Comunicati febbraio-marzo 2001

 

 

Comunicato n. 39

Gerusalemme occupata 2/2/2001

Purtroppo questi ultimi giorni di gennaio 2001 gli impegni di lavoro mi hanno impedito di scrivere della situazione qui in Palestina. Riprendo oggi senza nemmeno provare a fare una sintesi precisa di quanto accaduto.

In effetti in questi giorni sono accadute molte cose che pero’ nei giornali italiani e in generale nei media internazionali non hanno avuto spazio sulle prime pagine come nei mesi scorsi.

Persone ne sono morte ancora, da tutte e due le parti. Non sono in grado di darne un conto preciso. Solo ieri ad esempio tre palestinesi e due coloni israeliani. Ma, come già ho scritto, l’intensità degli scontri di strada è diminuita di molto. Si contano solo pochissimi casi di confronto tra esercito israeliano e palestinesi, che comunque non possono essere paragonati agli scontri dei mesi passati. Si tratta per lo più di colpi di arma da fuoco che spesso non coinvolgono più di tre o quattro persone da una parte e una o due pattuglie dell’esercito israeliano dall’altra. Solo a Gaza si sono riscontrati confronti più seri, ma che ancora una volta non coinvolgono gruppi troppo estesi di palestinesi.

La mobilità è parzialmente migliorata, anche se si rimane soggetti all’imprevedibilità delle decisioni dell’esercito israeliano. Ieri per esempio è stata bloccata la strada che dal campo profughi di Arroub porta ad Hebron, sulla quale era stato ucciso un colono israeliano. Pare che domani sarà bloccata nuovamente per dar modo ad altri coloni di manifestare.

Ma a fronte di questa sorta di tranquillità che ha portato la situazione a un’illusoria normalità simile a quella di prima di settembre 2000, rimangono l’oppressione e la paura della popolazione palestinese. Per le persone normali, quelle che vanno a lavorare, che escono la mattina e rientrano la sera è come se ci fosse ancora la chiusura. La violenza e l’arbitrarietà dell’esercito israeliano dei mesi scorsi hanno determinato una sorta di chiusura psicologica da parte delle persone comuni. Ad esempio ora ad al-Fawwar si puòò entrare ed uscire abbastanza liberamente, non c’è nemmeno più la camionetta dell’esercito israeliano a presidiare l’entrata, eppure nei giorni scorsi quando ho chiesto ad Hasan di andare ad Hebron a fare una commissione per mio conto, lui mi ha risposto che in questi giorni è difficile muoversi e che preferiva non uscire dal campo se proprio non fosse necessario.

e’ vero in effetti che la città di Hebron rappresenta un caso a parte rispetto ad altre aree. Due giorni fa ad esempio è stato reimposto il coprifuoco e i 30.000 palestinesi ai quali dal 10 gennaio scorso era stato “concesso” di muoversi a piedi per la parte sotto controllo militare israeliano, si sono visti confinati un’altra volta in casa, come punizione collettiva per l’attacco di qualcuno a una pattuglia israeliana.

In questi giorni si sono svolti i colloqui di Taba. Né Barak né Arafat hanno detto pubblicamente nulla su quello che si è discusso né su ciò che si è concluso. Sono circolate parecchie voci di un accordo quasi fatto, ma quando i colloqui si sono interrotti è risultato abbastanza chiaro che si trattava di una mossa pre-elettorale israeliana. La dichiarazione congiunta ha semplicemente affermato una volontà di dialogo e un rinnovato impegno nella trattativa, ma si è rimandato tutto al dopo elezioni israeliano. Si è avvertito un tono quasi di minaccia nelle dichiarazioni congiunte, come se i negoziatori volessero dire: se non sarà Barak a vincere non se ne farà nulla. E in effetti Sharon ha dichiarato che qualsiasi accordo raggiunto dall’attuale Primo ministro prima del 6/2/2001, in caso di una sua vittoria alle elezioni non sarà onorato.

Ad ogni modo la campagna elettorale israeliana è partita molto in sordina. Si vedono pochissimi manifesti elettorali, se non altro rispetto alla gran pubblicità che si fece per le elezioni del 1999; sembra quasi che gli israeliani debbano scegliere tra due astrazioni e non votare delle persone in carne ed ossa. I leader arabo-israeliani sostengono il boicottaggio del voto. I sondaggi danno quasi per certa la vittoria di Sharon, il leader della destra. Rispetto alla supposta candidatura in extremis di Peres ieri è scaduto il termine perché fosse ammissibile presentarla. Dunque si è interrotta la sequela di quesiti e dubbi sul candidato dei laburisti israeliani che da oggi non potrà che essere Barak. Qualsiasi palestinese con il quale abbia parlato in questi giorni mi ha detto di preferire che vinca Sharon, di modo che non solo agli stessi palestinesi, ma al mondo intero, sia chiara la vera politica israeliana e da chi è composta la maggioranza degli israeliani. Nessuno comunque vede una reale differenza tra Sharon e Barak, come riporta anche un sondaggio molto interessante del Jmcc, intitolato Jmcc Pubblic Opinion Poll n. 39 Part One - On Palestinian Attitudes Towards Politics including the Current Intifada.1 Secondo la ricerca del Jmcc oggi più dell’80% dei palestinesi non vede una reale differenza tra Likud e Laburisti, mentre solo un anno fa questa percentuale era pari solo al 50%.

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 40

Gerusalemme occupata 9/2/2001

Ha vinto Sharon. Non è una notizia nuova né inaspettata. E’ finita dunque la lunga attesa dei risultati elettorali, che nei giorni pre-elettorali aveva determinato nuovamente la rigida chiusura totale dei territori palestinesi. Già tre giorni prima delle elezioni infatti l’esercito israeliano aveva chiuso tutte le strade di accesso alle aree palestinesi. E’ stato utilizzato il solito sistema dei blocchi di cemento, pietre e materiale di recupero posto a impedire fisicamente il transito di qualsiasi mezzo. A Ramallah, il giorno delle elezioni israeliane è stato proclamato “giorno d’ira” e negli scontri con l’esercito israeliano 40 palestinesi sono stati feriti. Hebron è stata posta ancora una volta sotto coprifuoco.

Due giorni fa Maesa mi ha raccontato per telefono che il giorno più duro è stato quello delle elezioni quando verso mezzogiorno sono cominciate le sparatorie che sono continuate per diverse ore del pomeriggio. Il risultato è stato l’imposizione di un coprifuoco ancor più rigido. Durante la notte tra il 6 e il 7 febbraio, non appena sono stati annunciati i risultati elettorali definitivi, i coloni dell’insediamento di Beit Hadassa, hanno cominciato a cantare con i megafoni e festeggiare ballando per le strade di Hebron controllate dall’esercito israeliano.

Ieri Maesa ha approfittato di alcune ore di libertà dal coprifuoco per venire a Gerusalemme, dove questa mattina deve fare un colloquio di lavoro. Per paura di una chiusura ancor più rigida oggi, giorno della preghiera musulmana, ha preferito dormire a casa nostra e quindi essere certa di poter arrivare al suo appuntamento.

Dopo cena abbiamo parlato della situazione a Hebron e l’ho trovata davvero stanca di questa continua prigione che è imposta da più di quattro mesi a chi abita nella zona H2 di Hebron. Mi ha chiesto se ho dei libri nuovi da prestarle: quelli che aveva in casa li ha finiti tutti in questi mesi di forzata vita domestica. Maesa sa sdrammatizzare e ridere anche delle situazioni più difficili, non è una persona che ami lamentarsi. Anzi, detesta le persone che si lamentano e la tendenza palestinese, come dice lei, di sedersi e aspettare che la soluzione dei problemi arrivi da sola o dall’esterno. Di ragioni per lamentarsi ce ne sono, le ho detto, e i palestinesi finalmente stanno iniziando delle forme di protesta diverse dal semplice lanciare i sassi e farsi ammazzare per strada. Le ho chiesto cosa ne pensasse della campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani lanciata qualche giorno fa dal Comitato popolare dell’Intifada. Lei si è messa a ridere e mi ha detto che quando la campagna è stata lanciata per televisione da Marwan Barghouti, la telecamera ha inquadrato sul suo tavolo un cartoccio di succo di frutta israeliano. E che dire poi delle congratulazioni di Arafat a Sharon per la sua vittoria elettorale? Ma, perché appunto Maesa non ama lamentarsi, ha aggiunto che secondo lei la protesta palestinese dovrebbe essere rivolta non solo contro l’occupazione israeliana, ma anche contro l’Autorità palestinese stessa. Ci siamo quindi arenati a considerare quanto sarebbe difficile per i palestinesi “combattere” su un fronte interno ed uno esterno.

La sua scelta di passare la notte da noi è stata provvidenziale, soprattutto dopo la bomba che è esplosa ieri pomeriggio nel quartiere ortodosso di Gerusalemme di Mea Sharim. Già subito dopo lo scoppio, a qualche centinaio di metri da dove mi trovavo, la polizia fermava tutti i palestinesi, li perquisiva e li sottoponeva a tutte le pratiche di sicurezza di rito. Fin da subito è risultato chiaro che passare i check point dell’esercito israeliano sarebbe stato difficile. Mohammed, un amico palestinese che ho incontrato per caso, mi ha chiesto di accompagnarlo a casa, ad Al Ram. Aveva paura che i soldati israeliani gli facessero problemi al posto di blocco che divide Gerusalemme dalla zona palestinese a nord, verso Ramallah. Non ha il permesso per entrare a Gerusalemme, anche se lavora con una Ong palestinese di Gerusalemme est, legata all’Orient House. Mohammed con uno straniero vicino si sentiva più sicuro e così siamo partiti. Al check point una lunghissima coda di auto ferme ci ha convinto a prendere una strada secondaria che aggira il posto di blocco e porta direttamente ad Al Ram. Siamo arrivati senza troppi problemi, incolonnati con decine di altre auto che avevano deciso di non rischiare di passare per il posto di blocco militare. In macchina ho discusso dei risultati elettorali anche con Mohammmed. Nonostante tutto lui si dice ottimista per la vittoria di Sharon. La pace si fa con la destra israeliana e non con la sinistra. Se un accordo di pace viene proposto dai falchi, le colombe non potranno opporsi, cosa che invece non puòò accadere se avviene il contrario. Al ritorno anche al check point di Ras al-Amud, prima di casa mia, c’erano lunghe code dovute alle misure di sicurezza.

Questa mattina sul quotidiano israeliano Haaretz era riportata una dichiarazione del capo della polizia di Gerusalemme secondo il quale il recente sciopero dei dipendenti delle amministrazioni locali pone gravi pericoli per la sicurezza: nella spazzatura che non viene raccolta da giorni possono essere nascoste delle bombe. L’Histradut, il sindacato israeliano unico di sinistra che diversi giorni fa ha proclamato uno sciopero generale (per ottenere aumenti salariali), ha deciso questa mattina di revocare l’astensione dal lavoro dei dipendenti delle amministrazioni locali per la disponibilità al dialogo offerta dal nuovo Primo ministro Sharon.

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 41/1

Gerusalemme occupata 15/2/2001

Ieri finalmente sono riuscito a parlare con un altro pacifista israeliano, Uri Avnery.

Avrei preferito incontrarlo sulla spiaggia di Tel Aviv, e discutere passeggiando nel caldo primaverile di questi giorni. E invece dopo esserci rincorsi per telefono per almeno tre giorni non mi è restato altro che navigare sul suo sito internet, stamparmi la sua foto da pioniere incanutito e fargli l’ennesima telefonata per discutere dell’attuale crisi.

A ridosso delle elezioni Avnery ha molto da fare: sta preparando l’opposizione del Blocco della pace (Gush Shalom) al nuovo governo Sharon. La sua è un’opposizione instancabile, fin dai primi anni della creazione dello Stato di Israele propugna l’idea di due stati per due popoli. Per 40 anni ha diretto un giornale di opposizione (Haolam hazeh). Ha fondato un partito (chiamato con lo stesso nome del suo giornale che significa Movimento della nuova forza). E’ stato membro della Knesset, sempre all’opposizione dal 1965 al 1981 quando ha ceduto il posto ad un collega arabo. Ha incontrato Yasser Arafat durante l’assedio di Beirut del 1982, primo israeliano nella storia. Dopo aver inizialmente appoggiato il processo di pace intrapreso da Rabin, ne è stato un critico propositivo, soprattutto grazie alla militanza all’interno del Blocco della pace, quel movimento extraparlamentare chiamato Gush Shalom che lui stesso ha fondato nell’inverno del 1992, durante i 45 giorni trascorsi in una tenda piantata davanti all’abitazione del Primo ministro israeliano per protestare contro l’espulsione di 415 palestinesi.

Gli chiedo subito che pensa delle recenti elezioni. Una catastrofe, risponde laconico. Aspetto che aggiunga qualcosa, ma dall’altra parte della cornetta silenzio. Allora chiedo la sua opinione sul voto, o meglio sul non-voto arabo. Mi dice che è stata una dimostrazione di forza: almeno il 20% della popolazione non ha votato o ha votato scheda bianca per protesta. Chiunque governi dovrà tenere di conto di ciò che pensa almeno un quinto della popolazione. Del resto, aggiunge, Sharon è stato eletto solo da un terzo degli aventi diritto. Se gli arabi israeliani avessero trovato il modo di appianare le loro divergenze interne, Avnery pensa che sarebbe stato meglio. Reputa deplorevole il fatto che non abbiano saputo proporre un loro candidato alternativo. Non votare è sempre un segno di debolezza, ma in definitiva è stata l’alternativa migliore. Astenersi o votare scheda bianca era l’unica risposta legittima una volta constatata l’impossibilità di trovare un candidato che rappresentasse l’elettorato arabo, quello del Meretz e il Movimento della pace. Anche lui ha esitato fino all’ultimo. Mi dice, poi ho scelto per Barak, ma, precisa, solo per non votare Sharon e non perché davvero creda nella politica di Barak.

E ora? Che cosa pensa che si prospetti? In un suo articolo del luglio scorso prevedeva uno scenario davvero simile a quello che ci sarebbe ragione di temere oggi: lo stato di guerra. Eppure, gli dico, quasi per provocazione, molti palestinesi con i quali ho parlato in questi giorni, gente normale, non certo negoziatori o esponenti politici, mi hanno detto che secondo loro la pace si fa con la destra israeliana, piuttosto che con la sinistra. Se una proposta di pace proviene da destra che opposizione potrà farvi la sinistra? I tuoi amici palestinesi non capiscono niente. Non sanno chi è Sharon. E Avnery, da soldato che è stato, molto probabilmente lo conosce davvero meglio delle persone con le quali ho parlato in questi giorni. Dopo un altro lungo silenzio aggiunge: se ne accorgeranno presto.

Quindi nell’immediato futuro…… faccio io? Escalation, fa lui, una vera e propria escalation sia in Cisgiordania che a Gaza, e i fatti di questi giorni sembrano dargli proprio ragione. Gli chiedo se vede la possibilità di una recrudescenza della protesta araba in Israele. Non gli pare plausibile. Sharon cercherà di pacificare gli arabi israeliani, del cui voto presto o tardi avrà bisogno. Ci sono connessioni, si’ , tra la situazione degli arabi di Israele e quella dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza, ma non così dirette.

Gli chiedo che ne pensi delle critiche che in questi giorni gli sono state mosse da Israel Shamir, giornalista russo-israeliano. Mai sentito questo nome.

Per amor di discussione proviamo a ripercorrere il ragionamento. Shamir critica tutti i pacifisti per aver promosso in questi anni di processo di pace l’idea di due stati per due popoli, quando nella realtà dei fatti l’occupazione israeliana dei territori palestinesi che dura dal 1967, significa che esiste un solo Stato, uno Stato abitato da cittadini normali e popolazione occupata. Secondo Shamir sarebbe meglio battersi per uno Stato unico, laico e democratico, con pari diritti per tutti i suoi abitanti, arabi o israeliani, musulmani o ebrei.

Avnery è secco come dall’inizio della telefonata: questo Shamir non capisce niente. Ad ogni momento mi aspetto butti giù il telefono. Aggiunge: l’idea di uno Stato unico per i due popoli sarà realizzabile solo fra cent’anni, forse. Guarda in Europa, sta forse funzionando? Provo a citare Edward Said, l’intellettuale palestinese che promuove quest’idea da tempo. Avnery mi dice: facile starsene a New York, essere ben pagati e fare teorie sulla pelle della gente. Qui l’unica soluzione è che i palestinesi abbiano il loro Stato e gli israeliani il loro. Se davvero i palestinesi dovessero credere all’illusione di diventare cittadini di Israele, si troverebbero in una situazione di apartheid identica a quella del Sud Africa di qualche anno fa. Un Israele veramente democratica forse sarà possibile solo fra cent’anni!

Vorrei che mi raccontasse un po’ di quello che fa il gruppo di Gush Shalom, ma ’sta volta Avnery è ancor più spiccio: ora devo andare, e ricordi che Avnery si scrive con la Y finale; quindi mette giù il telefono.

 

Comunicato n. 41

Gerusalemme occupata 15/2/2001

La situazione peggiora di giorno in giorno. Sharon è il Primo ministro, ma Barak è ancora responsabile per la violenza dell’esercito israeliano, che sembra non avere limiti. Dopo l’assassinio di un colono sulla strada che va da Betlemme ad Hebron, due autisti di taxi palestinesi sono stati freddati senza preavviso dai soldati israeliani a due differenti posti di blocco. Da domenica a martedì notte Beit Jalla, Betlemme e Beit Sahour sono nuovamente sotto il tiro dei cannoni israeliani. Non so se si tratti di un vento differente o di colpi più forti, ma questa volta il suono sordo dei colpi si è sentito fino a el-Lahzaria, dove abitiamo io e Carlotta: sono più di dieci chilometri in linea d’aria dall’area colpita!

Ma ancor più grave è stato il nuovo attacco israeliano a Gaza. Ormai tutti conoscono la storia, che assomiglia molto a quella di qualche mese fa a Beit Sahour: due elicotteri da guerra Apache seguono nel cielo di Gaza un’auto sulla quale viaggiano alcuni membri di Force 17, il corpo speciale di guardia di Arafat. Quando l’auto rallenta per fermarsi ad un semaforo gli elicotteri sparano due razzi che disintegrano l’auto e uccidono due dei passeggeri. Questa volta il governo di Israele non ha nemmeno voluto tergiversare sul fatto. Barak ha subito dichiarato di aver deciso l’operazione e di confermare la politica di liquidazione di coloro che minacciano la sicurezza del paese. In altri paesi questo sarebbe chiamato terrorismo di Stato.

Ieri sette soldati e un civile israeliano sono stati travolti da un autobus guidato da un palestinese con regolare permesso di lavoro accordato dalle autorità israeliane. La polizia ha inseguito l’autobus per almeno 30 chilometri finendo per sparare e ferire il conducente, che al momento si trova in un ospedale israeliano. Subito la stampa israeliana a definito l’accaduto un atto terroristico, sono saltate fuori le rivendicazioni di gruppi sconosciuti e Hamas ha definito il fatto un nuovo martirio contro l’oppressore sionista (si veda il sito di Hamas).

In pochi pero’ hanno considerato l’umana disperazione come il movente di quanto accaduto. Alla televisione palestinese hanno detto che il palestinese autista dell’autobus ha 35 anni ed è padre di cinque figli. Solo da giovedì scorso aveva ripreso a lavorare in Israele, a causa della continua chiusura della Striscia che in questi ultimi quattro mesi ha impedito a centinaia di migliaia di palestinesi di andare a lavorare in Israele. E a Gaza questa chiusura ha significato fame e disperazione. In alcuni villaggi, soprattutto a sud della Striscia, nell’area di Khan Younis, la gente sta finendo le scorte alimentari e si nutre dei soli ortaggi che vengono prodotti localmente. In questa zona arrivano solo le delegazioni internazionali ufficiali e talora nemmeno quelle. Le merci non passano più.. Dopo il breve allentamento dell’assedio che ha coinciso con il nostro periodo natalizio, tutte le strade sono nuovamente presidiate dai carri armati israeliani.

Ovviamente dunque conviene a tutti pensare che dietro all’autista palestinese ci sia un gruppo terroristico o un’organizzazione politica. Così da parte israeliana è più semplice dare spiegazioni e trovare giustificazioni per atti di rappresaglia, mentre da parte palestinese si puòò utilizzare propagandisticamente il fatto come l’intensificarsi di un Intifada che ormai ha più poco di popolare.

Non è un caso dunque che da ieri sera la Striscia di Gaza si stata chiusa dall’Idf per tutti: palestinesi, dipendenti delle Nazioni Unite e internazionali con permesso di lavoro. Così come non è un caso che questa mattina un altro palestinese sia stato ucciso a Gaza dall’esercito israeliano.

Paradossalmente un barlume di comprensione per le normali reazioni umane in queste condizioni di estrema oppressione per il popolo palestinese, sembra averlo solo lo Shin Bet, il servizio segreto israeliano interno che, stando ai media israeliani, ha presentato un resoconto al governo dell’uscente Barak nel quale si afferma che l’inasprirsi delle misure di sicurezza ai danni della popolazione dei Territori è controproducente e non puòò che causare un aumento della violenza.

Ma nei fatti la chiusura è sempre più stretta e l’occupazione risulta sempre più violenta. Da due giorni gli insediamenti che fanno parte del Blocco di Etzion (Gush Etzion) sono stati circondati da muraglie prefabbricate, trincee e carri armati. Lungo la strada che va da Gerusalemme a Hebron, passando per gli insediamenti israeliani, l’esercito ha posizionato cecchini a gruppi di due. Da questa mattina l’esercito israeliano sta erigendo delle mura di protezione sulla strada che passa per i tunnel che dividono l’insediamento del Gilo da Beit Jalla. Tutti gli accessi alle città e ai villaggi palestinesi sono stati bloccati ancora una volta con blocchi di cemento e materiale di recupero. Da domenica la zona di Hebron sotto controllo israeliano (H2) è di nuovo soggetta a coprifuoco. Ieri sera Maesa mi ha raccontato per telefono che in questi giorni gli spari dai carri armati si sono sentiti anche di pomeriggio e non più solo di notte.

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 42

Gerusalemme occupata 21/2/2001

La notte scorsa l’esercito israeliano ha bombardato nuovamente la cittadina di Beit Jalla. Nel paradosso delle vicende palestinesi, questa sarebbe una notizia normale, se non fosse che per la prima volta dal settembre scorso i vertici dell’Idf hanno ammesso di aver aperto il fuoco per primi, senza cioè rispondere al fuoco palestinese, come finora recitavano le giornaliere dichiarazioni alla stampa.

Verso le nove di ieri sera Osama al-Kurabi, diciotto anni, era a letto quando i carri armati israeliani hanno aperto il fuoco sulla cittadina palestinese. Osama è morto nel suo letto perché qualche soldato israeliano aveva visto dalla parte opposta della collina un possibile cecchino palestinese e dunque ordinato ai carristi di sparare. Dieci minuti prima insieme a Carlotta eravamo passati dalla strada dei tunnel, quella che separa l’insediamento del Gilo da Beit Jalla, dove siamo andati a trovare Gianluca e Carla. La strada deserta pareva tranquilla. Poco prima del secondo tunnel abbiamo visto i muri prefabbricati che l’esercito ha iniziato a posizionare la settimana scorsa. Appena oltrepassato il secondo tunnel Carlotta mi ha detto di aver sentito un colpo, ma non ci abbiamo fatto troppo caso.

Questa mattina Marina Barham, la direttrice dell’Inad Theatre ci ha confermato la notizia, aggiungendo che anche altre 17 persone sono rimaste ferite nell’attacco israeliano, oltre alle numerose case danneggiate. La casa di Osama, che si trova proprio dietro l’edificio del teatro, è stata colpita dai carri armati israeliani. Anche l’edificio del teatro è stato colpito per l’ennesima volta; l’impianto elettrico, che la compagnia aveva riparato nei giorni scorsi, è saltato nuovamente e la struttura sembra pericolante: ormai la compagnia ha deciso di trasferire tutti i materiali che aveva lasciato provvisoriamente nella sede. Carlotta e altri amici sono andati ad aiutare Marina e gli attori del teatro a traslocare, anche se per ora in una casa privata, in attesa di trovare dei locali alternativi per le loro attività teatrali.

Intanto a Gaza, nei pressi di Netzarim, l’esercito ha avuto l’autorizzazione a sparare anche ai pedoni, qualora si avvicinino in maniera sospetta. Lunedì una donna palestinese è stata ferita ad una gamba dai soldati israeliani, mentre transitava nei pressi del posto di blocco israeliano.

Da una settimana il campo di Al-Fawwar è nuovamente chiuso. Dopo che sono stati trovati due ordigni esplosivi sulla strada principale che passa davanti Al-Fawwar, l’esercito israeliano ha reimposto i blocchi di cemento e i sassi sulla strada di accesso del campo. Hasan al telefono mi ha detto che la situazione si sta facendo davvero preoccupante per i disoccupati che ormai sono senza lavoro da cinque mesi.

Il coprifuoco di Hebron nella zona H2 dagli israeliani è stato rinnovato. Una nuova punizione collettiva per la tentata aggressione di una ragazza palestinese ai danni di un ragazzo dell’insediamento ebraico nella città.

In questi giorni dovrebbe essere pubblicato il rapporto di aggiornamento dell’Unsco intitolato: “L’impatto degli scontri, delle restrizioni alla mobilità e delle chiusure dei confini sull’economia palestinese dal 1 ottobre 2000 al 31 gennaio 2001”.

In sintesi ecco alcune anticipazioni che si possono trovare sul sito Unsco:

Durante i 123 giorni che vanno dal 1 ottobre 2000 al 31 gennaio 2001, i confini tra Israele e i Territori palestinesi che sono utilizzati per il passaggio dei lavoratori e delle merci sono stati chiusi per 93 giorni, ossia per il 75,6% del tempo. Le chiusure interne “parziali o totali” sono state imposte per il 100% del periodo in Cisgiordania e per l’89% a Gaza. Il confine internazionale tra la Giordania e la Cisgiordania e tra l’Egitto e Gaza sono stati chiusi rispettivamente per il 29% e il 50% del periodo.

Le perdite economiche causate dalle restrizioni alla mobilità sono stimate intorno al 50% del Prodotto interno lordo (Pil) palestinese per i quattro mesi del periodo preso in considerazione e al 75% del guadagno dei lavoratori palestinesi impiegati in Israele. La perdita del Pil è stimata intorno a 907.300.000 Usd, mentre la perdita delle entrate del lavoro in Israele è stimato intorno ai 243.400.000 Usd. La perdita totale è stimata intorno ai 1.150.700.000 Usd, equivalenti al 20% del Pil previsto per il 2000. La perdita è di circa 11 milioni di dollari per giorno lavorativo o di 3,5 dollari per persona al giorno, durante il periodo considerato.

A centinaia di milioni di dollari ammontano i danni agli edifici pubblici, alle infrastrutture, alle proprietà private e ai terreni agricoli, oltre ai costi che si sono dovuti sostenere per le cure prestate ai più di 11.000 palestinesi feriti.

La perdita di lavoro per i palestinesi impiegati in Israele ha determinato una media di disoccupazione pari al 38% (più di 250.000 persone) che si affianca all’11% (71.000) dei primi nove mesi del 2000. A causa dell’alta dipendenza dei famigliari a carico nei Territori palestinesi la disoccupazione oggi ha effetto su circa 900.000 persone ossia sul 29% della popolazione.

In assenza delle chiusure dei confini, il reddito pro capite per il 2000 era stimato intorno ai 2000 dollari annui. Come risultato della crisi, della chiusura dei confini e delle restrizioni alla mobilità interna, il reddito pro capite annuo si è ridotto a 1680 dollari, con una riduzione dunque del 16%.

Dall’inizio della crisi c’è stato un aumento del 50% del numero delle persone che vivono al di sotto della soglia della povertà, stimata dalla Banca Mondiale nella misura di 2,10 dollari al giorno per persona nelle spese quotidiane. Il numero dei poveri è salito da 650.000 persone a 1.000.000. Il tasso di povertà è salito dal 21% al 32%.

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 43

Gerusalemme occupata 24/2/2001

Nidal ha 12 anni, Shada 14; Nidal è del campo profughi di Deisha, Shada di Beit Shaour, uno dei villaggi palestinesi più colpiti dai cannoneggiamenti israeliani negli ultimi giorni. Nidal e Shada fanno a gara a chi sente più spari, a chi ha più vicini con la casa distrutta, insomma a chi vive nella situazione più drammatica. Sono due ragazzini e dunque è normale che gareggino in qualcosa. E in questi giorni ai ragazzini palestinesi non è rimasto che gareggiare a chi soffre di più per l’occupazione israeliana.

Nidal e Shada frequentano il corso di teatro che tiene Carlotta a Beit Jalla, al teatro Inad.

Venerdì la compagnia dell’Inad ha deciso di mantenere la lezione di teatro di Carlotta nonostante nella notte tra lunedì e martedì scorsa gli israeliani abbiano colpito per l’ennesima volta la zona (ma per la prima volta hanno ammesso di non essere stati provocati dai colpi palestinesi), uccidendo il diciottenne Osama e danneggiando gran parte delle case che danno verso l’insediamento del Gilo.

Quasi tutti gli abitanti della zona ormai hanno traslocato e il quartiere attorno al teatro ha assunto un’aria spettrale. L’edificio dove è ospitato l’Inad Theatre è in pessime condizioni, ma Marina, la direttrice, voleva provare un’ultima volta a radunare l i ragazzi del corso di teatro. Hanno provato e hanno avuto successo. Ne sono andati 10 su 15.

Ovviamente più che di teatro si è discusso di quanto accaduto nei giorni scorsi. Nidal, che fa sempre lo sbruffone, forte della sua esperienza come attore in una telenovelas della televisione palestinese, ieri era giù. Si è buttato sul divano, con i suoi pantaloni larghi, il cavallo basso, proprio come uno degli adolescenti americani o europei che imitano i cantanti rap, ed è scoppiato a piangere. Marina l’ha abbracciato e Carlotta ha cercato di farlo parlare. Parla benissimo inglese. Da quando è iniziata l’Intifada non riesce più a vedere suo padre. Lui dopo la scuola non esce, guarda la televisione o si connette a Internet; preferisce starsene in casa piuttosto che andare in giro per le strade del campo profughi dove abita. Il padre quando puòò va a lavorare, quando non puòò costruisce una casa nuova per la famiglia. Arriva a casa stanco e Nidal il più delle volte è già a letto.

Shada invece ha pianto per il teatro, una volta chiuso ha paura che non riusciranno a trovare un altro posto per fare le lezioni. Frequenta l’Inad Theatre da quando è nato, dal 1997.

Hasan martedì era uno di quelli che sono accorsi subito dopo il bombardamento per trasferire le attrezzature teatrali danneggiate. Ha 15 anni e due mesi fa la sua casa è stata colpita dai colpi dei carri armati israeliani; per gli ultimi due mesi dunque la sua famiglia ha vissuto con altre tre famiglie nello scantinato dell’edificio, che si trova proprio di fronte all’Inad. La settimana scorsa non hanno più resistito a vivere in quello spazio angusto insieme a tanta gente: ora di giorno stanno nella loro casa danneggiata e di notte vanno tutti a dormire da dei parenti che vivono a Betlemme.

I racconti e le chiacchiere sono andati avanti per quasi un’ora, poi Nidal ha detto che c’era bisogno di muoversi un po’ e Carlotta ha iniziato la lezione di teatro vera e propria: tutti a terra a fare i coccodrilli.

Verso le quattro, finita la lezione, Marina ha detto a Carlotta che ieri gli israeliani hanno mandato un fax al comune di Beit Jalla, nel quale hanno avvertito le autorità palestinesi che qualsiasi auto che l’esercito avvisterà in circolazione dopo le 19:00 di sera, sarà ritenuta un possibile obiettivo militare. In sostanza una maniera come un’altra per imporre il coprifuoco in una zona che dovrebbe essere sotto completo controllo palestinese.

Avantieri Defence for Children International-Palestinian Section, ha diramato un comunicato in cui si denuncia il bombardamento da parte dell’esercito israeliano martedì notte dell’istituto per ragazzi ciechi Al-Wataniya, che si trova a Ramallah, proprio di fronte all’insedimaneto illegale di Psagot. Verso le 21:00 l’Idf, in risposta a presunti colpi di arma da fuoco palestinese, ha sparato svariati colpi di mitragliatrice e un colpo di mortaio. Il colpi hanno raggiunto al-Wataniya dove abitano 75 tra ragazze e bambine cieche; non appena iniziato l’attacco il direttore ha trasferito le bambine al piano terra, in un’ala protetta dell’edificio. Il colpo di mortaio comunque ha distrutto un parapetto del terrazzo dell’edificio che è crollato sulle camerate dove erano state spostate le bambine. Lino, un amico che lavora per l’Istituto, ieri è andato a vedere i danni: tutti i vetri delle finestre rivolte verso l’insediamento di Psagot rotti, l’impianto del riscaldamento e quello idrico distrutti, le camerate colpite dal parapetto del terrazzo sono pericolanti. Per fortuna nessuna bambina è rimasta ferita. Tutte ovviamente traumatizzate.

A Hebron nei giorni scorsi c’era stata una relativa calma e l’esercito israeliano aveva tolto il coprifuoco. Oggi è stato reimposto: è sabato e i coloni devono andare a pregare alla sinagoga/moschea di Abramo/Ibrahim.

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 44

Gerusalemme occupata 7/3/2001

Dopo alcuni giorni di assenza dalla Palestina, riprendo ad aggiornarvi sulla situazione.

E faccio fatica a farlo, non tanto perché manchino notizie o avvenimenti da raccontare, quanto perché tutto ciò che accade ormai sembra parte dell’ordinaria vita quotidiana. Ci si abitua agli attacchi dell’esercito israeliano contro i civili, alla distruzione di case, alle misure repressive ed oppressive ai danni dei palestinesi. Forse incomincio a vedere le cose con l’occhio cinico del giornalista che reputa interessanti solo le notizie che fanno clamore o quelle che possono destare stupore. E tutti i soprusi che la popolazione palestinese deve sopportare ormai non fanno più clamore né scalpore. Altri palestinesi sono morti in questi giorni, così come altre bombe sono esplose, altre case distrutte e così via. Rimane un’evidente sproporzione tra il numero dei morti da una parte e quelli dall’altra. Dall’inizio dell’Intifada al-Aqsa ad oggi dei 426 morti, 348 sono palestinesi, 13 arabi israeliani e il resto israeliani. Venerdì , nei pressi di Ramallah, Odai Darraj, nove anni è stato ucciso in casa sua da una pallottola sparata da un soldato israeliano. Sabato sera, sempre vicino Ramallah, ad al-Bireh, Ayda Daoud Fteiha, di 43 anni, madre di tre bambini, è stata uccisa dai militari israeliani con tre colpi al petto, mentre usciva da un negozio. Altri due bambini palestinesi sono stati uccisi sempre dall’Idf durante il week-end in Cisgiordania, mentre a Gaza l’esercito israeliano ha freddato con proiettili esplodenti Mustafa al-Rimlawi, di 38 anni, ritardato mentale, la cui unica colpa era passeggiare nei pressi dell’insediamento di Netzarim. Amira Hass, una coraggiosa giornalista israeliana, oggi ha pubblicato un articolo su Ha’aretz, nel quale ha cercato di far luce su queste uccisioni sempre più slegate da situazioni di reale conflitto o da serio pericolo di vita per i soldati di Israele. “Colpi in aria come deterrente” è la risposta che ha trovato nei portavoce dell’esercito israeliano. Purtroppo, continua la Hass, quando i palestinesi sparano in aria i loro non vengono mai considerati dall’Idf come colpi deterrenti, ma come provocazioni alle quali l’esercito israeliano è autorizzato a rispondere, e senza puntare in aria gli M16; per i palestinesi sembra dunque che non sia lecito sparare in aria come misura preventiva.

L’assedio e la conseguente chiusura totale della Cisgiordania e di Gaza permane, nelle modalità che ho cercato di descrivervi nei mesi scorsi. Proprio oggi ad esempio, alla vigilia dell’apertura del secondo semestre universitario l’esercito israeliano ha scavato tre profonde trincee sulla strada che va da Ramallah a Birzeit, sede di una delle più importanti università palestinesi. Sono state tranciate la rete telefonica, elettrica ed idrica e l’Università, così come i villaggi circostanti, sono isolati dal resto della Cisgiordania e privi di luce e telefono. Chissà se questo è l’ultimo colpo di coda del governo Barak o le prime avvisaglie del nuovo governo di unità nazionale di Sharon che domani giurerà alla Knesset? O forse si tratta di una delle numerose “alzate di testa” dell’esercito israeliano, che in questo periodo di transizione tra i due governi, sembra assumere sempre più potere. Ormai non si contano più le dichiarazioni dei militari israeliani che si dicono pronti a tutto per fermare la Pna. Oggi Mofaz, il comandante supremo dell’Idf l’ha dichiarato nuovamente, così come nei giorni scorsi il canale principale della televisione israeliana, Channel 1, ha confermato che l’esercito sta mettendo in atto una precisa strategia militare per rioccupare i territori sotto completo controllo palestinese ed estendere i confini degli attuali insediamenti ebraici.

Resta il fatto che tutto in questi giorni assume un aspetto sempre più “normale”. Sembra quasi che tutti facciano l’abitudine a questo assedio continuo e sfiancante: noi internazionali, i media, addirittura i palestinesi stessi. Su tutti sicuramente agisce la forza subdola della strategia israeliana di logorio, mai apertamente dirompente come potrebbe essere la forza di un conflitto vero e proprio. Mi rendo conto che non ha molto senso tener traccia per voi della cronaca; preferirei potervi raccontare ogni giorno aspetti della vita quotidiana della gente normale. Forse serve a rendere meglio l’idea di cosa significhi vivere sotto occupazione. Purtroppo non sempre mi riesce.

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 45

Gerusalemme occupata 12/3/2001

Questa mattina insieme ad altri amici siamo riusciti a raggiungere Ramallah dopo una lunghissima attesa al nuovo check point posizionato dall’esercito israeliano prima del campo profughi di Kalandia. Il corteo, di almeno duemila persone, è partito dall’Hotel Best Eastern e si è avviato sulla strada che fino a qualche giorno fa collegava Ramallah al villaggio di Birzeit, dove si trova una delle più grosse e importanti università palestinesi. Dico portava, perché appena dopo due curve abbiamo visto con i nostri occhi quello che tre sere fa l’esercito israeliano ha fatto per sbarrare quella strada. I bulldozer israeliani hanno tagliato la strada, scavando tre trincee a distanza di circa trecento metri l’una dall’altra, profonde almeno un metro. L’asfalto in pezzi, accumulato insieme a terra e sassi a formare delle barriere da un lato e dall’altro di queste voragini. Ovviamente nessun mezzo di trasporto era in grado di sorpassare questi ostacoli, dunque all’incirca 15 villaggi, con più di 65000 abitanti, sono isolati dal resto dei Territori palestinesi.

Insieme al corteo abbiamo raggiunto la prima trincea e quindi la seconda dove si è tenuto un breve comizio. C’era la Hasrawi, Abed Rabbo, Mustafa Bargouti e altre personalità oltre ai molti studenti e professori dell’Università di Birzeit.

Non appena chiuso il comizio c’è stato un generale passaparola, sono saltati fuori pale e picconi e la gente ha cominciato a rimuovere i sassi, a riempire le trincee con i pezzi di asfalto frantumato. Tutti insieme, professori, studenti pure qualche giornalista. Intanto sulla collina a ridosso della strada e su una strada secondaria i soldati israeliani sorvegliavano i movimenti dei manifestanti. Il carro armato che stava posizionato nel punto più alto ogni tanto muoveva il cannone, puntando ora su una trincea ora sull’altra. Dopo una mezz’ora di lavoro di piccone sono arrivati due bulldozer palestinesi che finalmente sono riusciti a colmare due delle tre trincee. Quando la terza finalmente è stata riempita con le pale è passata una prima auto, poi un’ambulanza e poi due taxi e c’è stato un generale battimano. Finalmente ci siamo detti tra noi, una manifestazione riuscita. Sarà stato anche per il folto numero di giornalisti, eppure fino a quel momento nulla poteva andare meglio. Ma non appena i bulldozer palestinesi hanno iniziato a percorrere a loro volta la strada appena aperta i soldati israeliani hanno iniziato a sparare bombe lacrimogene sulla folla che li accompagnavano. Nessuno aveva tirato un sasso contro di loro né anzi erano stati degnati della minima attenzione da parte di coloro che erano impegnati a scavare o semplicemente a guardare. Dopo il primo lacrimogeno ne sono arrivati altri e anche qualche colpo di quelli che solo i giornalisti ormai osano chiamare proiettili di gomma. Ne abbiamo raccolto qualcuno e forse la gomma gli era rimasta impigliata nelle canne dei loro fucili. A seguito di questo vero e proprio attacco israeliano il gruppo di manifestanti si è spezzato in due: un gruppo dalla parte di Ramallah, e uno, nel quale ci trovavamo noi, dalla parte di Birzeit.

Molte persone hanno cercato di scappare in direzione di Ramallah, passando per i campi. Ma non era facile. Dall’altro troncone del gruppo i ragazzi hanno incominciato a lanciare sassi e i militari hanno continuato a sparare gas lacrimogeni e pallottole, indiscriminatamente. Una di queste “bombe” lacrimogene ha colpito anche un giornalista che aveva la telecamera in spalla. In un momento di calma si è deciso di riunirsi tutti dalla parte di Ramallah, dove comunque stava il grosso dei partecipanti e pacificamente ci siamo incamminati sulla strada sotto tiro israeliano. Una volta ricomposto il gruppo la tensione è salita nuovamente: altri lacrimogeni e altre sassaiole. Vi posso assicurare che i lacrimogeni utilizzati non sono come quelli italiani. Innanzitutto provocano un senso di soffocamento immediato, poi inizia la lacrimazione e la salivazione e la faccia brucia da morire. Abbiamo visto alcune persone barcollare e cadere, solo per aver inalato da vicino i fumi di questi lacrimogeni. L’esercito israeliano comunque non si è fatto remora di sparare altri gas su coloro che si sono arrischiati a prestare soccorso alle persone svenute. Hanno sparato qualche colpo anche sulle ambulanze, che comunque hanno potuto soccorrere decine di persone. Il personale paramedico del Medical Relief era impegnatissimo a distribuire fazzoletti o cotone imbevuto di profumo. Vicino alle ambulanze abbiamo visto anche una donna disperata. Ci hanno raccontato che il fagotto che teneva in mano racchiudeva una bambina di solo due giorni. Era disperata perché doveva tornare a Birzeit e non sapeva come fare per passare dall’altra parte delle trincee tenute sotto tiro dagli israeliani.

Dopo circa un’ora è arrivato il bulldozer corazzato dell’esercito israeliano per riaprire le trincee colmate e chiudere i varchi aperti. Due o tre ragazze dell’università sono corse incontro al mezzo corazzato e tenendo uno striscione che recitava “Esercito israeliano assassino”, si sono sdraiate davanti al mezzo corazzato. Inutilmente i soldati hanno sparato altri gas lacrimogeni e bombe suono. Loro sono rimaste davanti al bulldozer che ha dovuto aggirarle tornando sulla collina. Una volta sceso dall’altra parte un’altra volta la resistenza passiva ha avuto la meglio sull’esercito e il bulldozer non è potuto intervenire.

A questo punto il grosso del gruppo ha deciso di unirsi alle ragazze sedute davanti alle camionette israeliane. E’ arrivato anche Marwan Barghouti, il leader dei Tanzim, che ha chiesto ai ragazzi di smettere il lancio delle pietre, per marciare tutti insieme pacificamente verso i soldati israeliani e unirsi davanti a loro al gruppo delle ragazze non-violente. Tuttavia non appena il gruppo di Barghouti si è avviato sulla strada i soldati israeliani hanno iniziato a sparare altri lacrimogeni e altre pallottole.

Tre o quattro volte il gruppo è dovuto scappare indietro e rifugiarsi dietro a mucchi di sassi, mentre le sassaiole sono riprese. Gli uomini di Barghouti hanno convinto i ragazzi a smettere con i sassi per tentare una quarta volta di marciare pacificamente sulla strada. Non appena il gruppo ha tentato di avviarsi sulla strada, un uomo vicino a Marwan Barghouti si è improvvisamente accasciato. L’abbiamo visto benissimo perché stava a una decina di metri da noi. Stava l , come noi, a guardare, con le mani in tasca. In quel preciso istante non abbiamo sentito alcuno sparo. Probabilmente i soldati israeliani hanno usato armi con il silenziatore. Quindi le urla, i gesti e sono arrivate le ambulanze. Abbiamo saputo dopo che quell’uomo è stato trapassato da parte a parte ed è morto semplicemente perché aveva deciso di partecipare alla manifestazione senza pietre in mano. Ovviamente non rappresentava alcuna minaccia di vita per i soldati israeliani che centocinquanta metri più in là si riparavano dietro a camionette corazzate, protette dall’alto dal cannone di un carro armato.

Oggi è il giorno in cui Sharon ha comunicato di aver alleviato le misure di chiusura dei territori palestinesi.

Per ora queste sono le notizie.

 

 

 

Nota

1    I risultati completi dell’indagine si possono trovare presso il sito web: www.jmcc.org.

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