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IL PROBLEMA DELLA CONOSCENZA

 

GENESI DEL PROCESSO CONOSCITIVO

 

La conoscenza in generale

Ogni conoscenza avviene con ciò che il conosciuto è in qualche modo nel conoscente, vale a dire con la sua somiglianza. Infatti, il soggetto conoscente in atto è lo stesso oggetto conosciuto in atto (1).

(De anima, lib. II, lert. 12)

C'è una doppia azione : una che resta nell'agente, come il vedere e il conoscere; l'altra che passa nella realtà esterna, come lo scaldare e il segare. L'una e l'altra si compiono in virtù di una data forma. Ora,  la forma da cui viene l'azione, come il calore di ciò che riscalda è somiglianza per ciò che è scaldato, così la forma da cui proviene l'azione che resta nel soggetto agente è somiglianza per il suo oggetto. Onde, somiglianza della cosa visibile è quella per cui la vista vede; e somiglianza della cosa compresa — che è la specie intelligibile — è forma per la quale l'intelletto conosce (2).

(Summa Theologica, pars I, q. 85, art. 2)

 

Origine extrasoggettiva della conoscenza sensibile

Empedocle e quanti sostennero che il simile si conosce col simile, ammisero che il senso era in atto le stesse cose sensibili. Infatti, perché l'anima sensitiva potesse conoscere ogni realtà sensibile, doveva  in qualche modo esser composta di tutte le cose sensibili in quanto, secondo Empedocle, risultava di elementi di cose sensibili.

Donde scaturivano due conseguenze. La prima: che il senso s'identifica con le stesse cose sensibili in atto, giacché è composto di queste. E siccome le realtà sensibili in atto si possono sentire, dunque gli  stessi sensi potevano percepire sé stessi. — La seconda: che, dal momento che il senso può sentire se sono presenti le cose sensibili, dato che queste sono in alto nel senso che se ne compone, ne segue che il senso può sentire senza le realtà sensibili esteriori. Ma l'una e l'altra cosa sono false. L'anima sensitiva non è, infatti, sensibile in atto, ma solo in potenza. E per questo i sensi non sentono senza l'azione delle realtà sensibili esteriori, come i] combustibile che è acceso solo in potenza, non si accendo da sé stesso senza l'innescamento dall'esterno. Che se fosse acceso in atto, brucerebbe sé stesso, e non avrebbe bisogno, per accendersi, del fuoco esterno.

Dal sin. qui detto, Aristotele dimostra che la tesi degli antichi : cioè che il simile si senta col simile, non può esser vera. Dice, dunque,  che tutto ciò che è in potenza, patisce ed è mosso da un agente attivo, attualmente esistente, il quale, mentre trae all'atto le qualità ricevute passivamente, le assimila a sé. Cosi, sotto un certo aspetto, uno riceve passivamente l'azione da qualcosa di simile a sé; e sotto un altro aspetto, da qualcosa di dissimile... All'inizio del processo sensitivo, mentre è nella fase di trasmutazione e passività, uno è dissimile; ma al termine del processo, a trasmutazione avvenuta, è simile.

Così, dunque, anche il senso, quando è già attuato dalla realtà sensibile, è simile ad essa; ma prima non le è simile. Il che non avendo gli antichi distinto, caddero in errore.

(De anima, lib. II, lect. 10, passim)

 

Le due fonti della scienza

Alcuni sostennero che la nostra scienza deriva tutta da una causa  esterna separata dalla materia, che si divide poi in due. Ci furono di quelli, come i platonici, i quali ammisero che le forme delle cose sensibili sono separate dalla materia, e in tal modo sono intelligibili in atto... Ma questa posizione è sufficientemente confutata dal filosofo (3), il quale dimostra che bisogna porre le forme delle cose sensibili in nient'altro che nella materia sensibile. Altri ritennero che l'origine della nostra scienza era nelle sostanze separate, che noi chiamiamo angeli. Così Avicenna (4), il quale volle che, come le forme sensibili non vengono immesse nella materia sensibile se non per l'influenza dell'intelligenza operante, così le forme intelligibili non vengono impresse nelle menti umane se non da una sostanza separata... L'anima tuttavia ha bisogno dei sensi come di stimoli e di fattori dispositivi a ricevere la scienza- Questa opinione non sembra ragionevole, perché secondo essa non vi sarebbe un rapporto di dipendenza necessaria fra la conoscenza della mente umana e delle facoltà sensitive...  E poi, sopprime i princìpi prossimi delle cose, posto che tutte le creature inferiori debbano ricevere immediatamente da una sostanza separata sia le forme intelligibili che quelle sensibili.

Un'altra tesi è quella di coloro che ammisero l'origine della nostra scienza totalmente da una causa interiore. La quale tesi si divide anch'essa in due partì.

Alcuni ritennero che le anime umane avessero in sé stesse la nozione di tutte le cose : nozione ottenebrata in seguito alla loro unione col corpo. Donde asserivano che noi abbiamo bisogno di studio e di sensi per eliminare gli impedimenti della scienza, poiché imparare non è altro che ricordare. Questa tesi non pare ragionevole, perché, se l'unione dell'anima col corpo è naturale, non può darsi che per essa venga totalmente impedita la scienza naturale; e d'altronde, se fosse vera, non saremmo del tutto ignoranti su ciò per cui non abbiamo il senso rispettivo (5).

  Altri dissero che l'anima è a sé stessa principio di scienza. Infatti, non riceve la scienza dalle realtà sensibili, come se, tramite l'azione dei sensibili (6), provenissero all'anima in certo modo le somiglianze delle cose; ma l'anima stessa, alla presenza delle realtà sensibili, se ne forma interiormente le immagini. Conseguentemente, fra tutte le esposte opinioni, la più ragionevole sembra quella del filosofo, il quale fa derivare la scienza del nostro pensiero in parte dall'interno e in parte dall'esterno... Quando, infatti, il nostro pensiero è messo di fronte alle cose sensibili esteriori, si trova nel loro riguardo in una duplice posizione. Anzitutto come un atto rispetto ad una potenza, in quanto le cose e&terne all'anima sono intelligibili in potenza, mentre il pensiero è intelligibile in atto, e perciò si pone in esso l'intelletto agente, che renda le cose intelligibili in atto. — In altra maniera, il pensiero sta alle cose come la potenza all'atto, in quanto le forme determinate delle cose, che fuori dell'anima sono in atto, esistono soltanto in potenza nella nostra mente. Per questo si ammette nell'anima l'intelletto possibile, il cui compito è di ricevere le forme astratte dai sensibili, rese intelligibili in atto dal lume dell'intelletto agente (7). Il qual lume dell'intelletto agente nell'anima razionale procede, come da prima origine, dalle sostanze separate e sopratutto da Dio (8).

In questo senso è vero che la nostra mente riceve dai sensibili la scienza; tuttavia, però, è la stessa anima che forma in sé le similitudini delle cose, in quanto, col lume dell'intelletto agente, le forme astratte dai sensibili si rendono intelligibili in atto perché possano esser ricevute nell'intelletto possibile. E cosi anche nel lume dell'intelletto agente è per noi in certo senso originariamente infusa ogni scienza mediante i concetti universali, che si conoscono subito col lume dell'intelletto agente, e per i quali, poi, come a mezzo di princìpi universali, giudichiamo di altri princìpi e in essi li preconosciamo (9).

I primi princìpi, la cui nozione ci è innata, sono certe similitudini della verità increata. Onde, giudicando a mezzo di tali similitudini altre verità, si dice che giudichiamo delle cose mediante immutabili ragioni o a mezzo dell'increata verità.

(De veritate, q. X, art. 6, passim)

Nel processo conoscitivo intellettuale, l'uomo è più attivo che passivo

  Aristotele chiarisce se, quando alcuno passa dalla potenza prima (10) all'atto della scienza, egli si alteri e subisca passivamente un'azione. E afferma che, quando uno che prima possedeva la scienza  solo in potenza, viene istruito e la riceve da un altro che la possiede in atto e dal maestro, o non si deve dire che semplicemente patisca e si alteri, o bisogna ammettere che vi sono due modi di alterazione, di cui uno consiste... nella privazione dei preesistenti modi contrari, e l'altro... nella recezione di alcune disposizioni abituali e forme che costituiscono una perfezione della natura, senza che per esse nulla vada perduto di ciò che prima esisteva. Ora, chi impara una scienza non si altera nel primo, ma nel secondo modo. Bisogna ammettere che sempre, quando qualcuno che prima conosceva in potenza passa poi di fatto al possesso della scienza, do avvenga per opera di colui che ha la scienza in atto. Si deve però riflettere che qualcosa, alle volte, viene portato dalla potenza all'atto solo da un principio estrinseco, come l'aria che viene illuminata da qualcosa di splendente in atto, ma a volte anche da un principio intrinseco, oltre che estrinseco : a somiglianza di un uomo che viene guarito a un tempo e dalla natura e dal medico. Nell'uno e nell'altro caso, però, sempre da un principio curativo attuale. Ed è chiaro che nella mente del curante c'è la ragione attiva della sanità; ma anche in chi viene sanato da un principio naturale bisogna che ci sia qualche parte sana, il cuore cioè, per la cui virtù si guariscono le altre parti (11). Quando però il medico guarisce, lo fa al modo con cui lo farebbe la natura: col calore, col freddo e con altre trasmutazioni. Sicché il medico non fa nient'altro se non aiutare la natura ad espellere il morbo, del cui aiuto la natura non avrebbe bisogno se fosse forte. Lo stesso avviene nell'acquisizione della scienza. L'uomo infatti si procura il sapere e da un principio intrinseco mentre lo trova da sé, e da un principio estrinseco mentre l'apprende da altri. In entrambi i casi però, passa dalla potenza all'atto per opera di ciò che già esiste in atto. L'uomo, infatti, col lume dell'intelletto agente apprende subito in atto i princìpi naturalmente noti; e mentre da essi svolge le conclusioni con ciò che sa attualmente, arriva all'effettiva conoscenza di ciò che sapeva in potenza. Nello stesso modo, chi insegna dal di fuori, aiuta ad apprendere: cioè, da princìpi già noti al discente, guida questi con la dimostrazione ad intendere conclusioni prima sconosciute. Il quale aiuto esterno non sarebbe certamente necessario all'uomo, se egli fosse d'intelligenza così perspicace da poter trarre da sé medesimo le conclusioni da princìpi più noti. Perspicacia che gli uomini —purtroppo — possiedono chi più e chi meno.

(De anima, lìb. II, lect. 11, ultimo tratto)

 

CONOSCENZA SENSIBILE E CONOSCENZA INTELLETTIVA

 

Sentire e comprendere sono due cose diverse

Per due ragioni Aristotele afferma che il sentire e il comprendere non sono la stessa cosa. La prima ragione è che il comprendere avviene rettamente e non rettamente. La comprensione retta si ha nella scienza che tratta delle verità speculative e necessarie... La comprensione non retta si ha... per la falsa scienza nel caso dei contrari (della verità)... Ma il sentire non avviene che rettamente, perché il senso è sempre vero circa i propri oggetti sensibili. Dunque, il sentire e l'intendere non sono Io stessa cosa (12). E poiché qualcuno potrebbe obiettare che il rette intendere sia lo stesso che il retto sentire, perciò Aristotele apporta un'altra ragione per escludere questa ipotesi: ed è che un tale sentire « è in tutti gli animali », il comprendere invece, no; ma appartiene soltanto agli ammali forniti di ragione, cioè agli uomini che arrivano ad apprendere la verità intelligibile mediante la ragione.

(De anima, lib. III, lect. 4)

 

Differenze fra la conoscenza sensitiva e la conoscenza intellettiva

La prima differenza fra il sentire in atto e il pensare..., deriva dalla differenza dei loro rispettivi oggetti, cioè dei sensibili e degli intelligibili (13), che si sentono e si pensano attualmente. I sensibili, infatti, che sono i principi attivi del processo sensitivo — cioè il visibile, l'udibile e simile — esistono fuori dell'anima. E la ragione è che dei sensi in atto, gli oggetti sono i singolari esistenti fuori dell'anima; la scienza invece verte circa gli oggetti universali, che in qualche modo sono dentro l'anima (14). Donde appare che, chi è già in possesso della scienza, non occorre che cerchi fuori i suoi oggetti, ma li ha già dentro di sé, e può riflettervi su quand'egli vuole, a meno di non esservi impedito per accidens (15). Nessuno invece può sentire quand'egli vuole, perché non ha in sé gli oggetti sensibili, ma bisogna che gli si presentino esteriormente. E come avviene dell'operazione dei sensi, così accade delle scienze dei sensibili: perché anche i sensibili sono del numero delle realtà singolari e che sono fuori dell'anima. Ragione per cui l'uomo non può studiare scientificamente tutti i sensibili che vuole, ma solo quelli che percepisce col senso. Si consideri ora perché il senso ha per oggetto cose singolari, mentre la scienza cose universali, e in che modo gli universali si trovino nell'anima. Quanto al primo punto, è da sapere che il senso è una facoltà che ha sede nell'organo corporale, l'intelligenza è invece una facoltà immateriale, che non è atto di alcun organo corporale. Ogni cosa poi è ricevuta da un'altra secondo la capacità di questa; e ogni conoscenza avviene per ciò che il conosciuto è in qualche modo nel conoscente, vale a dire con la sua somiglianza, giacché il conoscente in atto è lo stesso conosciuto in atto. Bisogna dunque che il senso riceva la somiglianza della cosa sentita corporalmente e materialmente; l'intelletto invece riceve la somiglianza dell'oggetto conosciuto intellettualmente, in modo incorporeo e immateriale. Ma l'individuazione della natura comune nelle cose corporee e materiali dipende dalla materia corporea contenuta sotto determinate dimensione, mentre al contrario l'universale (conosciuto dall'intelletto) si ricava per astrazione da questa materia e dalle condizioni materiali individuanti. Dunque, è chiaro che la somiglianza della cosa ricevuta nel senso rappresenta la cosa stessa in quanto è singolare; ricevuta invece nell'intelletto rappresenta la cosa secondo l'aspetto di una natura universale : e di qui dipende che il senso conosce le realtà singolari, l'intelletto invece quelle universali che formano l'oggetto della scienza.

Circa il secondo punto (.perché la scienza è degli universali), bisogna riflettere che l'universale può prendersi in due modi. In uno, può direi universale la stessa natura comune in quanto soggiace al   potere astrattivo universalizzante; in un altro modo, poi, in sé stesso. Come il colore bianco può intendersi in due maniere: o è la cosa che è tinta a bianco, o è lo stesso bianco che sta sotto la bianchezza (16). Ora, questa natura suscettibile di astrazione universalizzante — ad es. la natura di uomo — ha un doppio essere: un essere certamente materiale, col quale esiste nella materia della natura; e un essere immateriale, col quale esiste nell'intelletto. Di conseguenza, in quanto detta natura ha un'esistenza nella materia naturale, non può esser suscettibile di comprensione universale perché è individuata dalla materia. L'intelligenza universale, dunque, gli sopravviene in quanto è astratta dalla materia individuale. Ma non è possibile che venga astratta dalla materia individuale realmente, come ammisero i platonici. Non si da infatti un uomo naturale, e cioè reale, se non con queste carni e queste ossa qui, come prova il filosofo nel libro VII della Metafìsica. Resta allora che la natura umana, oltre i princìpi individuanti, non esiste che solo nell'intelletto. Ne tuttavia l'intelletto è falso mentre apprende la natura comune di là dai principi individuanti senza dei quali essa non può esistere nelle cose. Giacché l'intelletto non conosce questo: che cioè la natura comune esiste senza i princìpi individuanti, ma apprende la natura comune non apprendendo i princìpi individuanti. E questo non è falso. Sarebbe invece falsa la prima ipotesi: se cioè da un uomo bianco separassi in tal modo la bianchezza, da conoscere che egli non è bianco:  che allora tale conoscenza sarebbe errata. Ma se separassi la bianchezza dell'uomo, così da conoscer luomo senza nulla sapere della sua bianchezza, l'apprensione non sarebbe falsa. Non si esige, infatti, per la verità dell'apprensione che, per il fatto di apprender qualche cosa, essa apprenda pure tutto ciò che a questa cosa appartiene.

Così, dunque, l'intelletto senza falsità astrae il genere dalle specie, in quanto intende la natura del genere senza intenderne le differenze. E similmente astrae le specie dagl'individui, in quanto intende la natura della specie senza badare ai princìpi individuanti.

È chiaro allora che alla natura comune non può attribuirsi una considerazione universalizzante, se non quanto all'esistenza che assume nell'intelletto (17). Così solo, infatti, qualcosa di uno è predicabile dei molti, in quanto la si concepisce al di là dei principi con cui l'uno è diviso nei molti. Dunque, gli universali, in quanto universali, non esistono che nell'anima; ma le nature medesime, considerate universalmente dal pensiero, esistono in sé nelle cose. Ed è perciò che i nomi comuni significanti le nature stesse, si predicano degl'individui  e non stanno ad indicare la loro rappresentazione mentale. Socrate, infatti, è un uomo, ma non è la specie umana, per quanto l'uomo in generale sia specie (18).

(De anima, lib. II, lect. XII)

 

  I FATTORI DELLA CONOSCENZA

 

L'intelletto non può operare senza i fantasmi

 

Si potrebbe credere che l'intelletto non dipenda dal senso. Ciò sarebbe vero se gl'intelligibili del nostro intelletto fossero, nell'esistenza, separati dai sensibili, come affermano i platonici. (...) Ma nessuna cosa da noi conosciuta è fuori delle grandezze sensibili e come separata da esse nella propria esistenza, cosi come i sensibili sembrano fra loro separati (19). Dunque, è necessario che gl'intelligibili del nostro intelletto stiano nelle specie sensibili quanto alla loro esistenza: e tanto quelli che si dicono separati per astrazione — cioè gli enti matematici — che i naturali, come sono gli abiti e le affezioni sensibili. Per questa ragione, nessun uomo, senza il senso, può ne apprendere quasi ex novo una scienza, ne pensare quasi servendosi della scienza già acquisita (20). Ma bisogna, quando qualcuno specula in atto, che si formi contemporaneamente un fantasma. I fantasmi, infatti, sono le immagini delle cose sensibili, ma differiscono da queste perché sono svestiti della materia, giacché il senso può ricevere le specie senza la materia, e la fantasia non è che un movimento determinato attualmente dal senso (21). Di qui appare la falsità della tesi di Avicenna, che l'intelletto non ha bisogno del senso dopo che ha acquistato la scienza. Risulta infatti che, anche dopo l'acquisto dell'abito della scienza, perché si possa speculare, è necessario servirsi del fantasma. Per questo, una lesione organica impedisce l'uso della scienza già acquisita.

(De anima, lib. III, lect. 13)

 

Necessità delle « specie » nel processo conoscitivo

Aristotele afferma che è proprio del senso in generale che esso riceva le specie senza la materia, come la cera riceve l'impronta dell'anello senza ricevere il ferro o l'oro dell'anello. Ma ciò sembra comune ad ogni soggetto passivo. Ogni paziente, infatti, riceve qualcosa dall'agente in quanto agente. L'agente però agisce per la sua forma e non per la sua materia. Così si osserva anche sensibilmente. L'aria, ad es., riceve dall'azione del fuoco non la materia, ma l'azione del fuoco (22). Non sembra perciò che il fatto d'esser ricettivi di specie senza materia, sia proprio esclusivo del senso. Bisogna perciò dire che, sebbene il ricevere la forma dall'agente sia comune ad ogni soggetto passivo, tuttavia c'è una differenza nel modo di ricevere. Giacché la forma che l'agente imprime nel paziente, ha in questo a volte Io stesso modo di essere che nell'agente: e ciò avviene quando il paziente ha la medesima disposizione dell'agente alla Bua forma, poiché ciò che è ricevuto in un altro è ricevuto al modo del ricevente. Onde, se paziente ed agente vengono disposti allo stesso modo, in questo stesso modo nel quale si trovava nell'agente, è ricevuta

ancora la forma nel paziente. E allora non riceve la forma senza la materia. Sebbene, infatti, la materia numericamente una dell'agente non diventi materia del paziente, in qualche modo però diviene la stessa in quanto acquista una disposizione materiale simile a quella che era nell'agente. Così l'aria — e tutto quanto è soggetto passivo naturale — subisce l'azione del fuoco. Alle volte invece la forma è ricevuta nel paziente secondo un modo diverso di essere da quello dell'agente» perché la disposizione materiale a ricevere del soggetto passivo non è simile alla disposizione materiale che si trova nel soggetto attivo. E perciò la forma è ricevuta nel paziente senza la materia, in quanto il paziente è assimilato all'agente nella forma e non nella materia. E in questo modo il senso riceve la forma senza la materia, perché la forma ha un modo di essere nel senso, diverso da quello che ha nella cosa sensibile. In questa, infatti, ha un essere naturale, nel senso invece ha un essere intenzionale e spirituale. E calza al riguardo l'esempio del sigillo e della cera. Non è infatti la stessa la disposizione della cosa all'immagine di quella che era nel ferro e nell'oro. E perciò Aristotele soggiunge che la cera riceve l'impronta — cioè l'immagine, o figura aurea o bronzea — ma non in quanto è oro o bronzo. La cera è fatta simile al sigillo d'oro quanto all'immagine, ma non quanto alla disposizione dell'oro. E similmente, il senso riceve passivamente l'azione della realtà sensibile colorata o sapida, cioè il sapore o il suono, « ma non in quanto ciascuna di queste cose è quel che è», vale a dire: non subisce l'azione della pietra colorata in quanto pietra, ne del miele dolce in quanto miele, perché nel senso non si produce una disposizione simile alla forma che è in quei soggetti, ma se ne subisce Fazione in  quanto azione o di colore, o di sapore, o secondo la ragione o forma (di quegli agenti). Il senso infatti si fa simile al sensibile nella sua forma, ma non nella sua disposizione materiale.

(De anima, lib. III, lect. 24)

 

Necessita dell'intelletto agente

Secondo l'opinione di Platone, non c'è alcuna necessita, di ammettere un intelletto agente per rendere attualmente intelligibili le cose... Egli riteneva che le forme delle cose naturali esistessero in sé senza materia, e di conseguenza che fossero come tali intelligibili, giacché una cosa in tanto è intelligibile in atto, in quanto è immateriale (23). Simili forme egli chiamava specie o idee, dalla cui partecipazione — diceva — era formata anche la materia corporea, affinché gli individui fossero costituiti nei propri generi e nelle proprie specie; e dalla cui partecipazione erano formati anche i nostri intelletti al fine di aver la scienza dei generi e delle specie delle cose. Ma poiché Aristotele non ammise che le forme delle cose naturali esistessero senza materia, e le forme esistenti nella materia non sono intelligibili in atto: ne seguiva che le nature o forme delle cose sensibili che noi conosciamo, non erano intelligibili in atto. Ora, nulla passa dalla potenza all'atto se non per un essere in atto, come il senso diviene sensazione in atto per il sensibile. Bisognava dunque ammettere una certa virtù intellettuale capace di produrre gl'intelligibili in atto per via dell'astrazione delle specie dalle condizioni materiali. Ed ecco la necessità di ammettere un intelletto agente.

(Summa Theologica, p. I, q. 79, art. 3)

   

Necessità dell'intelletto m potenza o possibile

C'è un intelletto che, rispetto alla conoscenza dell'ente universale (24), è attuato interamente. E tale è l'intelletto divino, che forma l'essenza di Dio, in cui originariamente e virtualmente preesiste tutto l'essere come nella prima causa. E quindi l'intelletto divino non è in potenza, ma è atto puro. Nessun intelletto creato, però, può ritenersi attuato rispetto alla totalità dell'ente universale, perché, se così fosse, dovrebbe essere infinito. Onde ogni intelletto creato, per il fatto di esistere, non è l'atto di tutti gl'intelligibili, ma dice rapporto agli stessi intelligibili come la potenza all'atto. L'intelletto umano, poi, è in principio come una « tabula rasa in cui nulla è scritto », come dice il filosofo nel III libro dell'anima. E questo si vede chiaramente dal fatto che agl'inizi siamo intelligenti solo in potenza, in seguito poi lo diveniamo in atto.

(Surnma Theologica, p. I, q. 79, art. 2)

 

Oggetto proprio dell'intelletto è l'essenza della cosa contenuta nelle realtà sensibili

Oggetto proprio dell'intelletto è l'essenza della cosa, non separata però dalle realtà, come vollero i platonici, ma... esistente nelle realtà sensibili, sebbene l'intelletto apprenda le nature delle cose in modo diverso da quello con cui sono contenute nei sensi. Non le apprende infatti con le condizioni individuanti, che si aggiungono alle realtà sensibili. E ciò può accadere senza che l'intelletto s'inganni. Nulla infatti proibisce che di due cose reciprocamente congiunte, una possa intendersi senza dell'altra: come la vista apprende il colore senza per questo apprendere l'odore; per quanto, però, non senza la grandezza dimensiva che è il soggetto proprio del colore (25). Perciò l'intelletto può anche comprendere qualche forma senza i princìpi individuanti, non però senza la materia da cui dipende la causa di quella determinata forma : come non può conoscere il camuso senza conoscere il naso, bensì tuttavia il curvo senza il naso. E giacché i platonici non distinsero questo, ammisero che gli enti matematici e le essenze delle cose fossero separati nell'essere come lo sono nell'intelletto.

(De anima, lib. III, lect. 8)

Per conoscere i cinque universali o predicabili ammessi da Porfirio (26), è da sapere che, siccome il nostro intelletto è separato dalla materia..., perciò quello che oggettivamente e direttamente gli si rappresenta, deve essere spogliato dalla materia e dalle condizioni della materia che sono hic et nunc. E dico spogliato dalla materia: non semplicemente da ogni materia, ma dalla materia segnata (27), giacché le cose naturali sentendone con la materia... Per es., nella nostra fantasia c'è l'immagine o forma rappresentante quest'uomo... Tale forma, per la virtù dell'intelletto agente agisce sull'intelletto possibile, come i colori per la virtù della luce agiscono sulla vista. Allora si produce nell'intelletto possibile una certa forma che si chiama specie intelligibile o, secondo altri, atto dell'intendere o verbo (28): forma che rappresenta l'uomo, non però come è hic et nunc, ma astratto da queste condizioni. Siffatta realtà si chiama l'essere universale. Onde, nell'uomo cosi concepito, bisogna considerare due cose: la stessa natura umana o chi la possiede, e l'universalità o astrazione dalle dette condizioni materiali. Quanto alla prima cosa, l'uomo significa la realtà; quanto alla seconda, significa l'intenzione, giacché nella realtà non si trova uomo che non esista hic et nunc. E la creatura stessa, come tale, si chiama prima intenzione (29). Poiché ora l'intelletto riflette su sé medesimo e su quello che in esso si trova sia soggettivamente che oggettivamente, considera di nuovo l'uomo così da lui concepito senza le condizioni della materia, e scorge che una tale natura, concepita con tale universalità o astrazione, si può attribuire a questo o quell'individuo; e che realmente è in questo e in quell'individuo. Forma quindi la seconda intenzione di tale natura, e questa chiama universale o predicabile (30).

(Opusc. XLIV, De totius logicae Aristotelis summa, Tract. I, cap. 1)

 

IL VALORE DELLA CONOSCENZA

Il senso è una potenza passiva fatta per esser modificata dal sensibile esterno. Il fattore modificante esterno è dunque ciò che per sé viene percepito dal senso, e secondo la diversità del quale si distinguono le potenze Bensì live. Ma c'è una doppia modificazione : una naturale e l'altra spirituale. La naturale è quella con cui la forma del modificante è ricevuta dal modificato nel suo essere naturale, come il calore nel corpo riscaldato. La spirituale invece è quella secondo cui la forma del modificante viene ricevuta dal modificato nel suo essere spirituale, come la torma del  colore nella pupilla, che non diventa perciò colorata. Nel processo sensitivo si richiede una modificazione spirituale, per cui si produca nell'organo del senso la forma intenzionale sensibile (31). Diversamente, se bastasse una modificazione naturale, tutti i corpi naturali, sentirebbero quando sono modificati. In alcuni sensi, però, si trova la modificazione spirituale soltanto, come nella vista. In altri invece, con quella spirituale, anche la modificazione naturale o per parte del solo soggetto, o anche per parte dell'organo. Per parte poi dell'oggetto, c'è una mutazione naturale quanto al luogo nel suono che e l'oggetto dell'udito: giacché il suono è prodotto dalla percussione e dal movimento del? aria; nell'odore invece, che è oggetto dell'olfatto, c'è una modificazione per alterazione, giacché bisogna che il corpo, affinché spiri odore, sia in certo modo alterato dal calore (32). — C'è ancora una modificazione naturale nel tatto e nel gusto da parte dell'organo, giacché si riscalda la mano che tocca oggetti caldi, e viene umettata la lingua dall'umidità dei sapori. L'organo invece dell'olfatto o dell'udito non è alterato da alcun mutamento naturale ne] sentire, se non per accidens. Ma la vista, poiché non importa modifica naturale ne dell'organo, ne dell'oggetto, fra tutti i sensi è quello massimamente spirituale.

  (Summa Theologica, p. I, q. LXXVIII, art. 3)

 

Le « specie » non sono l'oggetto diretto della conoscenza

Le specie intelligibili, dalle quali è attuato l'intelletto possibile» non costituiscono l'oggetto dell'intelligenza. Il loro rapporto all'intelligenza non è quello di cosa conosciuta, ma di cosa con cui si conosce. Come, infatti, la specie che è nella vista, non è ciò che si vede, ma ciò con cui la vista vede — e ciò che si vede è il colore che ai trova nel corpo —; similmente, ciò che l'intelletto conosce è la natura universale (quidditas) che è nelle cose; non dunque la specie intelligibile, se non in quanto l'intelletto riflette su sé stesso. È chiaro, infatti, che le scienze riguardano le cose che l'intelletto comprende: esse hanno appunto le cose per oggetto e non le specie o le astrazioni intelligibili, se non per la sola scienza della ragione (33). Quindi è manifesto che non la specie intelligibile, ma la natura della cosa conosciuta è oggetto del pensiero. Donde pure risulta che è fasulla la ragione di alcuni che vogliono dimostrare che l'intelletto possibile è uno in tutti per il fatto che è la stessa la cosa che da tutti si conosce, mentre dovrebbero essere numericamente molteplici le specie se fossero molti gl'intelletti. Ma quel che si conosce non è la specie intelligibile, ma la sua somiglianza nell'anima; e quindi, se sono più gl'intelletti aventi in sé la somiglianza della medesima cosa, questa stessa sarà la cosa conosciuta presso di tutti (34).

(De anima, lib. III, lect. 8)

 

Confutazione dell'idealismo soggettivo

Alcuni sostennero che le nostre forze conoscitive non conoscono altro che le proprie affezioni: il senso ad es. non avvertirebbe che l'impressione passiva del proprio organo. E per la stessa ragione, l'intelletto non intenderebbe che la propria modificazione passiva, cioè la specie intelligibile in sé ricevuta, e perciò una tale specie sarebbe la stessa cosa conosciuta. Questa opinione è apertamente falsa per due motivi. Primo: gli aspetti delle nostre conoscenze sono i medesimi dei quali trattano le scienze. Ora, se le cose che conosciamo fossero soltanto le specie esistenti nell'anima, ne seguirebbe che tutte le scienze non riguarderebbero le realtà che sono fuori dell'anima, ma solo le specie intelligibili che sono nell'anima... Secondo: ne seguirebbe l'errore degli antichi, i quali dicevano che tutto ciò che si vede è vero (35), e in tal modo due proposizioni contraddittorie sarebbero entrambe vere. Se infatti una potenza non conosce che la propria modificazione, giudica soltanto di essa; ma una cosa è vista nel modo con cui è affetta la sua potenza conoscitiva; dunque, il giudizio della facoltà conoscitiva riguarderà ciò di cui giudica, vale a dire la propria modificazione secondo quel che è: e in tal modo ogni giudizio risulterà vero. Ad es., se il gusto non sente che la propria passione, quando uno che l'ha sano giudica che il miele è dolce, giudicherà secondo verità. E similmente, se colui che ha il gusto malato, giudicherà che il miele è amaro, anch'egli emetterà un giudizio vero: entrambi intatti giudicano secondo che il loro gusto viene affetto. Ne segue allora che ogni opinione sarà egualmente vera; e sarà anche, generalmente, vero ogni modo d'intendere la cosa.

(Summa Theologica, lib. I, q. LXXXV, art. 2)

 

 NOTE

(1) Nella gnoseologia aristotelìco-tomista si sostiene che, quando X conosce Y in atto, la forma di Y, smaterializzata, è l'identica realtà che viene a trovarsi attualmente anche in X. Il calore eccessivo, ad es., sentito dalla mia mano è identico e nel senso che l'avverte e nel ferro da stiro che mi sta bruciando.

(2) L'alto del conoscere avviene perché la similitudine o forma o specie dell'oggetto conosciuto, attua la potenza conoscitiva agendo su di essa.

(3) Filosofo: per antonomasia nel Medio Evo è Aristotele.

(4) Avicenna: è il nome latinizzato del filosofo e medico persiano (falsamente detto arabo per aver usato la lingua araba) Ibn Sina (n, ca. 980 + 1036), autore, fra l'altro, del Canone della medicina, opera comunemente studiata nelle scuole del Medio Evo

(5) E' noto che chi manca di un senso non ha neppure conoscenza degli oggetti rispettivi. Il cieco nato non sa, ne saprà mai cosa sia il colore o la luce.

(6) I sensibili: nel gergo scolastico sono le qualità sensibili dei corpi (luci, suoni, odori, ecc.), che impressionano i sensi e generano così, con la loro azione, la conoscenza sensibile

7) Com'è facile rilevare da più di un testo da noi riportato, per Aristotele e S. Tommaso vi sarebbero dell'uomo due facoltà — o funzioni o momenti di una stessa facoltà — intellettive : una attiva (intelletto agente), destinata a illuminare il fantasma spogliandolo delle sue note individuanti per farne emergere l'idea universale ; l'altra passiva ( intelletto possibile o passivo), che conosce di fatto l'essenza universale delle cose, già astratta da queste mercé l'opera dell'intelletto agente.

(8) La luce che piove sull'intelletto agente per renderlo alto al suo compito,  viene da Dio e dalle sostanze separale (angeli).

(9) L'illuminazione da Dio o dagli angeli dell'intelletto agente; permette a questo d'intendere i primi princìpi del sapere, grazie ai quali è poi possibile intendere i princìpi particolari di particolari scienze e discipline.

(10) Potenza prima: è la potenza o capacità remota di un essere ad una determinata perfezione, che mai è ancora esistita in esso. Si oppone a potenza seconda, o prossima, che è una potenza già attuata da una determinata forma, ma che possiede ora questa forma abitualmente (come habitus, o abilità), non nella sua attuale esplicitazione. Per es.: l'intelligenza del bambino è in potenza prima alla scienza nucleare; l'intelligenza invece di Fermi — quando questi non vi sta pensando sul punto — è in potenza seconda alla medesima. La possiede cioè abitualmente, e può subilo, sol che lo voglia, passare all'atto puntuale del momento.

(11) È superfluo far notare l'esagerata importanza che la medicina del tempo attribuiva alla sanità del cuore, per curare... tutti i mali!

  (12) L'errore sta sempre nel giudizio. Se dico: — L'uomo è un animale senza ragione —, erro perché attribuisco all'uomo la mancanza di quella ragione, che è invece la sua differenza specifica dall'animale. Ora, solo rinleMìgenza è capace di formulare giudizi, e quindi di comprendere « rettamente » e « non rettamente ». Il senso si limita — né più, né meno — che a costatare un fatto: verde, rosso, umido, freddo, eco, E in quanto mera constatazione, esso non erra o, meglio, è fuori della sfera della giudicabilità che appartiene all'intelligenza.

(13) Intelligibili: analogamente a sensibili sono gli aspetti universali e astraili delle cose (idee)

 (14) Gli universali esistono come tali (formaliter) solo nello spirito, ma vengono desunti, col processo astrattivo, dal singolare concreto; e quindi almeno fondamentalmente sono nella cosa.

(15) Per accidens: occasionalmente, per una causa diversa da quella per sé. Nel nostro caso, da una causa collaterale (o per accidens), che impedisce di richiamare i contenuti spirituali di una scienza. E potrebbe essere un'indisposizione generale del soggetto, o una lesione dei centri cerebrali dell'ideazione, della memoria, eec.

(16) Abbiamo tradotto letteralmente, ma il senso inteso dall'autore, per chi non ha famigliarità col pensiero e col gergo della scolastica, andrebbe dichiarato in una perifrasi come questa: il colore bianco, o è considerato nella cosa bianca in generale, senza essere staccalo da essa (universale diretto); o è astratto dalla cosa bianca e considerato in sé come una delle tante possibili realizzazioni della qualità bianchezza (universale riflesso).

(17) La natura o specie di una realtà può esser predicata di emme soggetti, solo se si consideri astratta dalle note proprie dei singoli soggetti in cui esiste in concreto. Così la natura umana è predicabile di Tizio, di Caio e di Sempronio. Perciò posso dire: Tizio, Caio e Sempronio sono uomini; ma non posso dire: Tizio è Caio, o Caio è Sempronio.

(18) La natura, considerata a parte rei, e sempre riferita ad individui concreti: nature individuale. Si dice: Socrate è un uomo (= un individuo della specie umana); ma non: Socrate è... la specie umana, perché questa, nella sua pura universalità, non esiste o parte rei né in Socrate, ne in Platone, ma solo nel pensiero che la pensa

(19) Così come i sensibili sono fra loro separati: cioè come una data classe di qualilà sensibili — mettiamo i colori — è separata dall'altra: i suoni, i sapori, gli odori, ad esempio.

(20) Nulla è pensabile, anche nelle scienze più astratte, se non si fa ricorso, almeno remotamente, a qualche fantasma o intuizione sensibile. Si pensi alla geometria, che nulla può senza l'intuizione sensibile dello spazio. È questo un punto in cui S. Tommaso è perfettamente d'accordo con Kant.

(21) La fantasia è in dipendenza dal senso: nessun fantasma è possibile senza la previa stimolazione del relativo senso. Il cieco nato non sogna, ne immagina mai le luci e i colori

(22) Cioè, secondo le concezioni fisiche del tempo. Bolo il calore (forma del fuoco), non il fuoco (forma e materia insieme) era comunicato all'aria dalla fonte di riscaldamento. Tuttavia, più in là S. Tommaso dirà che a volle anche la stessa materia del fuoco passa nell'aria: quando pare che l'aria stessa si avvampi. In quest'ullimo caso non si avrebbe solo una immutatio per formam, ma anche una trasmutazione dell'aria per la disposizione materiale simile dell'aria e del fuoco.

  (23) Causa, come sappiamo, del conoscere è la forma svestita di materia. Dunque, quanto più di forma che di materia ha un essere (,= quanto più si avvicina alla condizione dei puri spiriti) tanto più è conoscibile. Le forme materiali platoniche sono dunque da sé — senza l'opera di smaterializzazione dell'intelletto agente — intelligibili

(24) Dell'ente universale: cioè dell'ente in tutta la pienezza delle sue perfezioni, di tutto quello che può cadere sotto l'idea universalissima di ente.

(25) Questa grandezza è lo spazio, senza del quale neppure il colore è conoscibile.

(26). ..i cinque universali o predicabili, ecc. Sono i cinque modi più generali secondo cui le categorìe o predicamenti dell'essere si predicano di una data cosa. Le categorie o predicamenti sono, secondo Aristotele, 10: sostanza, qualità, quantità, relazione, azione, passione, luogo, tempo, sito e abito. I predicabili sono 5: genere, differenza specifica, specie, proprio (=nota propria di una data specie, come il riso nell'uomo) e accidente (nota accidentale, che può trovarsi anche in specie diverse fra loro: una malattia). Porfirio di Tiro (sec. III-IV) è il filosofo neoplatonico che raccolse gli scritti di Piotino nelle Enneadi e scrisse L'introduzione alle categorie di Aristotele. In quest'ultima opera Porfirio tratta dei predicabili.

  (27) Materia segnata: sottinteso; dalla quantità. Cioè, non la materia genericamente presa come soggetto indeterminato ma determinabile da forme; bensì la materia già realizzata in una precisa quantità: questa materia del tavolino, del libro, ecc. O la materia — insomma — come tutti i poveri mortali riescono il capirla !

(28) Verbo: nel senso latino di parola. Ma qui parola non come espressione verbale di un pensiero, ma come espressione — nel pensiero — di una data essenza intelligibile: l'idea, insomma, di triangolo — poniamo — o di umanità, libertà, giustizia, ecc.

(29) La prima intenzione è l'universale diretto esistente ancora nelle cose; la seconda intenzione è l'universale riflesso — o universale dell'universale — esistente come tale solo nella mente. Se dico l'uomo, ho l'universale diretto; se dico invece l'umanità, ho l'universale riflesso, che non è se non il diretto in quanto considerato in riferimento a X soggetti che lo partecipano e possono parteciparlo.

(30) Universale o predicabile: nel nostro caso l'umanità ; se si mette in rapporto all'animalità, appartiene al terzo dei predicabili del cosiddetto albero di Porfirio (= quadro dei predicabili); la specie umana, che differisce dal genere animalità (primo predicabile) per la differenza specifica (secondo dei predicabili) della razionalità. L'uomo è infatti un anima rationale.

(31) Modificazione spirituale sarebbe quella che non importa alcuna alterazione fisica della facoltà e del soggetto conoscente, ma solo la suscezione della forma conosciuta spoglia della sua materialità. Le progredite conoscenze odierne sulla complessità del processo conoscitivo sia sensibile che intellettivo, non permettono di accettare in blocco queste osservazioni e analisi del Santo. Sono troppo sommarie e risultano in buona parte errate. Oggi sappiamo, ad es., che in ogni benché minima sensazione — anche in quella della vista — avvengono in tutto l'apparato sensorio interessato delle profonde modificazioni di natura fisica, chimica, elettrica, ecc., prima che si verifichi quel fatto misterioso che si chiama il vedere.

(32) Anche qui la nota è inesatta. Gli odori si sprigionano dalla sostanza odorifera non solo sotto razione del calore (pensare all'odore della carne arrostita), ma anche senza il riscaldata en I o (acqua di colonia, etere, essenza di muschio, ecc.).

(33) La sola scienza della ragione: è la logica che studia non le cose, ma le rappresentazioni mentali delle cose e le relative operazioni su dì esse: giudizi e raziocini.

(34) Interpreti del pensiero di Aristotele ritenevano che fosse unico per tutti gli uomini l'intelletto agente (Averroè) o anche possibile (Alessandro di Afrodisia); e per di più, appartenenti non all'uomo, ma alle sostanze separale (Dio e gli angeli). All'uomo singolo non si riconosceva che una facoltà media tra il senso e l'intelletto : la cogitativa. Ne seguiva, naturalmente, la negazione dell'immortalità personale dell'uomo, fondala sulla realtà della singola anima spiritualmente pensante. Di qui la polemica accesa dei Dottori medievali cristiani — fra cui S. Tommaso — contro una posizione ideologica cosi contrastante con la fede, oltre che con la psicologia e la gnoseologia, che attestano in ognuno di noi un pensiero spirituale. S. Tommaso confuta qui l'obiezione base degli avversari, facendo osservare che l'unita di conoscenza e raccordo di tutti gli uomini su determinale verità, non deriva dall'unità numerica del loro intelletto — o meglio dell'intelletto in tutti gli uomini pensante —, ma dall'identità per tutti dell'oggetto del pensiero, mentre sono molteplici numericamente solo le somiglianze o specie intelligibili dell'oggetto medesimo nei singoli uomini pensanti.

(35) L'errore degli antichi è il relativismo dei Sofisti, per cui l'uomo era misura d'ogni cosa, e quindi esistevano tante verità quanti erano gli uomini pensanti con le loro particolari maniere di pensare.