rifugio sicuro.

Ma ad ogni semaforo, la diversa colorazione della gente cambiava, per riassumere ad ogni partenza le normali tonalità. Vivendo con attimi di terrore il passaggio dal verde, al giallo ed infine al rosso che, quasi in una piccola esplosione, grondava, sputando fuori grumi di sangue. Il respiro a quel punto diventava affannoso e le strane persone cominciavano a notarmi, indicandomi, ridendo di me.

Questa pazza altalena in cui ero salito non accennava a fermarsi ed il pensiero che fossi uscito pazzo bussava alla porta del mio cervello, cercando di scardinarla per entrare.

Non capivo quello che mi circondava né riuscivo ad emettere qualche suono od a muovermi. Ero paralizzato dall’orrore che stavo vivendo.

Improvvisamente la macchina si fermò ed il tassista si voltò chiedendomi di essere pagato. Ero sudato e la visione del mondo era di nuovo normale. Lo pagai e scesi. Non saprei dire se tutto quello che vidi durante il tragitto fosse solo un sogno agitato, dovuto al sonno piombato sul mio corpo dopo una notte insonne, o se la follia per quei lunghi minuti aveva avuto il sopravvento.

Finalmente a casa pensai, cercando di scrollarmi di dosso tutte le paure, ma non era così. Ero davanti al palazzo dove si trovava lo studio del mio avvocato. In fin dei conti era stato più importante il pensiero dei soldi che quello di riposarmi ed il lapsus verbale che avevo espresso comunicando la meta al mio ignaro accompagnatore, era stato abbastanza chiaro su cosa in realtà m’interessasse in quel momento.

Presi l’ascensore e raggiunsi lo studio. Mi feci annunciare e fui accolto da quel vecchio amico che, felice di stringermi tra le sue braccia, cominciò a coprirmi di complimenti sul mio ottimo stato fisico ed a pormi mille domande sul mio soggiorno in clinica e su come ne fossi uscito fuori così bene.

Odiavo quello spregevole individuo che si era arricchito a mie spese, sfruttando la mia causa di divorzio e gestendo a suo piacere i miei soldi.

Gli chiesi di illustrarmi le novità dei miei investimenti e la situazione reale del mio patrimonio. Ne sembrò turbato e quasi contrariato dalla mia richiesta, come se non avessi fiducia del suo operato. Lui non lo sapeva, ma era vero.

Controllai con attenzione tutto e nel frattempo lo incaricai di sbloccare i miei fondi perché ormai ero guarito. Eseguì i miei ordini in maniera perfetta e veloce. Lo pagavo per questo!

Erano trascorse un paio di ore dal mio arrivo e tutto era ritornato alla normalità. Salutai quell’uomo ed andai via, schivando il suo invito a cena.

La strada non era più angusta e i volti delle persone erano normali. L’essermi calato nei panni normali di una persona ricca, aveva scrollato le paure dal mio corpo, ma non ero contento della corazza che avevo indossato. Presi la metropolitana ed un autobus per tornare a casa ed il mischiarmi tra la gente, indaffarata nei loro problemi quotidiani, mi fece star bene. Pensavo di odiare quel modo di vivere frenetico ed inutile, ma nascondeva tante sfumature che i miei occhi, ormai non più ciechi, riuscivano finalmente ad intravedere.

Una madre ed un bambino che giocano con i colori che corrono veloci lungo le pareti delle gallerie, due gay che si baciano tranquilli, un teppista che scrive il suo nome sui muri e quel sassofonista che, dopo aver scelto il posto che gli permette di propagare il suo suono il più lontano possibile nei cunicoli in cui ci aggiriamo come formiche, suona il suo blues con tristezza, riempiendo la poca aria respirabile di malinconia, attirandoti.

Avevo bisogno di tutto questo, di vedere ed ascoltare, di tornare ad essere curioso dopo quel brutto periodo della mia vita che aveva condotto la mia mente ad intossicarsi per poi cercare di guarire.

Arrivai a casa esausto e dopo aver fatto una doccia calda aprii una bottiglia di vino rosso, brindando alla mia vita ed a tutto quello che sarebbe accaduto. Poi mi infilai tra le lenzuola soffici per cercare ristoro alla fine di una giornata intensa.

CAPITOLO SESTO

Lo squillo del telefono mi strappò dal sonno agitato che per tutta la notte mi aveva perseguitato. Mi aggrappai alla cornetta come ad un salvagente e rispondendo mi accorsi che ero totalmente bagnato di sudore. Appena sveglio mi è sempre riuscito difficile ambientarmi alla realtà che mi piomba addosso, ma la voce dell’infermiera mi rese lucido.

Sentivo che era impacciata, che le sue parole cercavano di farmi penetrare in una situazione difficile, nel vivere un rapporto che esisteva solo sessualmente. Ma era affascinante, mi eccitava il pensiero che lei avrebbe vissuto nella mia grande casa ormai vuota.

Sarebbe arrivata nelle prime ore del pomeriggio, dopo aver finito il suo turno in clinica ed essere passata da casa per fare una valigia. Ci salutammo e riagganciai.

Guardandomi intorno vidi quella stanza piena di polvere, quasi lugubre ed il tanfo di chiuso che riempiva le mie narici, mi fece vomitare.

Non avevo molto tempo prima del suo arrivo, perciò feci una doccia per lavare la sporcizia della notte e telefonai all’impresa che da sempre aveva curato la pulizia e la manutenzione.

Riuscii a farli arrivare quasi subito, non potevano perdermi come cliente. Dissi al responsabile che se la signorina Dumey fosse arrivata prima del mio ritorno, l’avrebbe accompagnata nella camera da letto, che doveva essere pulita prima delle altre e dopo essermi vestito scesi in garage, mentre il rumore degli aspirapolvere stava innescando un feroce dolore nella mia testa.

Con sorpresa vidi che era vuoto, anzi quasi; era rimasta solo la piccola Mini Minor, ricordo dei primi mesi in questa città dopo il mio arrivo.

Avevo dimenticato che per ragioni fiscali le auto erano intestate a dei prestanome di mia moglie e del mio avvocato e la loro proprietà era rispettata dalla legge. Dai registri avevo capito che dove avevano potuto succhiare soldi l’avevano fatto, legalmente in modo che la mia pur minima azione legale nei loro confronti non avrebbe dato alcun risultato.

Vi salii sopra e nell’accenderla al primo tentativo ringraziai il meccanico che da sempre si era curato di lei, non marginalmente per l’inferiorità nei confronti delle altre, ma con rispetto verso la prima, che aveva accompagnato i miei sogni puerili tra quel traffico caotico e le insidie notturne.

L’appuntamento che avevo dato a me stesso in clinica doveva essere rispettato, non che avessi parlato con qualcuno, ma sapevo che la persona di cui avevo bisogno non osava uscire mai dal suo appartamento, non per paura verso il mondo esterno, ma perché il mondo era quello che le ruotava intorno. Avevo conosciuto quella donna tramite un’amica o meglio, una prostituta che aveva diviso i miei sentimenti appropriandosi della parte migliore. Il primo rapporto era stato diverso, con i suoi giochi ed i suoi occhi dolci mi aveva incantato e la storia che ci legò a doppio filo durò quasi un anno. Ero riuscito a levarla dalla strada, affittandole un appartamento non sontuoso da bella mantenuta, ma pulito ed in un quartiere tranquillo, dove trascorrevamo il nostro tempo a discutere, a fare l’amore od a giocare come bambini.

Non avevo notato se tra i vari conti che il mio avvocato pagava, risultasse ancora l’affitto di quell’appartamento e ciò mi rese triste. La nostra storia così dolce era finita squallidamente, con lei incinta di un figlio che desideravamo, ma che non avrebbe mai potuto vivere insieme al padre.

Non avrebbe mai accettato questo compromesso né avrebbe cresciuto un figlio vincolando la propria esistenza quasi nomade per i continui viaggi e per gli uomini della sua vita; non lo tenne ed io conobbi "madame". Praticava gli aborti in un angusto stabile il cui accesso era chiaro ed al tempo stesso invisibile. Chiunque nella zona era a conoscenza della sua attività, ma salendo per le strette scale, a nessuna di quelle porte socchiuse si sarebbe affacciata per rispondere.

La prima volta che entrai in quel portone mi precipitai su per le scale da solo, mentre lei, con aria paziente, rimase dietro l’ingresso chiuso aspettando la mia discesa. Non riuscivo a capire perché aspettasse laggiù e ricordo ancora la luce che illuminò il mio cuore, il suo eventuale ripensamento che avrebbe salvato nostro figlio ed il nostro rapporto che si stava sgretolando. Ma erano illusioni e la speranza rimase tale. Con la mano spinse il rivestimento di plastica della parete sinistra dell’androne che, roteando senza emettere il minimo rumore, si aprì. Lei accese la luce ed entrando, vidi l’altra metà delle scale che conducevano all’ultimo piano.

Ero davanti a quel portone per la seconda volta e l’essere arrivato a destinazione, mi strappò da quei tristi ricordi che mi avevano provocato una gran sete. Entrai in un bar ed ordinai un gin. Era stato difficile accettare la fine di quella storia, mi ero affidato alle cure dell’alcool per dimenticare il dolore che avevo provato, ma era stato inutile affogarlo, perché era sempre nitido nei miei ricordi. Decisi che era tardi e che non potevo più trastullarmi tra i pensieri nostalgici e gli errori compiuti, dovevo risolvere con cura questo nuovo problema, comportarmi normalmente, quasi da far schifo, per la mia petulante bontà nelle azioni e nelle reazioni; ma vi ero costretto. Non sapevo se "madame" lavorasse ancora o se fosse viva, ma era l’unica strada che potevo percorrere per non destare sospetti, perciò entrai nel portone e dopo averlo chiuso, aprii con facilità il passaggio che non emise alcuno scricchiolio, rassicurandomi sul fatto che lì si lavorava ancora.


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