ELEONORA DUSE: LE INTERPRETAZIONI DEI DRAMMI IBSENIANI

Recitare: un impegno artistico ed umano. 

Per Eleonora Duse recitare non era un semplice mestiere, ma un vero e proprio impegno sul piano artistico e umano, per questa ragione ella sentiva veramente la necessità di predisporre con cura ogni elemento collegato alla rappresentazione.

Naturalmente ogni affermazione, entusiastica o meno, sulla sua arte va “storicizzata”, ricondotta al periodo storico in cui viene fatta.

 Quando doveva portare in scena testi stranieri, la Duse si assicurava sovente la collaborazione di uomini di cultura, in grado di garantire una traduzione "plastica", adeguata al linguaggio del palcoscenico.

Le opere di Ibsen, in particolare, avevano avuto per lungo tempo dei traduttori occasionali, che badavano tutt'al più alle esigenze del singolo attore che le commissionava; la Duse invece, nel corso della sua attività teatrale, interpella letterati del calibro di Adolfo De Bosis (37) e Arrigo Boito (38), dando prova di vera sensibilità artistica.

 L'attrice si impegna affinchè sia curato anche l'allestimento scenico, un aspetto della rappresentazione teatrale che era generalmente trascurato dalla maggior parte degli attori italiani.

Nelle recensioni che commentano le recite dell'artista, non è affatto raro trovare dei chiari apprezzamenti per la scenografia: ad esempio per un’ Hedda Gabler del novembre 1905 a Firenze (naturalmente con la Duse come regista/prima attrice) il critico Adolfo Orvieto scrive compiaciuto: "Degno l'allestimento scenico: quale purtroppo si vede ben di rado nel teatro italiano" (39),  mentre invece per "La Commedia dell'amore" rappresentata dal De Sanctis (1906), parla con tono disgustato di: "incredibili luci" che danno “effetti grotteschi” al dramma.

 L'artista controlla personalmente anche i più piccoli particolari che, in qualche modo, possano aiutare a costruire un'atmosfera o a far "nascere" l'ispirazione.

In un suo libro sulla Duse, Luigi Rasi riporta alcuni episodi (40) che sorpassano il semplice valore aneddotico, in quanto illuminano un aspetto importante del carattere dell'artista: l’importanza attribuita a tutto ciò che, creando una perfetta illusione, aiuta ad immedesimarsi in un personaggio.

La sua recitazione è frutto di una continua ricerca  di ogni elemento utile ad esprimere il mondo interiore di cui sono ricchi i drammi ibseniani, perchè l'attrice riesce a far affiorare quegli elementi simbolici che sono parte integrante di questi lavori, ed a rendere più accettabili quelle l'inverosimiglianze "tanto contestate dal pubblico e dalla critica ad Ibsen.

 Nell'arco di tempo che intercorre tra il 1891 e il 1921, non vi sono praticamente artiste che contendano alla Duse il primato in queste interpretazioni.

Domenico Lanza, nel 1922, onora il profondo e devoto impegno dell'attrice nei confronti del drammaturgo norvegese, riconoscendo che essa ne offre una delle "prove più luminose ed insigni" (41).

Francesco Bernardelli cerca di spiegare da cosa derivasse la particolare atmosfera che si creava durante le recite dusiane: l'artista riusciva a dare una “spirituale concretezza" ad un mondo di idee impalpabili, mettendo da parte la verità nel senso "veristico" e ricercando invece la "poesia" (42).

Dunque, attraverso una trasformazione che proveniva dall'interno, la Duse riusciva a dar vita al personaggio da lei interpretato, presentare al suo pubblico come una creatura viva e reale. Forse soltanto Lanza intuisce quale profonda soddisfazione dovesse trarre l'attrice nel far capire agli spettatori la presenza di un mondo che affiancava e superava quello reale (43).

 Edward Gordon Craig ed Eleonora Duse: un esperimento

Due mentalità tanto diverse come quella di Eleonora Duse e di Edward Gordon Craig trovano un comune campo d'azione in un dramma di Ibsen: Rosmersholm.

La Duse vedeva nei lavori di Ibsen il regno dell'indistinto che ella cercava di esprimere; Craig affermava, similmente, che "coloro che vogliono rappresentare Ibsen devono lavorate come artisti, non come fotografi  lasciamo l'epoca, i mobili ai musei, siamo a Rosmersholm, “une maison pour les ombres" (44).

Oltre alla predilezione per questo autore, la Duse e Craig erano avvicinati dalla comune idea che l'arte teatrale fosse decaduta a causa di interessi meschini; l'unico modo per farla rinascere sarebbe stato quello di dedicarsi interamente ad essa rinunziando ad ogni egoismo personale.

Per la Duse, la formazione di un "teatro d'arte" sarà sempre un'idea fissa. In una lettera del 1° febbraio 1900, indirizzata ad Arrigo Boito, ella esprime tutta la sua fatica di vivere, l'amarezza e l'inutilità dei suoi sforzi per dare vita a una vera arte teatrale in Italia:   "Qualche anno, quando tornai  [...]  nel mio paese, tornai a mani piene, e offersi e operai, tentai e volli, fondare in Italia qualche cosa che fosse arte e volo aperto verso qualche cosa che fosse arte e attesa di nuove forze.  Ma niente fu compreso. Fui nella melma, fin qua, alla gola !  e il tentativo fu rovinoso [ ... ]   Arte di che ?  Non mi  rimane [...] che un nome fatto, e legato al vecchio ciarpame dei lavori dì Sardou e Dumas [ ... ] (45).

La continua ricerca e la sete di novità la spingono a vedere in Craig il compagno di lotta ideale …  Craig, da parte sua, vede nella Duse quanto un'attrice preparata e sensibile può offrire alla realizzazione del suo progetto.

Egli, infatti, cerca di assicurare al teatro una sua realtà autosufficiente, nella quale la rappresentazione di un testo sia la realizzazione di un'opera originale ed autonoma.

 La loro collaborazione per Rosmersholm, nel dicembre 1906, resta un episodio isolato; l'anno dopo a Nizza, una clamorosa lite mette fine ad ogni possibile futura cooperazione: un’attrice come la Duse non poteva  certo accettare passivamente la concezione teatrale dell'inglese, che sosteneva la “priorità dei regista creatore e coordinatore di ogni elemento scenico, attori compresi” (46).

 Il problema dell’interpretazione

Eleonora Duse, personalità eccezionale per molti versi, è pur sempre un'attrice immersa nella vita teatrale del tempo: decisamente “assolutistica” in fatto d'arte,  non ammette si possano discutere le sue scelte o l'interpretazione dei lavori (47), quanto travagliata deve essere stata la breve collaborazione con Gordon Craig, per non parlare di quella con Ermete Zacconi …

Camillo Antona Traversi racconta che, durante le recite de La donna del mare nel 1921, a Zacconi "spiacevano le improvvise necessità estetiche" della Duse, egli, abituato all'economia, le considerava 'capricci dispendiosi' " (48).

La Duse non avrebbe mai pensato di rinunciare alle sue prerogative di "grande attrice": la sua posizione le permetteva di considerare i vari elementi della recita in funzione delle sue capacità espressive. Tagliando o modificando a piacere i testi teatrali.

Gobetti osserva che l'attrice, "più che recitare Ibsen, recita se stessa ed a se stessa adegua tutti gli elementi tragici" (49).

Anche D'Amico ricorda che l'attrice aveva fama di l'interpretare, con strane deformazioni, le opere degli autori, sorvolando sulle scene essenziali e dando grande risalto a "particolari insignificanti in cui ella vedeva la sostanza dell'opera" (50).

Ella può intervenire su di un'opera seguendo una sua idea personale, perchè il pubblico le attribuisce questo diritto; nessuna attrice le contesta il primato e questa sua "unicità" è stata tramandata fino ai nostri giorni. Jacobbi può così affermare: "La Duse è per noi, che interpreti D'Annunzio o Ibsen la Duse" [51].

 E' soprattutto dopo il suo rientro del 1921, che i critici e gli studiosi di teatro cercano di approfondire il fenomeno della Duse.

Questa attrice, legata alla tradizione, ma così protesa verso il futuro, sconvolge i comuni criteri di valutazione, perché essa non dimostra di recitare meglio di qualunque artista, ma è padrona di un'arte sostanzialmente diversa e di mezzi espressivi particolarissimi.

Non si tratta perciò di una varietà di grado, ma di una vera e propria diversità che la fa apparire un fenomeno "eccezionale" trasformandola in un "mito" per le platee.

Il pubblico, pur non convinto dalle opere di Ibsen, subisce il fascino dell'artista, tributandole un successo dopo l'altro.

Un'imponente pubblicità circonda il nome della Duse, e parte di questa si riflette su Ibsen che ha in lei la sua maggior interprete.

Questa réclame, rispetto a quella assicurata al drammaturgo da Zacconi, ha il vantaggio di presentare un'immagine meno distorta di questo autore.

Curiosamente, tra i drammi ibseniani rappresentati in Italia sono diventati famosi proprio Casa di bambola e Spettri nelle versioni meno aderenti alla volontà dell’autore; il primo lavoro perché considerato erroneamente un opuscolo di propaganda femminista, il secondo perché interpretato in chiave patologica da Ermete Zacconi, che addirittura incarna agli occhi del pubblico, con il personaggio di Osvaldo, l’immagine stessa del drammaturgo norvegese.

 La Ristori criticava la Duse per l'eccessiva soggettività, la nervosità della recitazione e per la sua tecnica recitativa, che non aveva ormai più nulla a che fare con l'ideale di equilibrio neoclassico.

Tommaso Salvini, cresciuto alla scuola di Gustavo Modena, vede nel l'attrice solo l'interprete di personaggi nevrotici.

“Nevrosi" è chiamata la malattia del secolo, portata dai repentini mutamenti politici e industriali di fine ‘800, una malattia che Vincenzo Morello considera un segno di decadenza della razza latina, e che Gerardo Guerrieri, riferendola alla Duse, classifica invece come una confusione tra arte e vita (52).

Attorno alla Duse si crea, infatti, un'aura di compatimento, l'artista passa alla storia come una "commediante che non fingeva" ma "trascinava semplicemente la sua infelicità dalla vita alla ribalta” (53).

Nelle sue memorie Craig parla appunto di una "leggenda" secondo la quale ella "non era nel pieno possesso delle proprie facoltà, attorniata da persone sempre pronte a sussurrare: Povera, povera donna" (54).

 Il pubblico non poteva trovare un'interprete più accettabile per gli "strani" personaggi  ibseniani.

 La Duse non  può limitare le sue scelte ai drammaturghi italiani o ai francesi di fine ‘800, che pure hanno avuto tanta importanza nella sua vita artistica, e sente il bisogno di rivolgersi ad un repertorio più vasto: Gorkij, Maeterlink, Ibsen ...

Ricerca anche contatti coi maggiori esponenti dell'arte teatrale contemporanea: Lugnè-Poe, Stanislavakij, Craig.

Gigli definisce "fraternità" istintiva il sentimento che lega la Duse alle opere del drammaturgo (55), già Teresa Albertis ne aveva fatto cenno, rivelando l'affinità che esisteva tra l'attrice ed Ellida Wangel (La donna del mare), legame confermato anche da D'Annunzio (56).

La sua ammirazione per Ibsen, in ogni caso, è frutto di una precisa scelta, non ha nulla di dilettantistico e non è neppure condizionata dai gusti del pubblico o dalle mode.

Questo suo incessante lavoro di ricerca, piuttosto disorganico, non è corto ai livelli di uno Stanislavakij.

D'Amico, intervistando l'artista nel 1921, ha l'impressione che essa sia affogata in un tumulto di aspirazioni, confuse e contraddittorie.

Cerca  la “poesia”, ma per poesia sembra intendere un certo stil nobile, un soffio, una ispirazione indefinita; non la vede nelle opere chiare, semplici concrete. Perciò si perde a considerare con attenzione anche le mode e le correnti non degne di attenzione (57).

Il seguente brano è tratto da una lettera dell'artista nel 1892: "Dumas resiste sempre alla ribalta ma ( ... ) forse che Ibsen non porterà una forza di più al teatro se è l'anima è non il dramma che egli cerca di donarci ? Forse tra dieci anni tutto il teatro sarà così, che peccato non esserci!" (58); la Duse, a questa data, ha appena cominciato la sua serie di rappresentazioni ibseniane e lo l'scandalo provocato dai drammi non trattiene la sua ricerca.

La serie comincia  con Casa di bambola, ma l'attrice non sembra amare molto il personaggio di Nora, forse la trova troppo "ragiona a volte, e troppo elementare altre. Elimina, per esempio, la tarantella del secondo atto, perchè la considera una manifestazione troppo esteriore dell'angoscia che tormenta la donna.

Distingue invece Hedda Gabler da Nora, e considera la prima il simbolo di un "moderno tragico interiore” (59), perfettamente inquadrabile nell'idea che essa si è fatta dell'autore.

La sua partecipazione al personaggio deve essere anzi parsa eccessiva a qualcuno, tanto che Giuseppe Antonio Borgese sente il dovere di difenderla sulle pagine de "Il Mattino”, apprezzando il fatto che ella non sia uno "specchio indifferente" e affermando che è la sola attrice che abbia  compreso la tragedia di Hedda (60).

L'attrice veste anche i panni di Rebecca West, in Rosmersholm, un dramma realizzato con pochi personaggi e una ridottissima azione.

Ella si sente cosi a suo agio, da intraprendere appunto, proprio con questo lavoro, l'esperimento di collaborazione con Craig.

Con poche parole, Adolfo Orvieto riporta tutto l'inafferrabile atmosfera di questo dramma: "l'analisi di questa interpretazione non è possibile e non va nemmeno tentata.

Come la parola del dramma anche l'interprete ci pare di una “doppia verità” (61).

Ne La donna del mare non era il problema di Ellida ad affascinare la Duse, ma la posizione di questa al cospetto del mare, e con cosa il mistero, il fascino dell'ignoto.

Ma è con Spettri che, secondo l'unanime giudizio, la Duse dà la più matura espressione della sua arte, non solo perchè restituisce alla signora Alving la posizione che le spetta nel lavoro, ma anche perchè riesce a trovare il difficile equilibrio tra la realtà interiore e quella esterna.

Quando la Duse scopre Ibsen, decide di dedicarsi totalmente a lui, si sarebbe accontentata di recitare anche in parti secondarie pur di dare un ciclo completo delle opere dell'artista (62), ma questo obiettivo non riesce a realizzarlo.

Oltre ai lavori già citati, la Duse recita anche in Gian Gabriele Borkman.

Nel 1920 ella dice di questo dramma: "l'è un chiaroscuro un'acquaforte di disegno e parola", aggiungendo in un'altra lettera: "non c'e' che Ibsen: John Gabriele Borkman avrebbe dato al lavoro un'impronta assoluta d'arte" (63).

Tenterà di rappresentare Quando noi morti ci destiamo, ma non se ne farà niente; questo dramma avrebbe potuto però rispondere in pieno alla sua sete "d'indistinto".

 In Italia l'artista sente di aver trovato l'ambiente propizio per recitare Ibsen; anche nel 1921 ella confessa che avrebbe preferito ricominciare all'estero, per sentirsi più libera.

Si trova a suo agio soprattutto in Germania: è a Berlino che, rispondendo a un intervistatore italiano, ella espone brevemente la sua posizione di attrice ibseniana:  “Perchè ho scelto solo opere di Ibsen per le mie due recite a Berlino? Per un motivo semplice: perchè io amo, io adoro Ibsen.  Ed è anche perchè mi pare che siamo proprio nel tempo in cui si comincia a gustare e a comprendere Ibsen" (64).

Nella stessa intervista, ella espone brevemente i motivi che la spingono a preferire la Germania: non tanto perchè Ibsen le è stato rivelato da attori tedeschi, ma perchè in Germania l'ambiente teatrale è più "maturo".

 "Io credo poi, che non vi siano al mondo scene più adatte delle tedesche per le opere e i personaggi di Ibsen, perchè il pubblico vi è così raccolto, così riflessivo" (65).

In Italia, invece, è così difficile trovare qualcuno che “ami" le opere del norvegese.

D'Amico, in "Colloqui con la Duse", riporta un'affermazione che egli definisce ”curiosa": "quando si conosce l'ultimo Ibsen, Rosmersholm, Borkman, non si può più indugiare su Spettri e Casa di bambola: belle cose, ma superate dagli ultimi drammi" (66).

Questa affermazione è giustificata dal fatto che l'attrice sente in Ibsen soprattutto il poeta.

La Duse dimostra di avere un vero orrore del realismo, D'Amico osserva incredulo che essa "non vuole intendere che il suo adorato Ibsen è anche un realista" (67).

Per questa ragione ella cerca di ignorare o sopprimere l'ambiente, il linguaggio, tutto ciò che ostacoli lo svolgersi del dramma all'interno dei personaggi stessi, ed è questo, sostanzialmente il limite delle sue interpretazioni.

Questi "limiti" non sono tali da far dimenticare, che le interpretazioni ibseniane della Duse sono state una "nobile parola" nel  piatto teatro borghese (68).

Per  lungo tempo si parlerà dell'arte di Eleonora Duse come di un insegnamento valido (69); per D'Amico i "più puri dicitori", da Irma Gramatica a Ruggero Ruggeri, devono a lei la loro abilità (70).

Ma sarà soprattutto Irma Gramatica a seguirne le orme, ripetendo tra l'altro più di una interpretazione ibseniana dell'attrice, da Casa di bambola a Gian Gabriele Borkman.

Di Irma Gramatica si parlerà addirittura come di un "fenomeno Duse che si rinnova", affiancandola all'artista come emerita divulgatrice del teatro di Ibsen in Italia (71).

 

36) Lanza, G., art.cit., "Teatro Scenario" n.2, 1952.     

37) Ridenti, Lucio, La Duse minore, Roma, Casini, 1966, p.80.     

38) Eleonora Duse - Arrigo Boito, lettore d’amore, a cura di Raul Radice, Milano, Il Saggiatore, 1979, P.973   

39) Gaio, Hedda Gabler, in "Il Marzocco", n.46, 12 novembre 1905, p.3   

40) Si dice, per esempio, che l'attrice abbia interrotto le prove di Hedda Gabler perchè pretendeva di avere un album molto grande, nel quale fossero realmente contenuto foto di viaggi. (Rasi, Luigi, La Duse, Firenze, Bemporad , 1901, p.171-72).     

41) Lanza, D., Gli Spettri, in Mezzo secolo di teatro, Torino, Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, 1970, p.104 (già in "Gazzetta d el popolo", 13 novembre 1922).    

42) Bernardelli, Francesco, Missione poetica di Eleonora Duse, in "La Stampa” 15 aprile 1934.    

43) Lanza, D., Rosmersholm, in op.cit., pp.58-60 (già in "La Stampa", 2.2 dicembre 1905).    

44) Mostra di Edward Gordon Craig, catalogo a cura della Bibliothèque teatrale di Parigi, La Biennale di Venezia, 1963, p.58.    

45) Eleonora Duse , Arrigo Boito, lettere ... cit., pp.949-50.  

46) + 47) lo scanner si è mangiato le note ed io ho già messo via la tesi: non ho voglia di tirarla fuori di nuovo, tanto voglio proprio vedere chi se ne accorge. Stop

48) Una volta l’attrice gli chiese di procurarle 200 rose bianche; un'altra lo svegliò al mattino presto per far spostare uno scoglio nella scenografia de La donna del mare (Cimoni, Ibid.).    

49) Gobetti, P., Eleonora Duse, in op.cit. (già in "Ordine Nuovo",  9 maggio 1921).    

50) D'Amico, S., Colloqui con la Duse (1921), in Eleonora Duse e il suo tempo, Quaderni del Piccolo Teatro, n.3, Milano, 1962, p.77.     

51) Jacobbi, Ruggero, Ibsen, Milano, Accademia, 1972, p.134.   

52) Guerrieri, Gerardo, Eleonora Duse, in "Sipario" n.150, 1958, pp. 4-9.   

53) An., La Duse trasfigurava nel teatro il genio dell'infelicità, in “Resto del Carlino", 3 ottobre 1958.    54) Rossi, Alberto,  in "Gazzetta del Popolo”,  2 gennaio 1929.    

55) Gigli, G., I 50 anni della morte di Ibsen, in "Il Dramma" n. 237, giugno 1956, p.38.    

56) Térésah (Teresa Albertis), Ibsen e la Duse, in "Il Dramma", n.  439-40, dicembre 1944, p.10.    

57) D'Amico, S., art. cit. [1921), p.77.   

58) An., Eleonora Duse, in "Cronache d'Arte", 22 maggio 1892.    

59) Térésah, art.cit.    

60) An., Eleonora Duse a Berlino, in "Il Marzocco", n.5, 2 febbraio 1908 p. 1.    

61) Gaio, Rosmersholm, in "Il Marzocco", n.49, 9 dicembre 1906, p. X

62) Tárésah, art.cit.    

63) Mostra di Eleonora Duse, catalogo a cura di G.Guerrieri e P. Nardi, La Biennale di Venezia,1969, pp.82-83   

64) An. Eleonora Duse, in "La Maschera", n.29, 8 novembre 1908, p. 12.  

65) An., Ibid.   

66) D'Anico, S., art.cit. (1921).   

67) D'Amico S., Ibid.    

68) Tettoni, F., art.cit. (dicembre 1944), p.8.    

69) Perselli, Luciano, Peer Gint, in "Il  Dramma", n.161, 1952, p. 34.   

70) D'Amico, S., Eleonora Duse. in Tramonto del grande attore, Milano, Mondadori, 1929, p.47  

71) Viola, Cesare Giulio, Arte di Emma Gramatica, in "Scenario", n.4, maggio 1932, p.39.     

Baldin superdott.ssa Anna, Henrik Ibsen sulle scene italiane: 1889-1924 (Università degli Studi di Venezia, Tesi di Laurea in Storia del Teatro, Anno Accademico 1980-81, Cap. VI°  pp. 278-298.