Jimmy Malinconia

 

 

Jimmy Malincinia e Teresa Tristezza vagavano per le vie del quartiere del porto di Palermo. Jimmy aveva in tasca un pezzo di pane raffermo, sarebbe stato il suo pranzo, lo teneva nascosto perché non voleva dividerlo con Teresa.

Erano sette anni che si conoscevano. Si erano incontrati in una notte di pioggia ed avevano condiviso uno scatolone per ripararsi dal temporale. Dal quel giorno stavano spesso insieme, specie quando frugavano nell’immondizia per cercare qualcosa da mangiare. Teresa era brava a riconoscere le cose ancora commestibili e più di una volta aveva avuto cura di lui. Quando Jimmy era stato malato gli aveva cucinato sorrisi e tisane di cuore perché essa lo amava moltissimo. Nonostante ciò non le era mai stato riconoscente poiché per lui vivere o morire non faceva alcuna differenza.

Jimmy in passato era stato un uomo d’affari: un commerciante di sogni. Acquistava e vendeva emozioni, costruiva bellissime foreste psicologiche; ma non era mai riuscito a fabbricare la sua di foresta. Allora provò ad abitare in quella degli altri, come ospite. Ma tutti noi lo sappiamo, non si può vivere a lungo nella foresta degli altri. Non riconosci le foglie degli alberi e l’odore della terra bagnata non ti dà nessuna gioia ed il cibo nessun gusto né il letto riposo. Per vivere così cominciò a bere benzina ed a chiudersi dentro se stesso. Nei sogni perdeva i denti ed i capelli. Poche volte era contento e quelle rare volte che lo era coincideva con le giornate di sole. Un tarlo mostruoso ed indescrivibile gli rodeva dentro rubandogli l’anima e la contentezza, gli faceva apparire tutto futile ed assurdo. Così perse la propria famiglia, i soldi, una posizione invidiabile in società, gli amici. Gli rimase solo un cappotto di caschimere  ormai logoro e con le toppe. Jimmy aveva quasi cinquant’anni e da dieci viveva da barbone. Non chiedeva mai l’elemosina perché non voleva avere nessun contatto con l’umanità. Mangiava ciò che gli altri lasciavano ed a volte rubava, ma non era molto bravo a farlo ed era terrorizzato dall’idea d’essere arrestato, poiché in carcere avrebbe dovuto comunicare e convivere.

Nei primi tre anni da mendicante non parlo mai. A volte, però, nelle giornate di sole lo si vedeva correre forte per le vie di Palermo con un sorriso disegnato sul volto: fermarsi ed urlare. Correva fino al porto, poi lì di fronte al mare si sedeva e rideva; rideva per ore. La gente vedendolo aveva paura di lui.

L’unico contatto umano che riusciva a permettersi, a parte Teresa Tristezza, era Pancia di Legno, un ex avvocato che come lui aveva scelto l’accattonaggio perché stanco di tribunali, bugie, salamalecchi, minacce velate ed incontri sociali insignificanti; torture continue che stavano massacrando il bambino che era in lui.

Pancia di Legno fu, qualche anno prima, lo scandalo di Palermo. Tutta la città non fece che parlarne per mesi.

Si racconta che egli fosse stato uno dei principi del foro. La sua bravura nel difendere i propri clienti era tale che, malgrado se, dovette fare una selezione della gente che si rivolgeva a lui. Ma ahimè, su consiglio della moglie, la scelta fu fatta nel modo sbagliato preferendo i clienti con maggiori più danarosi. Ma tutti noi lo sappiamo: quattrini ed onestà non vanno molto d’accordo. Quindi si rivolsero a lui persone facoltose ma non troppo perbene. Nonostante, egli riuscì ogni volta a vincere le cause che patrocinava e grazie alla sua arte divenne ricchissimo. Tutti lo rispettavano e lo temevano. I suoi clienti erano marpioni della peggiore specie, ma lui li difendeva lo stesso poiché il denaro che guadagnava non bastava mai alla sua famiglia. Ogni giorno nasceva una nuova esigenza: la villa al mare, un’auto nuova, la pelliccia, la cameriera, rinnovare il guardaroba, il palco all’opera. Più lui guadagnava più queste aumentavano. Pancia di Legno era nei guai, nei guai fino al collo. Un bel giorno successe l’incredibile. Stava difendendo un mafioso, tristemente famoso per la sua sete di sangue, un terribile prevaricatore, un essere capace di qualsiasi cosa pur di mantenere il potere. Pancia di Legno, dato l’onorario che “Mafia”  era disposto a pagare, tirò fuori dal suo cilindro tutte le sue arti oratorie. Fece serpeggiare il dubbio, minacciò velatamente, liberò la colomba dell’innocenza parlando della sua infanzia, delle sue opere di beneficenza, dei suoi bambini, di Dio, della patria e dell’amata Sicilia dove purtroppo un uomo retto e di successo va incontro alle maldicenze e alle cattiverie altrui. Fece venire le lacrime agli occhi alla corte ed a tutti i presenti. Il pubblico ministero si mangiava le unghie.

Pancia di Legno era il più grande istrione e lestofante del foro palermitano. Alla fine della sua arringa, un silenzio religioso riempì l’aula: aveva vinto.

A quel punto scattò in lui una scintilla, una scarica elettrica che gli fece prendere un pacchetto di sigarette dalla tasca del suo assistente: lui che non fumava da anni, tirarne fuori una ed accenderla. Fece due lunghe tirate, tolse la toga e si strappò il parrucchino dalla testa, si calò le brache e fece una lunga e puzzolente cacata al centro dell’aula. I presenti rimasero impietriti, anche i carabinieri seguirono la scena incantati, imbambolati da un gesto così assurdo e naturale. “Pancia” prese alcuni fogli dal tavolo e si pulì il culo tirandosi su i calzoni. Quando tornò a casa trovò il suocero, un palazzinaro  che con i suoi scempi aveva nascosto il mare agli occhi. Stava prendendo il thè con la figlia, una donna così snob che di giorno non usciva dal suo quartiere per non incontrare la plebe da cui proveniva. Pancia  di legno, ma non era questo allora il suo nome, sputò alla moglie e picchiò a sangue il suocero. Avrebbe voluto fare il contrario, ma era un uomo all’antica e non avrebbe mai alzato una mano contro una donna. Appena ebbe finito con il suocero, scese in cantina e prese un martello, una pinza, della colla dei tubetti di colore a tempera e realizzò il suo sogno: divenne puparo. Costruì dei manichini che rappresentavano Orlando, Rinaldo e la dolce Angelica, e cominciò a vagare per la provincia e per la città con un teatrino ambulante.

I bambini lo ascoltavano raccontare stregati dalla sua voce baritonale e spesso gli sorridevano riempiendogli il cuore di gioia. Avrebbe voluto avere dei figli, ma ormai era troppo tardi; o forse troppo presto.

Col tempo anche Jimmy imparò a sorridere; e scoprì, sorprendendosi, d’amare Teresa dalla quale ebbe una figlia che chiamarono Consuelo. Jimmy ricominciò a costruire bellissime foreste psicologiche che vendeva solo quando era necessario, ad un prezzo onesto, e solo alle persone che gli erano simpatiche e che avrebbero apprezzato la sua opera. A volte Teresa grugniva, mormorando che avrebbe potuto ricavare molto di più dalla vendita. Ma Jimmy troncava l’argomento con un’occhiataccia. Queste erano le rare volte che c’erano dei dissapori tra i due.

Spesso si ritrovavano a cena nella trattoria di Mamma Carmela. Ed era così bello vederli mangiare, parlare, ridere e bere, prendersi in giro; che io stesso, raccontandovi la loro storia, provo invidia per loro.