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ENTE

(P. Cornelio Fabro) ENTE, ESSERE. Nel linguaggio ordinario possono essere sinonimi. Nella riflessione filosofica di solito sono presi come concreto e astratto: “ente” si dice di ciò che ha l'essere, di tutto ciò che è in qualsiasi modo. Per tutti i sistemi speculativi il concetto di essere è il più semplice ed iniziale: le controversie cominciano quando si tratta di precisare il suo modo di presentarsi alla coscienza secondo il quale ogni sistema prende posizione per attribuirgli quel contenuto e quella struttura che corrisponde al propria interpretazione della realtà.
Per le filosofie di tipo empirista il presentarsi dell'essere ed il suo contenuto coincide del tutto con il presentarsi con il contenuto dell'esperienza. Per le filosofie razionaliste, l'essere è dato senza residui ed espresso adeguatamente per concetti (razionalismo dogmatico) o risolto nell'attività del pensiero (idealismo). Nella prima forma di razionalismo, l'essere è conosciuto e determinato secondo un “a priori” reale (innatismo, ontologismo); nella seconda, secondo un “a priori” logico-funzionale.
Così il riferimento al problema dell'essere dà l'esatto orientamento per ogni sistema, che si riconosce e si qualifica, nell'indole e nel metodo, dall'“inizio” che prende circa il concetto dell'essere. Si veda, ad esempio, la posizione di Hegel verso l'essere, il puro essere, è identico al nulla, e quindi semplice momento dialettico (Encicl., § 86 sgg.), da una parte sforza il concetto scotista suareziano-wolfiano di essere (come genus generalissimum), dall'altra dà al principio della “sintesi a priori” la piena espansione che Kant teneva frenata dal noumeno, che era ancora l'essere reale opposto al pensiero.

Aristotele muove sempre dalla constatazione che essere si dice in molti modi. I principali sono: essere reale e essere logico (Met., V, 7, 1017 a 31): il primo costituisce la struttura degli enti materiali e spirituali; il secondo è l'essere “come verità e falsità” della copula del giudizio. L'essere reale a sua volta si divide in ente per se e per accidens (Met., V, 7, 1017 a 8): divisione con la quale si vuole distinguere nella predicazione ciò che appartiene ad un ente secondo la sua essenza da ciò che comunque si trova con essa associato. L'essere reale per se, considerato nelle sue determinazioni fondamentali, si divide secondo le “figure delle categorie” (Met., X, 10, 1051 a 35; Top., 1, 9, 103 b 27 sgg.); considerato nei modi fondamentali, in “atto e potenza”, il binomio che riassume in ultima istanza la concezione aristotelica circa la struttura dell'ente e la natura divenire (Met., IX e X).

L'ente in atto è sostanza o accidente, finito o infinito, cioè creatura o Creatore (s. Tommaso, De ente et essentia, specialmente II, 4‑5). In questa classificazione, com'è facile vedere, la molteplicità dei significati rivela un ordine di intrinseca subordinazione, che è doppia: anzitutto in quanto la coppia seguente approfondisce e smembra il contenuto dell'elemento principale della coppia precedente, e poi in quanto appunto in ogni coppia uno degli elementi domina sull'altro che si trova ad essere dipendente nel suo ordine, da quello (Met., IV, 2, 1003 a 33).

Di conseguenza, il concetto di ente, benché abbia il contenuto più povero e indeterminato (“qualcosa che è ”), lo significa tenendo compresenti i vari modi di cui si predica, e quindi è virtualmente il concetto più ricco. La comprensione di tale virtualità è compito della metafisica che ha per oggetto l'“essere in quanto essere ” (Met., IV, 1003 a 21), ed vari tipi di metafisica realistica indicano i vari metodi di svolgere la comprensione dell'essere. E' stata notata (W. D. Ross) l'assenza nella classificazione aristotelica dell'essere esistenziale (l'atto di essere esistenziale) che appare invece espressamente in s. Tommaso (In I Sent., dist. 33, I, 1 ad I). Nella filosofia pagana che non conosce la creazione, l'atto di essere coincide in concreto con l'essere sostanza, quantità, qualità, ecc.; nella filosofia cristiana l'atto di essere è l'effetto proprio di Dio, comunicato alle creature secondo una partecipazione (Quodlib., XII, q. 5 a. 5) misurata dal grado di perfezione dell'essenza di ciascuna. L'ente quindi si scinde (nel concetto) e si compone (nella realtà) di essenza e di atto di essere: la Causa prima, che è Atto puro, non ha un'essenza e quindi non è un “ente” ma è l'“Essere per sé sussistente”. Così la nozione di essere si applica anche all'accidente, alla potenza ed alla creatura: ma anzitutto e soprattutto l'essere compete alla sostanza, alla forma ed alla Divinità da cui quelli, rispettivamente, hanno di essere ciò che sono.

La nozione di essere quindi non si predica degli enti ad un modo, ma diversamente secondo i modi diversi nei quali essi realizzano l'atto di essere. In Aristotele il problema dell'analogia (v.; che diventa centrale in quella parte della teologia tradizionale che ha i suoi fulcri nella patristica, con lo Pseudo Dionigi, e, nella scolastica, con s. Tommaso) non è che accennato, avendo egli organizzato la sua metafisica al di qua di una teoria della creazione. Egli distingue al principio in Cat., I (I a 1‑12) fra i termini equivoci e univoci e nei Top. (1, 15, 106 a 9) fra i termini che si dicono in un solo senso e quelli che si dicono in più sensi. Nella Metafisica ricorre espressamente il termine, special­mente per indicare il modo di predicazione che non si riduce al genere e alla specie (V, 9, 1018 a 13); esso viene attribuito all'uno (V, 6, 1016 b 32 sgg.) e di conseguenza anche all'ente e agli altri suoi attributi, alle cause (VIII, 2, 1043 a 5; XII, 5, 1071 a 7), all'atto (IX, 1048 a, 37‑b 16). Per Aristotele la predicazione secondo analogia dice un certo rapporto positivo, a differenza della pura equivocità; ma si tratta di un rapporto di subordinazione che potrebbe dirsi “ascendente”, e non sul medesimo piano come dice la predicazione uni­voca. Aristotele lo indica come un rapporto di movimento di “una cosa verso un'altra”. Sembra che Aristotele non abbia conosciuto che l'analogia, come verrà poi detta dagli scolastici, di proporzione ovvero di attribuzione e di averla quasi confinata nell'àmbito pre­dicamentale. Dice infatti : “In ogni categoria dell'essere c'è un termine analogo, come la retta nella lunghezza, il piano nella superficie, il numero impari forse nel campo dei numeri, e il color bianco fra i diversi colori” (Met., XIV, 6, 1093 b 17‑21). Ciò che non era semplice rapporto di ordine qualsiasi, se non in quanto ne presupponeva uno più profondo di stretta dipendenza: ciò che Aristotele profondamente e per il primo aveva mostrato nel rapporto fra causa ed effetto e le diverse cause fra loro, fra sostanza e accidente, fra atto e potenza: quindi in tutto l'àmbito dell'ente finito. Il rapporto all'Ente infinito, Aristotele pare lo abbia concepito soltanto come analogia ascendente, in quanto tutti gli esseri, col tendere alla propria perfe­zione, aspirano a Dio come a termine d'amore (Met., XII, 7, 1072 b 3; e Dio è definito essere precisamente ciò; ibid., 1072 b 1).

I commentatori greci hanno perciò giustamente i prolungato questi accenni in un abbozzo di teoria. Por­firio che riassume una tradizione, distingue in questo genere di termini due serie o forme: a) quelli che si di­cono per rispetto ad una sola origine come “medicinale” di un libro, di una bevanda, di un ferro chirurgico) ... ; b) quelli di cose che tendono ad uno stesso fine come “sano”, ad es., del grano, del passeggiare, della lettura, ecc.
Analisi ancora elemen­tare ma che consacrava la solidarietà della predicazione analogica con la dipendenza causale.

Nel pensiero cristiano, i Padri che usarono dell'analogia (come lo Pseudo Dionigi) si soffermarono di preferenza sul momento metafisico della somiglianza con Dio. Fu la scolastica, impegnata con la logica, a interessarsi del problema della predicazione dell'essere. E siccome, con la creazione, le creature ottengono da Dio propria consistenza di essere, alcuni affermano che l'ente, essendo intrinseco alle creature, si dice in modo univoco di Dio e delle creature quasi come un genere supremo (Scoto, Arriaga), o almeno possiamo (prescindendo dalle differenze dei vari enti) avere dell'ente un concetto supremo unico comune a entrambi (Suárez).
Nel tomismo invece si è mantenuta fermamente l'analogia, come espressione di modi di essere irriducibili sotto l'unità di un concetto o tutt'al più in modo incompleto. Ma i tomisti stessi poi si dividono: alcuni, seguendo il Gaetano, danno come formula dell'analogia una dissomiglianza “simpliciter” e una somiglianza solo “secundum quid”; altri invece (Blanche, Balthasar), più fedeli alla tradizione e al pensiero dell'Angelico, usano la formula “secundurn rationem partim eamdem et partim diversam” (In XI Met. lect., 3. n. 2197; cfr. ibid., In IX, n. 1768; In VII, nn. 1334‑38; Sum. Theol., I, q. 13, a. 4; De Pot., q. 7, a. 7).

Questa formula è espressa nella sua ultima purezza metafisica nei termini seguenti : “Non dicitur esse similitudo inter Deum et creaturas in forma, secundum eandem rationem generis aut speciei sed secundum analogiam tantum; prout scil. Deus est ens per essentiam, et alia per participationem” (Sum. Theol., I, q. 4, a. 3, ad 3). Questo rapporto di partecipazione, costitutivo dell'analogia, si configura naturalmente secondo il grado ontologico dei termini in rapporto: sostanza e accidente, cause intrinseche e estrinseche, atto e potenza, ecc. Così l'ente sussiste nelle relazioni ch'esso fonda e che lo muovono poi al suo compimento.

BIBLIOGRAFIA [sintesi]: 

H. Bonitz, Index Arist., 220 b 38‑221 a 33; 

A. Roswadowski, Analysis conceptus esse sec. doctrinam Thomisticam, in Studia Anselmiana (Miscellanea J. Gredt), 7‑8 (Roma 1938), pp. 203-10; 

C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo s. Tommaso, Milano 1939, p. 190 seg. 

Per l'analogia ha esposto accuratamente la posizione del Gaetano: 

S. Alvarez, De diversitate et identitate analogiae iuxta Caietanum, Roma 1934: 

si collega a 

J. Ramirez, De analogia sec. doctrinam Aristotelico-thomisticam, Madrid 1922. 

Sulla nuova problematica dell'essere per riguardo alle istanze dei pensiero moderno, cfr. : 

G. Sohngen, Sein und Gegenstand, Munster in West. 1930; 

Jo. Lotz, Sein und Wert, Paderborn 1938. 

Tutti questi autori si rifanno alla nozione di partecipazione.

 

(Mons. Antonio Livi) (dal latino ens, participio presente del verbo esse = ciò che è in atto): indica l'essere individuale e concreto che costituisce la realtà, come insieme di enti diversi, raggruppabili per le proprietà che possono avere in comune; l'idea più universale che abbraccia ogni tipo di ente è la nozione astratta di essere, che san Tommaso chiama "esse comune rerum". Lo studio degli enti in quanto tali è ciò che costituisce la metafisica e propriamente l'ontologia.