Comunicati dicembre 2000
Gerusalemme occupata 4/12/2000
I palestinesi continuano ad essere ammazzati, ma non si
parla più delle grosse cifre dei primi giorni. Resta il fatto pero’ che
l’occupazione militare persiste nella sua lenta opera di repressione,
oppressione e in sostanza di vera e propria pulizia etnica. I blocchi
alle città rimangono, per quanto proprio il Jerusalem Post di questa
mattina riportasse che gli “episodi di violenza” da parte palestinese sono
diminuiti del 50%.
Oggi davanti al campo profughi di Arroub, fra Betlemme
ed Hebron, stazionava un carro armato con la mitragliatrice puntata sulla strada
principale del campo.
Ad
al-Fawwar la strada principale è costeggiata da
alte barriere di terra, massi e detriti imposte dall’esercito israeliano per
impedire definitivamente ai palestinesi di utilizzare le strade sterrate dei
campi come via alternativa alla strada di accesso normale, ormai chiusa da
settimane. E ormai non vengono bloccate solo le strade secondarie, ma anche le
vie di accesso ai più piccoli centri. Addirittura ho sentito dire che
l’esercito israeliano ha chiuso le strade private di alcune case.
Hebron rimane sotto coprifuoco e quando sabato sono
tornato a trovare Maesa nella parte chiusa della città, le strade mi sono parse
ancor più spettrali della volta precedente. I soldati dall’alto dei tetti
urlavano, terrorizzando le pochissime bambine che si erano arrischiate ad andare
a scuola e che tornavano a casa. Non è stato permesso a nessuno, nemmeno per
un’ora, di muoversi e andare a fare spese, a causa dello Shabbat ebraico. I
carri armati sono sempre lassù, nella scuola occupata, puntati sulla città
vecchia.
Il giornale Between the Lines ha pubblicato un
articolo interessante di Shraga Elam, un giornalista israeliano, che ha base in
Svizzera. L’articolo parla di un rapporto del Csis, un organismo di strategia
militare americano, molto vicino alla Cia, intitolato: “Peace and War: Israel
versus the Palestinians A Second Intifada? - A Rough Working Draft, Center for
Strategic and International Studies (Csis), latest version Novemeber 9, 2000”,
di Anthony H. Cordesman. Secondo l’articolista il documento, nemmeno troppo
segreto perché lo si puòò scaricare da internet, affermerebbe che l’esercito israeliano sta
mettendo in pratica un piano per rioccupare i territori “concessi”
all’Autorità palestinese con gli accordi di Oslo. Il piano risalirebbe
proprio al periodo degli accordi di Oslo e, secondo il rapporto, fin dal 1996
l’esercito israeliano si starebbe “allenando” per la sua possibile
applicazione. Il Csis prospetta solo due vie di uscita per la soluzione del
conflitto israeliano-palestinese: o imporre la costituzione di un’Autorità
nazionale palestinese autoritaria e dittatoriale che non si faccia scrupolo di
violare anche i più basilari diritti umani della sua gente per garantire la
sicurezza di Israele, imponendo alla sua stessa popolazione misure repressive, o
realizzare il compimento del piano mediante l’adozione delle misure fino ad
ora non ancora intraprese, ma già pianificate dall’esercito israeliano.
Per sinteticità riporto solo la scheda riassuntiva
posta in calce all’articolo. In essa vengono sintetizzati i passi compiuti ad
oggi dall’Idf, quelli solo avviati senza essere stati ancora portati a termine
e quelli per ora solo pianificati, ma non ancora attuati:
Le misure già portate a
termine:
– Massiccio
rafforzamento della presenza militare israeliana nei punti di frizione.
– Uso di forze aggiuntive per la sicurezza degli insediamenti, delle
strade principali e dei punti strategici di terra.
– Impiego di
mitragliatrici posizionate su elicotteri per facilitare la mobilità dei
tiratori e del fuoco di “repressione” (suppressive fire).
– Impiego esteso
di armi leggere, artiglieria pesante e carri armati per la soppressione di
tiratori, lanciatori di sassi e dimostranti.
– Bombardamenti,
attacchi aerei e da elicotteri su obiettivi importanti palestinesi, con lo scopo
di punire elementi palestinesi responsabili di attacchi.
– Ricerche e
spedizioni speciali nelle aree palestinesi della Cisgiordania e Gaza con lo
scopo di rompere la resistenza palestinese e catturare, o uccidere, i suoi
elementi chiave.
– Distruzione di
importanti obiettivi palestinesi selezionati e distruzione dei punti di fuoco
palestinese vicini alle aree urbane.
– Movimentazione
e dispiegamento di mezzi corazzati per fronteggiare proteste di massa
palestinesi.
– Utilizzo di
mezzi blindati e artiglieria pesante per isolare le aree palestinesi
maggiormente popolate e separarle tra loro, incluse molte zone A.
Le
misure che l’Idf ha intrapreso anche se non ha ancora completamente portato a
termine:
– Blocco economico simultaneo in svariate aree in concomitanza con
l’interruzione delle transazioni finanziarie, della mobilità dei lavoratori e
della provvigione di cibo e carburanti.
– Utilizzo del
controllo sull’acqua, l’elettricità, le comunicazioni e la viabilità per
limitare l’espandersi e la durata dell’azione palestinese.
– Controllo
dell’accesso ai media e realizzazione di grosse campagne di “informazione”
per condizionare l’opinione pubblica locale e mondiale.
– Utilizzo di
speciali corpi militari addestrati per la guerriglia urbana, con lo scopo di
entrare, se necessario, nelle città dove ci sono comunità ebraiche, come ad
esempio nella città di Hebron.
Misure
non ancora adottate:
– Temporaneo sgombero degli insediamenti israeliani dalle aree a
maggior rischio e dalle zone di minor importanza o più isolate (Hebron ad
esempio)
– Arresto di
esponenti dell’Autorità palestinese e imposizione di una nuova
amministrazione militare.
– Evacuazione
forzata dei palestinesi dalle aree più “delicate”.
Come già detto si puòò scaricare il rapporto completo dal sito web:
http://www.csis.org/stratassessment/reports/IsraelPalestine.pdf.. Ieri
sera i coloni israeliani hanno attaccato il villaggio di Hussain, nelle
vicinanze di Betlemme. Più di venticinque palestinesi sono stati feriti dai
coloni che hanno sparato contro le persone che stavano entrando nella moschea
del villaggio per l’usuale preghiera delle 18:00, dopo il pranzo del Ramadan.
I coloni sono riusciti a scappare e l’esercito israeliano ha impedito
l’accesso all’area anche alle ambulanze giunte in soccorso dei feriti. Già
nel pomeriggio, mentre tornavo da al-Fawwar, una lunga colonna di coloni
israeliani occupava la strada che porta da al-Khader a Hussain. Alle undici di
ieri sera si sentivano gli elicotteri da guerra sorvolare Gerusalemme, diretti a
Betlemme.
Per ora queste sono le
notizie.
Comunicato n. 29
Gerusalemme occupata 7/12/2000
Oggi un signore davanti ad al-Fawwar mi ha detto: “questa è un’Intifada
israeliana!”.. Davanti a noi il campo di zucche, che fino a ieri era percorso
da tre o quattro piste parallele alla strada principale di accesso ad al-Fawwar,
era completamente sottosopra. Come vi ho già descritto, i soldati israeliani
hanno scavato trincee, ammassato cumuli di terra qui e là per impedire
definitivamente il movimento di qualsiasi mezzo per e da al-Fawwar. In questa
ultima settimana i ragazzi non hanno lanciato un sasso che li abbia raggiunti.
Non si puòò più parlare di
scontri veri e propri. Tuttavia gli israeliani continuano il loro assedio, in
maniera ancora più dura di prima. Stazionano sempre l fuori e oggi
di camionette ce n’erano addirittura cinque; una sempre ferma davanti al campo
con i soliti soldati armati di mitragliatrice e fucili di precisione, altre
quattro a pattugliare avanti e indietro il mezzo chilometro a sud e il mezzo
chilometro a Nord dell’entrata di al-Fawwar.
Arrivando sono stato ancora una volta testimone del disprezzo israeliano per
il popolo e la terra palestinese. Al lato della strada, proprio cento metri
prima del bivio per entrare ad al-Fawwar, tre auto della televisione erano ferme
a riprendere qualcosa che a prima vista non ho capito. Ho accostato: c’erano
una decina di soldati a scortare un bulldozer che lentamente si inerpicava sul
pendio che costeggia la strada principale e che discende dall’altro lato verso
al-Fawwar. Il bulldozer stava sradicando lentamente un cipresso gigantesco. Poi
è passato ad un altro e poi ad un altro ancora. Hanno abbattuto sei cipressi
enormi, alberi responsabili nei giorni passati di dare rifugio a qualche
bambino o ragazzo per tirare i sassi sulla strada. Mi sono fermato per
fotografare tutta l’operazione che è durata più di mezz’ora.
Quando il bulldozer ha terminato, sono stati chiamati altri due soldati che
con le motoseghe hanno cominciato a segare gli alberi più isolati o più
piccoli, ulivi compresi. Sono stato ancora un po’ l a fotografare, mentre tutto intorno i palestinesi
guardavano ammutoliti l’amore israeliano per la terra. Alcuni si sono anche
avvicinati, ma i soldati li hanno mandati via per poi mettersi a ridere tra loro.
Dopo quasi un’ora ho deciso di andare via.
Sono entrato nel campo mentre centinaia di bambine rientravano a piedi dalla
scuola di Dura, il villaggio vicino. Tutti abbiamo dovuto scavalcare i cumuli di
terra per ridiscendere dall’altra parte. All’entrata di al-Fawwar ho
incontrato Khaied, che mi ha indicato una signora seduta in mezzo al campo
dirimpetto alla camionetta dei militari. Mi ha spiegato che la mamma di Sameer,
il ragazzo ucciso una settimana fa alla vigilia del suo matrimonio, da questa
mattina se ne sta là in mezzo, proprio nel posto dove il figlio è stato
colpito dai soldati. Non si vuole muovere di l . Un ragazzo mi ha
voluto accompagnare da lei. Passando per un sentiero che si snoda tra i fichi
d’india, l’abbiamo raggiunta seguiti da una cinquantina di bambini.
In mezzo al campo c’è un cerchio di pietre, al centro quattro mattoni di
cemento che formano una specie di aiuoletta. In mezzo una piantina decorativa
mezza appassita. Su una pietra l vicino sta la mamma di Sameer, con il vestito tradizionale tutto ricamato ed
il velo bianco in testa. Mi ha guardato sorridendo e poi ha continuato a fissare
i soldati dall’altra parte del campo. Ho passato un po’ di tempo con lei:
quando si volgeva verso di me sembrava contenta che le avessi portato quella
cinquantina di bambini attorno, quando guardava i soldati il suo sguardo era
vuoto.
Siccome era presto ho deciso di fare un giro per le case. Volevo visitare la
gente normale in un giorno “normale”. I tre ragazzi che mi avevano
accompagnato mi hanno lasciato quando sono stato raggiunto da Hasan e Sai’da,
i miei due collaboratori, che mi hanno fatto visitare qualche famiglia.
Nonostante le condizioni di vita terribili di questi giorni la gente rideva e
scherzava con noi. Sembrava che avessero voglia di vedere l in giro qualche “ashnabi”
(straniero).
Per il campo in questi giorni ci sono decine di crocchi di bambini,
accucciati a tirare biglie dentro buche o contro i muretti. Durante il Ramadan
Hasan mi ha spiegato che tutti i bambini giocano a biglie. E’ una specie di
tradizione. E per strada abbiamo anche incontrato un vecchio e una vecchia
seduti per terra davanti ad una scatola piena di palline di vetro colorate. Loro
le vendono, mi ha detto sempre Hasan, e ci siamo messi a ridere.
Al Centro comunitario polivalente ho lavorato un po’ con il Comitato del
campo, per arrangiare le ultime questioni relative alla clinica che finalmente
questa sera aprirà e quindi, prima che venisse buio, mi sono messo sulla via
del ritorno.
Per andare a Gerusalemme sono passato un’altra volta davanti agli alberi
spezzati e segati. C’era un forte odore di resina e terra. Un odore triste.
In questi giorni continua la campagna calunniosa contro il mondo adulto
palestinese, accusato di mandare a morire i propri figli. E’ una campagna che
viene portata avanti nelle maniere più sottili e, magari inconsapevolmente (?),
anche da parte di coloro che si professano difensori dei diritti umani.
B’tselem (organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani, sito web:
www.btselem.org) ad esempio ha pubblicato un rapporto sulle violazioni dei
diritti umani dall’inizio dell’Intifada al-Aqsa. I dati del rapporto
riguardano ambedue le parti in causa: israeliani e palestinesi. Il rapporto
elenca tutti i tipi di violazione da parte israeliana ed elenca quanto i
palestinesi NON hanno fatto per “fermare la violenza”. Tra le violazioni da
parte palestinese viene citato anche la supposta omissione da parte
dell’Autorità palestinese nel fermare i giovani e i bambini nella
partecipazione agli scontri. B’tselem dice: non ci sono prove che
dimostrino seri sforzi da parte dell’Autorità palestinese per scoraggiare i
bambini dal partecipare in situazioni che possano mettere a repentaglio la loro
vita.
L’approccio di B’tselem è sempre neutrale, o per lo meno così
vuole presentarsi:
per questo motivo i loro rapporti riguardano sempre sia israeliani che
palestinesi. Alcune considerazioni dunque. Innanzi tutto è necessario
riflettere sul significato dell’imparzialità di B’tselem. In questi giorni
Adi Ophir, professore di filosofia dell’Università di Tel Aviv, ha criticato
il linguaggio utilizzato nei rapporti dell’organizzazione definendolo asettico
e per questo complice dell’occupazione e del discorso politico egemonico.
Ma veniamo al concetto di responsabilità, cercando di mantenerci su un piano
meramente formale, prima ancora che politico. Come tutti sanno la Cisgiordania e
Gaza sono divise in tre differenti aree:
–
Aree A, dove i palestinesi hanno completo controllo, civile e militare.
– Aree B, dove i palestinesi
controllano civilmente e gli israeliani militarmente (e quindi dove
sostanzialmente permane uno stato di occupazione)
– Aree C, ovvero quelle aree dove i
palestinesi non hanno alcun tipo di controllo, né civile né militare, dove
dunque l’occupazione civile e militare è conclamata.
Ebbene, da questa divisione ne consegue, in forza della IV Convenzione di
Ginevra, che le forze occupanti sono responsabili per quanto accade nelle zone
da loro occupate. Come dunque è possibile considerare l’Autorità palestinese
responsabile per il fatto di non impedire ai bambini e ai ragazzi di porsi in
situazioni che minacciano la loro vita, quando Israele è formalmente
responsabile dell’esistenza di questa minaccia? Chi è che posiziona carri
armati, cecchini e pattuglie armate di M16 nei Territori palestinesi? Forse si
vogliono accusare ancora una volta i genitori palestinesi? Certo i genitori
israeliani delle colonie illegali (come il Gilo ad esempio) sono più fortunati.
Loro hanno uno Stato che si cura della loro sicurezza anche al di fuori dei suoi
confini: li arma e li protegge con i soldati occupanti! (Questa mattina il Jerusalem
Post annunciava che le colonie israeliane verranno fortificate tre volte
tanto e saranno difese da un numero aggiuntivo di soldati allenati in operazioni
di guerra, questo perché, ha spiegato l’Idf, le colonie potrebbero essere il
bersaglio di colpi di arma da fuoco). Ma per B’tselem questo dato è
irrilevante. La loro asetticità fa si’che la domanda fondamentale non venga
posta: chi è che determina le situazioni in cui la vita dei bambini palestinesi
e israeliani è messa in pericolo? Lo Stato israeliano che persiste nella sua
pratica di occupazione militare o il popolo palestinese che la subisce da 53
anni? Non è un caso dunque che questa mattina il Jerusalem Post abbia
dedicato un articolo al rapporto di B’tselem intitolandolo “B’tselem
condanna l’uso dei bambini da parte dell’Autorità palestinese”.
Per ora queste sono le
notizie.
Comunicato n. 30
Gerusalemme occupata 9/12/2000
Esattamente il 9 dicembre di tredici anni fa scoppiava la prima Intifada.
Ieri era il decimo giorno dell’ira palestinese, ovvero il decimo venerdì di preghiera
e protesta contro l’occupazione militare israeliana. Nonostante le forze
dell’ordine israeliane avessero annunciato che le misure restrittive per
l’accesso alla moschea sarebbero state revocate, ho visto con i miei occhi che
così non è stato.
Passando dalla Porta dei Leoni, quella verso il Getsemani, la strada di
accesso alla città vecchia di Gerusalemme era bloccata dalle transenne della
polizia, vigilate da un cordone di più di cento poliziotti e soldati (uomini e
donne). Ogni persona che voleva entrare doveva mostrare la carta d’identità.
I giovani venivano rimandati indietro. Procedendo più avanti si arriva di
fronte alla Porta di Erode, dove ho visto la medesima scena. Transenne, cordone
di polizia e militari e controllo di carte d’identità.. Per arrivare alla
Porta di Damasco, quella dove ormai si danno appuntamento la maggior parte dei
fedeli musulmani per pregare in mezzo alla strada, si passa davanti
all’imbocco di Salahedin Street, l’unica grossa via palestinese della città
fuori dalle mura. L i poliziotti erano ancora di più. A piedi e a cavallo. In alto c’era il
solito dirigibile e l’elicottero della polizia che tutti i venerdì , sin dalla mattina, sorvolano
Gerusalemme.
Arrivo alla Porta di Damasco e gli improvvisati posti di “blocco” per il
controllo delle carte di identità sono ancora più rigidi. Sui palazzi attorno
i militari stavano appostati, così come sulle mura e
sulla porta stessa. L stazionano anche le
pattuglie a cavallo e i militari in assetto da guerra.
Verso le undici e trenta inizia la predica dello Sheikh. In mezzo
alla strada qualcuno gli regge il megafono e le persone si accucciano sui
marciapiedi, sugli spartitraffico e sulla carreggiata di solito ingombra di taxi
e pullman. La predica dura circa venti minuti e poi improvvisamente si fa un
silenzio innaturale per quel tratto di strada, solitamente chiassoso come nessun
altro posto della città. Si sentono solo gli scatti delle centinaia di macchine
fotografiche dei giornalisti. Sembra quasi un altro rito, quello dei fotografi
voglio dire. Addirittura qualcuno chiede ai fedeli di spostarsi un po’ in modo
da assumere una posa forse più confacente alla fotografia. Vedo un fotografo
giovane che porta un bambino davanti alla riga dei fedeli, gli chiede di
inginocchiarsi davanti a tutti e poi lo ritrae con decine di scatti.
Lo Sheikh poi intona un canto che non ho mai sentito, dal momento che
qui in Palestina ai non musulmani non è concesso entrare nelle moschee al
momento della preghiera. Le quattro o cinque schiere di fedeli si inginocchiano
simultaneamente secondo il numero di inchini di rito, poi la preghiera finisce.
C’è qualche tafferuglio, ma nulla di più.
Più
tardi ho sentito dalla radio che all’interno delle mura invece gli scontri
sono stati intensi e un ragazzo di meno di quindici anni ha perso la vita sulla
Via Dolorosa.
Alla sera sono passato un’altra volta dalle mura, proprio al momento in
cui i fedeli musulmani devono andare a pregare dopo il pasto serale del Ramadan.
Alle sei non c’era un poliziotto o un militare. Le entrate erano tutte sgombre
e i fedeli di tutte le età entravano senza alcun tipo di restrizione. Le
ragazze giovani coperte con i tradizionali abiti bianchi immacolati e i ragazzi
con il tappetino di velluto da preghiera sulla spalla. Tutto avveniva nella più
assoluta calma e tranquillità, così come l’uscita dei fedeli dalla moschea un’ora dopo non ha comportato
alcuno scontro o disordine. Mi è venuto spontaneo pensare che dunque lo sfoggio
di forza e le misure restrittive imposte dagli israeliani alla mattina fossero
solo un’intenzionale provocazione e umiliazione per quegli stessi fedeli che
poche ore più tardi sfilavano silenziosi e pacifici, senza rappresentare alcuna
minaccia alla sicurezza di Gerusalemme e dei suoi cittadini.
Ma alla relativa calma di Gerusalemme non ha fatto riscontro la situazione
nei territori della Cisgiordania. A Jenin un carro armato israeliano ha sparato
un colpo di mortaio contro un posto di polizia palestinese, causando la morte di
tre poliziotti e due civili palestinesi. Ho saputo più tardi dalla televisione
palestinese e da alcuni amici che ad Hebron addirittura un soldato israeliano ha
inseguito un bambino di tredici anni fino nell’area sotto controllo
palestinese, l’ha bloccato e l’ha ucciso a sangue freddo. Hebron, dove il
coprifuoco era stato sospeso nelle giornate di mercoledì e giovedì , è dunque stata posta un’altra volta sotto coprifuoco. I coloni
israeliani hanno tagliato i fili dei telefoni di tutte le case palestinesi nelle
vicinanze della moschea Ibrahim. Per fortuna sono riuscito a contattare Maesa
sul suo cellulare. Mi ha detto che il coprifuoco è ancora più rigido dei
giorni precedenti, con i soldati a piedi e sulle camionette che pattugliano
costantemente le strade.
L’uccisione di ieri dei tre coloni israeliani ha determinato oggi la
decisione dell’Idf di un definitivo blocco delle aree palestinesi. Nei pressi
di Hebron questa mattina i coloni hanno occupato sei case palestinesi,
picchiando i legittimi proprietari e sparando; il tutto è avvenuto sotto la
supervisione dell’esercito israeliano. Un bambino di tredici anni è stato
ferito gravemente mentre giocava fuori di casa. Fino ad ora i poliziotti
israeliani non li hanno sgombrati, benché questo fosse l’impegno annunciato
in giornata.
Un’ora fa Barak ha annunciato di dimettersi da Primo ministro, anticipando
in questa maniera le elezioni alla metà del febbraio 2001 e impedendo a B.
Netanyahu di candidarsi a futuro Primo ministro, in base alla regola secondo la
quale in caso di elezioni anticipate chi non è membro della Knesset non puòò candidarsi all’elezione per tale carica.
Forse lo stratega dell’invasione del Libano, nonché responsabile del
massacro di Sabra e Shatila dell’82, sarà il candidato della destra
israeliana per il posto di colui che dovrebbe concludere la pace con i
palestinesi.1
Per
ora queste sono le notizie.
Comunicato n. 32
Gerusalemme occupata 13/12/2000
Oggi sembra che l’esercito israeliano abbia attuato quello che era stato
annunciato qualche giorno fa: il divieto assoluto per i mezzi privati
palestinesi di circolare sulle strade della Cisgiordania.
Andando
a Fawwar, non appena imboccata la strada che passa per i tunnel tra Beit Jalla e
Gilo, le macchine hanno cominciato notevolmente a diminuire di numero. Passato
il check point vicino a El Khader solo mezzi militari o autobus dei coloni. In
corrispondenza dell’entrata a sud di Betlemme, ormai bloccata da più di un
mese, i taxi collettivi non erano più fermi ad aspettare che le persone
scavalcassero i cumuli di terra per fare la staffetta fino ai successivi
blocchi. Di traverso in mezzo alla strada un pullmino-taxi aveva le quattro
ruote sgonfie. Sulla collina vicina un carro armato israeliano tiene sotto tiro
la zona sud di Betlemme.
L’esercito
israeliano ha rinforzato maggiormente i blocchi delle strade. Là dove fino a
qualche giorno fa avevo visto solo blocchi di cemento, oggi c’erano nuovi
cumuli di terra (forse perché ogni tanto i palestinesi si azzardano a spostare
i blocchi di cemento con i trattori). Tutte le strade sterrate laterali che sono
state aperte dai palestinesi nei giorni scorsi per aggirare i blocchi sono state
sigillate un’altra volta.
In una delle poche ancora aperte ho visto i soldati bloccare un pulmino
palestinese, far scendere il conducente e “pugnalare” più volte le quattro
ruote.
Uscendo da al-Fawwar, verso le 16:00, l’auto di Ziad che mi accompagnava
fino ai blocchi è stata fermata da un gruppo di ragazzi del campo. I soldati
stanno sparando, ci hanno detto. In effetti i pulmini che prima si trovavano
proprio a ridosso dei cumuli di terra, ora erano tutti assiepati cinquecento
metri prima, vicino al Centro giovani.
Un gruppo di ragazzi, quelli che nei giorni passati mi avevano accompagnato
dalla mamma di Sameer, mi ha indicato due auto ferme in mezzo alla strada
bloccata. Siccome io dovevo passare di l per uscire dal campo loro hanno voluto accompagnarmi, tenendomi per mano. Mi
hanno raccontato a gesti che i soldati poco prima avevano oltrepassato le
barriere di terra che bloccano la strada e se l’erano presa con quelle due
auto. Anche a queste erano state bucate le quattro ruote e i finestrini di una
erano stati distrutti a calci. I ragazzi sono tornati indietro e io ho
scavalcato il cumulo di terra, proprio davanti ai soldati che come al solito
stavano ridendo.
Sulla via del ritorno, in prossimità dell’entrata a sud est di Hebron, ho
visto un mezzo cingolato corazzato dell’esercito israeliano che teneva sotto
il tiro di una mitragliatrice un gruppetto di palestinesi ai quali alcuni
soldati stavano controllando i documenti.
Avrei
voluto passare per Hebron a visitare Maesa, ma a causa dei blocchi non ho
potuto. L’ho chiamata al cellulare e mi ha raccontato che in città la
tensione durante la giornata è stata alta. Fin dalla tarda mattinata sono
iniziate le sparatorie nella città vecchia. Mi ha raccontato che un leader
militare di Hamas è stato assassinato a sangue freddo dai soldati israeliani
mentre si trovava sull’entrata del suo negozio. I fatti di questi giorni fanno
pensare che questo nuovo omicidio rientri nella strategia dell’esercito
israeliano inaugurata il 9/11/2000 con l’omicidio da un elicottero da guerra
dell’Idf di Hussein Abayat, leader di al-Fatah. L’esercito israeliano
individua i leader politico-militari delle fazioni palestinesi, soprattutto
al-Fatah e Hamas, e li assassina a sangue freddo. Un fatto simile è accaduto
anche ieri ad al-Khader, dove Abu Swayeh, 27 anni, leader regionale di al-Fatah,
è stato ucciso davanti alla propria casa. Alcuni testimoni oculari hanno
dichiarato alla stampa di aver visto i soldati israeliani sparargli da una
strada sotto il loro controllo militare, crivellandolo con 17 colpi. E ancora il
giorno prima un ragazzo di 23 anni che stava entrando in una cartoleria è stato
raggiunto da 19 colpi di arma da fuoco sparati da militari israeliani. La
“giustificazione” israeliana è stata questa: si trattava di un esponente
della Jihad. Questa per loro sarebbe una buona ragione per uccidere una persona
senza che si trovi in nessuna situazione che possa compromettere la sicurezza di
alcuno!
Prima di rientrare a Gerusalemme ho incontrato Carlotta, la mia compagna, e
insieme siamo passati a trovare i nostri amici dell’Inad Theatre. Erano
stupiti: pare che i mezzi di informazione si siano stancati del bombardamento di
Beit Jalla, che invece continua quasi ogni notte. Ci hanno raccontato che
l’altro ieri sono state colpite altre case civili in una zona fino ad oggi non
ancora raggiunta dai colpi di mortaio israeliani. Anche la chiesa di San Nicola,
la più antica di Beit Jalla, è stata colpita e ha subito gravi danni
all’interno. E così ora loro non provano più nel teatro, è diventato troppo pericoloso.
L’edificio è stato colpito altre volte nei giorni passati e a vederlo oggi
non sembra più lo stesso di solo qualche settimana fa, quando già ci parevano
incredibili i fori delle pallottole nelle porte e sull’insegna. Ormai la zona
dove si trova il teatro è molto desolata. Non c’è casa che non sia stata
danneggiata e intorno sono molte le auto bruciate e distrutte dai carri armati
israeliani. Giù dai tetti sono caduti molti serbatoi dell’acqua, crivellati
dai colpi provenienti dall’insediamento del Gilo. La compagnia dell’Inad
dunque da questa settimana prova in un monastero e sta preparando uno spettacolo
che verrà messo in scena su un camion che girerà per la Cisgiordania nei
giorni di Natale, che quest’anno casualmente coincidono con la festa
dell’Eid al-Fitr (la festa di fine Ramadan).
Prima di andarcene Marina e gli altri ci hanno accompagnato a visitare la
casa di un’insegnante di una scuola nella quale nei giorni scorsi Carlotta
aveva lavorato. Qualcuno aveva suggerito di mettere dei sacchi di sabbia alle
finestre, per proteggersi. I sacchi sono stati raggiunti dai colpi di
mitragliatrice e la sabbia era tutta attorno, sui mobili, per terra, ovunque.
Verso le sei abbiamo visto le persone uscire dalle case l intorno con trapunte, sacchi a pelo, coperte e
materassi. Ci hanno spiegato che accade tutte le sere: vanno a dormire in zone
del paese più sicure. Ci hanno consigliato di andare via al più presto.
E pensare che la Palestina in questi giorni potrebbe essere così
bella. Le vigne
arancioni e gialle spiccano contro i cieli burrascosi e veloci di nubi nere,
mentre la terra è rossa in alcuni tratti, verde di erba nuova in altri e il
deserto lontano sembra un miraggio.
Per ora queste sono le notizie.
Comunicato n. 33
Gerusalemme occupata 18/12/2000
Venerdì , l’undicesimo giorno dell’ira palestinese, sono stati uccisi
dall’esercito israeliano cinque palestinesi, sabato quattro, oggi ancora non
so.
Non riesco più a capire a che serva fare la conta dei morti. Forse
semplicemente a tenere a mente che, anche se non si tratta di una guerra, ci
sono dei palestinesi che alla mattina escono di casa senza sapere se torneranno
alla sera. Forse val più la pena raccontare quello che ho visto e sentito in
questi due giorni.
Ieri ad al-Fawwar sono stato invitato a un iftaar, il pranzo
tradizionale del periodo di Ramadan. A Gerusalemme, ancor prima di partire, ho
incontrato un giornalista italiano. Nei giorni scorsi mi aveva chiesto più
volte di informarlo quando fossi sceso al campo, per venire insieme a me. Così ieri ho
pensato che potesse essere una buona occasione per accompagnarmi. Ha rifiutato
la mia proposta. “C’è ciccia al fuoco - ha detto - sembra che i palestinesi
e gli israeliani siano arrivati alla pace”. Ho subito dubitato: la stessa cosa
in questi giorni è stata ripetuta troppe volte. Ma lui sembrava molto convinto.
Mi ha dato anche dei dettagli: la sovranità sulla Spianata delle Moschee in
cambio dei profughi, il 93% della Cisgiordania in cambio di alcuni insediamenti,
l’insediamento di Hebron sgombrato e così via.
Prima di partire per al-Fawwar dunque sono salito un’altra volta in
ufficio per vedere se anche sui siti internet di aggiornamento veniva riportata
la stessa notizia. Non proprio negli stessi termini, ma qualcosa di simile
appariva un po’ ovunque.
Mi sono avviato ad al-Fawwar con questa convinzione, come se fosse finito un
periodo, come se iniziasse una nuova fase. Appena passato l’insediamento del
Gilo mi è parso che in giro ci fossero più auto, pure quelle con la targa
verde, palestinesi. Subito prima dell’imbocco della strada dei tunnel che
passa per gli insediamenti di Gush Etzion ho visto gli operai palestinesi in
attesa dei caporali israeliani: era circa un mese che non li notavo più l sulla strada
a elemosinare una giornata di lavoro negli insediamenti israeliani.
Per un tratto di strada ho visto tutto con questa idea: forse hanno fatto un
accordo di pace. Per questo motivo ho creduto che le misure di sicurezza fossero
un po’ più blande su quella strada fino al giorno prima pattugliata solo da
camionette dell’esercito e della polizia israeliana. In prossimità di
Betlemme i segni di quella che mi illudevo fosse pace hanno cominciato a
diminuire. Ho incontrato il solito carro armato, i blocchi delle strade erano
ancora tutti l , sia a Betlemme che ad Haloul, anche se è vero che di macchine in giro ce
n’erano di più. In corrispondenza del bivio per Sair l’esercito israeliano
ha rinforzato i blocchi di cemento con cumuli di terra. Più procedo verso sud e
più la situazione sembra la medesima dei giorni prima: tutte le strade di
accesso ai villaggi palestinesi chiuse e le camionette militari israeliane a
pattugliare. Nei giorni passati fermavano qualsiasi maschio palestinese solo
alla guida. Pare che fosse stato diramato un ordine militare secondo il quale
sarebbe stato obbligatorio per qualsiasi maschio palestinese essere in macchina
almeno con la moglie e un figlio.
Passata Kyriat Arba, ho avuto la conferma che nulla era cambiato. Mi ha
chiamato sul cellulare Maesa, la mia amica ed ex collaboratrice che abita nella
parte di Hebron sotto coprifuoco. Il coprifuoco è ancora in vigore, mi ha
detto, e le linee telefoniche danneggiate dai coloni nei giorni scorsi non sono
ancora state ripristinate. Per fortuna Maesa ha un cellulare che la tiene in
contatto con il mondo fuori di Hebron. Nella parte vecchia di Hebron ormai sono
78 i giorni di coprifuoco pressoché consecutivo.
Arrivato ad al-Fawwar ho dovuto lasciare l’auto ancora una volta fuori del
campo perché i blocchi di cemento e le trincee di terra che ostruiscono le vie
di accesso laterali sono sempre l a sigillare l’entrata.
Nonostante guidare per i trenta chilometri o più che separano Hebron da
Gerusalemme mi avesse ormai convinto che il giornalista mi aveva raccontato la
solita sciocchezza a cui lui forse doveva credere per lavoro, appena arrivato al
Centro comunitario polivalente ho voluto chiedere il parere delle persone con
cui lavoro. Hasan mi ha detto di aver sentito dalla televisione di questi
accordi segreti, ma di non credere a nulla: “Se anche così fosse, sono loro
che si sono messi d’accordo, noi d’accordo non siamo”. E con loro si
riferiva a Barak e Arafat. Il noi significava noi profughi palestinesi. Ha
aggiunto: “Come potrebbero i profughi accettare di non tornare mai più alle
loro case, anche fosse in cambio della Moschea di Gerusalemme?”.
L’illusione
che mi ero fatta piano piano si stava disfacendo.
Poco
dopo arriva Tariq. Anche lui ha sentito degli accordi segreti e quando gli
chiedo che ne pensa alza le sopracciglia. Ramzi, che arriva ancora dopo, mi
dice: forse hanno fatto la pace, ma tra tre mesi sarà di nuovo Intifada.
Forse sono io, così
come il giornalista che ho incontrato a Gerusalemme, che ho bisogno di
pensare che ci sia un accordo di pace segreto, che dia una svolta a questa
situazione di ingiustizia. Sono stanco e vorrei che questa situazione finisse,
anche se gli accordi segreti di solito non promettono mai nulla di buono. Loro,
i palestinesi, sono abituati da troppo tempo a sentir parlare di pace senza
vedere nessun reale risultato. Loro sanno, ad esempio, che tutti i coloni hanno
due case: una negli insediamenti e una nei paesi o nelle città di Israele.
Tariq mi dice di avere un amico che fa l’operaio che ne ha costruite a decine
di queste doppie case. Che pace si puòò sperare con queste persone che non vogliono rischiare
nulla per ottenere la pace?
Dopo due o tre ore di lavoro incomincia l’attesa dell’Iftaar. Bisogna
aspettare che il muezzin annunci dalla moschea che è possibile mangiare. Stiamo
un po’ a chiacchierare nel centro e ovviamente il discorso cade di nuovo
sull’Intifada. Hasan mi dice che questa Intifada ha bloccato tutti i suoi
progetti: stava per iniziare a costruire la sua nuova casa nella terra che suo
padre gli ha acquistato sulla collina a ridosso del campo. Ora non puòò più.. Gli chiedo come mai voglia costruirsi una casa nuova, tra l’altro
proprio poco lontano dal campo. Mi dice che tutti i suoi parenti, amici, insomma
tutti quelli del campo passano per la medesima trafila: mettono su famiglia,
dapprima con i genitori e i fratelli, la famiglia si allarga e piano piano si
decide di spostarsi l vicino e costruire
una casa nuova. Gli chiedo se questo non voglia dire implicitamente che i
profughi rinunciano al loro diritto al ritorno. Salta su Ramzi e mi dice che se
anche lui avesse una villa nei dintorni la lascerebbe il giorno dopo aver finito
di costruirla pur di andare a vivere in una grotta nel suo paese di origine.
Ramzi viene da Beit Jibrin. Si ritiene fortunato perché l per il momento gli israeliani non hanno ancora costruito alcun insediamento
o paese. “Ci mettono le mucche – mi dice – dove prima abitava mio
padre”, e lo dice quasi offeso che la terra dei suoi genitori ora sia usata
come pascolo. Hasan aggiunge: “Pur di tornare al paese dei miei genitori
andrei ad abitare in una tenda”. Mi rendo conto di aver fatto una domanda
stupida e cerco di cambiare discorso.
Hasan vuole parlare di libri, mi chiede se ho mai letto la Divina
commedia e se so delle influenze della filosofia islamica su Dante. Lui ne
ha letti di libri in prigione, quando, durante la precedente Intifada, gli
israeliani lo hanno arrestato a varie riprese per un periodo complessivo di
almeno cinque anni. Mi dice che quei cinque anni gli sono costati dieci anni di
vita. Lo arrestavano a metà dei semestri accademici e così sei mesi di
prigione equivalevano ad un anno di studio perso. Pero’ lui in prigione il
tempo lo passava a leggere; solo ora scopro di quante cose potremmo parlare a
cui prima non pensavo. Abbiamo letto molti libri in comune.
Alle cinque meno un quarto ci avviamo a casa per il pranzo del Ramadan. A
casa una moltitudine di bambini: due di Hasan, tre del fratello più grande, tre
di un altro fratello e molti altri che non si capisce di chi siano. In quattro
stanze vivono almeno tre famiglie, nel senso che noi attribuiamo al termine,
anche se per loro la famiglia è unica, fratelli, genitori e figli tutti
insieme. Mangiano, chiacchierano, dormono tutti assieme, costretti nello spazio
angusto di una casa da profughi.
Ancora una volta finiamo a parlare dell’Intifada. Hasan non si riesce a
capacitare del perché gli israeliani continuino con la loro occupazione. Gli
sembra che l’unica conclusione a cui potrebbero arrivare gli israeliani sia
l’uso della bomba atomica. Ovviamente esagera e lo dice con sarcasmo. Mi dice
che gli israeliani, così come gli americani, gli sembrano dei cow-boys “tecnologici”. “Ora –
continua – ci stanno assediando senza motivo, come fossimo degli indiani in un
vecchio film in bianco e nero. E’ vero, non ci sono più scontri, non ci sono
più motivi per la chiusura totale del campo, eppure loro continuano a
imprigionarci qui. Nemmeno nei momenti più duri della precedente Intifada era
mai accaduta una cosa simile”. Mi racconta che quando c’erano stati degli
attacchi terroristici in Israele e i responsabili erano stati identificati in
due abitanti di al-Fawwar non c’era stata una reazione simile a quella di
questi giorni. Dopo le prime due bombe non era stato imposto nemmeno il
coprifuoco. Dopo il terzo attentato a Tel Aviv gli israeliani erano venuti al
campo, avevano imposto una settimana di coprifuoco e fatto saltare per aria le
case dei “terroristi”. Ma Hasan è convinto che in quel caso sia stata
propaganda. Non potevano non dare un po’ di soddisfazione all’opinione
pubblica israeliana. “Ma ora che ragione hanno per chiuderci qui dentro”, mi
domanda un’altra volta.
Dopo cena accendono la Tv, al-Jazira, la Tv di informazione mediorientale più
popolare in questi giorni tra i palestinesi. Appare Saeb Erekat che parla degli
accordi segreti; dice che non ce ne sono. I tre fratelli di Hasan in coro dicono
una parola che non capisco. “Bugiardo”, mi traduce Hasan. Poi viene la
notizia della strage in Algeria e Hasan mi dice quella si’che è una vera
tragedia, non la nostra. Non capisco se stia scherzando o meno e così glielo chiedo. Lui
mi dice che certo non vuole elogiare l’occupazione militare israeliana o che
altro, ma sicuramente sente di avere più garanzie qui, nella Palestina
occupata, che in molti altri regimi dittatoriali arabi. Alla fin fine se ti
arrestano c’è sempre una sorta di sistema di garanzie. In Siria o in
Giordania puoi scomparire senza che nessuno se ne accorga. Non riesco a credere
che Hasan riesca ad avere questo equilibrio e questa specie di serenità
d’animo e di giudizio, dopo essere stato in detenzione amministrativa (cioè
senza processo) per un periodo complessivo di cinque anni.
Verso le otto di sera decidiamo di uscire. Per le strade del campo è pieno
di gente. Non si respira proprio un’atmosfera di festa, ma qualcosa di simile.
Del resto, anche se sembra di essere in un tranquillo paese di campagna, anche
se molto povero, non mi scordo che sono in un campo profughi. Al Centro
comunitario polivalente ci sono un po’ tutti quelli con cui lavoro. Stanno l ad aspettare
che verso le dieci la clinica chiuda, si chiacchiera, qualcuno gioca a scacchi,
qualcuno fa il solitario con il computer dell’ufficio. Quando arriva il
dottore con Saeda, la nostra responsabile della clinica ed infermiera, c’è
uno scambiarsi di complimenti. Questa sera abbiamo fatto il record di pazienti,
24, pure dai villaggi vicini. Il dottore, stanco morto, è contento. Siccome ha
studiato in Francia e sa che Carlotta ha insegnato l , insiste nel volermi parlare in francese. Brindiamo a Coca Cola e tè fin
verso le undici.
Sulla strada del ritorno verso casa di Hasan la gente che è ancora in giro
ci ferma. In un garage sporco e buio il comitato degli operai ci vuole offrire
il centesimo tè e così accettiamo.
Finalmente verso mezzanotte siamo a casa. Poco prima di arrivare pero’
passiamo davanti ad una bassa palazzina che ha due triangolini di terra
coltivati a giardino ai lati. Uno spazio risicato ma affollato di piante. Un
pino, un ficus benjamin, due banani e molte altre piante strane. Hasan mi spiega
che il proprietario di quella casa lavora come giardiniere a Beer Sheva e ha
voluto dimostrare a tutti quello che sa fare. Peccato che abbia deciso di
avvolgere tutte le piante con del filo spinato e recintare i due spicchi di
terra con sbarre di ferro e cavi di acciaio.
A casa ci stendiamo nel salotto perché le altre camere sono occupate dai
bambini. Hasan ha ancora voglia di parlare. Mi dice che gli ricorda gli anni
dell’Università, quando con i suoi compagni di stanza stava ore e ore a
discutere di politica. Io temo di non farcela ad alzarmi per la colazione delle
quattro, ma lui mi rassicura che non è il caso. Ci alzeremo quando ne avremo
voglia. Il Ramadan, mi spiega, è solo una questione di tradizione, quasi di
folclore, e ognuno a casa sua fa un po’ quel che vuole. O almeno lui la pensa
così .
Questa mattina, dopo aver lavorato ancora un po’, sono ripartito per
rientrare a Gerusalemme. Ai blocchi sulla strada principale per uscire dal campo
ho visto un fuggi fuggi generale e ho pensato che fosse in corso qualche
scontro. Invece erano due soldati che hanno oltrepassato le barriere e senza
motivo hanno cominciato a puntare i fucili che sparano le pallottole di gomma
contro i tassisti. Li ho oltrepassati mentre urlavano a tutti di andarsene. Poi
un soldato ha sparato un colpo, all’indirizzo di nessuno, così , solo per
spaventare la gente; si è voltato e si è messo a ridere.
Per ora queste sono le notizie.