Comunicati gennaio 2001

 

Comunicato n. 35

Gerusalemme occupata 7/1/2001

Dopo due settimane di assenza, riprendo ad aggiornarvi su quanto accade in Palestina.

La situazione sembra poco mutata rispetto a quando sono partito per l’Italia verso la fine di dicembre.

Oggi andando ad al-Fawwar ho rivisto i soliti blocchi delle strade, la gente che continua a scavalcare le montagne di terra e le pattuglie dell’esercito israeliano che bloccano alcune auto palestinesi, mentre altre vengono lasciate transitare. Apparentemente non sembra esserci alcun criterio nelle loro procedure.

Il campo profughi di al-Fawwar è sempre sigillato da montagne di terra che bloccano l’entrata principale e le vie alternative che passavano per i campi. Nel campo tutti stanno bene, anche se, come mi ha detto Hasan, questo stare bene è relativo. La situazione di emergenza, mi ha detto, sta diventando per noi la normalità.. Si sono messi anche a scherzare su questo. Mi hanno raccontato che per l’Eid el-Fitr (la festa di fine Ramadan) l’esercito israeliano ha fatto un “regalo” ai palestinesi: tutti i blocchi delle strade sono stati rimossi per i tre o quattro giorni di festa. In verità loro avrebbero preferito non ricevere questo “regalo” che gli è costato un bel po’.. Hanno dovuto infatti comportarsi come se fosse una normale Eid el-Fitr e quindi visitare i parenti, fare regali eccetera, insomma spendere un mucchio di soldi proprio in questo momento in cui i soldi non abbondano nelle loro tasche. Ci siamo messi tutti a ridere.

Per il resto tutto rimane come prima anche presso il Centro comunitario polivalente. I bambini partecipano sempre meno, anche perché dalla scorsa settimana sono iniziati gli esami del primo semestre e i bambini non si fanno vedere nemmeno per strada. La clinica procede bene, con una media di quindici pazienti per sera e i responsabili dei vari comitati continuano ad utilizzare il centro per le loro riunioni comunitarie.

Anche Hebron, mi ha detto Maesa per telefono, ha avuto un momento di respiro dal coprifuoco che continuava ininterrotto dalla fine di settembre 2000. Anche l in occasione della festa di fine Ramadan sono stati tolti i blocchi alle strade ed il coprifuoco è stato sospeso. Maesa è stata meno scherzosa. Mi ha detto che comunque non si è respirata assolutamente l’aria della festa, come solitamente accade alla fine di ogni Ramadan. Si poteva capire che era Eid el-Fitr dai giochi dei bambini per strada. Finita la festa i blocchi sono stati riposizionati ed è stato reimposto il coprifuoco. Solo venerdì scorso è stato tolto un’altra volta e pare che fino a questa notte non verrà reimposto. La sospensione del coprifuoco tuttavia non significa ancora un ritorno alla normalità.. Le auto palestinesi ad esempio non possono circolare per la zona H2 sotto il controllo militare israeliano: l si puòò solo camminare.

Lo stesso venerdì in cui è stato tolto il coprifuoco, una ragazza palestinese di 19 anni è stata uccisa da un colpo di arma da fuoco sparato dall’esercito israeliano: si trovava insieme ad un’amica nella sua casa di Hebron.

Oggi dunque, come già ho detto, i blocchi erano di nuovo tutti al loro posto. In alcune località ancora più invalicabili di prima. Ad Haloul la montagna di terra che blocca la strada è alta più di due metri ed è stata riposizionata prima della strada alternativa che era stata aperta in dicembre dai palestinesi. Ora dunque l’unica via per entrare ad Hebron è quella che costeggia l’insediamento israeliano di Kiryat Arba. In corrispondenza dell’imbocco di quella strada questa sera c’era un cingolato corazzato dell’esercito israeliano con una mitragliatrice di grosso calibro puntata sulla strada.

All’imbocco dei tunnel che portano a Gerusalemme, poco prima dell’insediamento del Gilo, ho incontrato una manifestazione dei coloni israeliani che bloccavano la strada. Alcuni di loro ovviamente erano armati. La polizia e le camionette dell’esercito erano presenti in forze, senza comunque intervenire per sgombrare la strada. Domani è stata preannunciata una grandissima manifestazione israeliana intorno alle mura della città vecchia di Gerusalemme per reclamarne la sovranità unica e indivisibile. Passando l sotto questa sera ho visto i preparativi: un grosso palco, luci e amplificatori.

Anche gli attacchi dei coloni israeliani ai danni dei civili palestinesi continuano come prima. Al proposito l’Alternative Information Center ha diramato il rapporto settimanale di aggiornamento che puòò essere reperito sul loro sito internet: http://www.alternativenews.org.

Riassumo i punti principali rimandandovi al rapporto integrale per i riferimenti precisi:

Almeno sette palestinesi sono rimasti feriti negli attacchi dell’ultima settimana, mentre uno è stato ucciso.

Si sono contati almeno cinque attacchi o blocchi ai danni di villaggi palestinesi.

Svariati sono stati i casi di sradicamento di alberi.

Almeno in tre occasioni le auto palestinesi in transito su strade della Cisgiordania sono state bersagliate dai sassi tirati dai coloni israeliani.

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 36

Gerusalemme occupata 12/1/2001

Avrei poco da raccontarvi oggi, così come ieri e avantieri.

Poco nel senso che non sono accadute cose eclatanti, anche se mi rendo conto che nemmeno più la conta dei morti è eclatante: in questi tre giorni sono morti tre palestinesi.

Comunque sento il bisogno di fare uno sforzo e raccogliere anche quegli aspetti che in queste giornate di ordinaria emergenza mi appaiono più banali, mentre in realtà dovrebbero testimoniare senza alcuna traccia di banalità la continua e costante violenza da parte israeliana sul popolo palestinese.

Nei giorni scorsi a Gerusalemme c’è stata la manifestazione israeliana per una Gerusalemme unita, che sostanzialmente significa una Gerusalemme israeliana e basta. Non ci sarebbe molto da raccontare, a parte le bandiere palestinesi in mezzo alle quali campeggiavano dei teschi, i coloni armati di mitra e fucili, magari con uno o due bambini per mano, le immagini della conquista della porta di Jaffa nel 1967, proiettate proprio sulle mura vicine alla porta stessa e in sottofondo le dichiarazioni trionfalistiche dei generali israeliani dell’epoca. Non è successo nulla, se questo significa che non ci sono stati scontri. Del resto era presente una tale quantità di polizia e soldati dell’esercito che difficilmente sarebbe potuto accadere qualcosa, tenendo di conto inoltre del fatto che ai palestinesi è vietato manifestare a Gerusalemme.

Di questi giorni poi è il permesso accordato dai vertici dell’Idf ai soldati israeliani di sparare a qualsiasi palestinese armato ritenuto pericoloso. Ne hanno parlato sia l’Haaretz che il Jerusalem Post, i due maggiori quotidiani israeliani in lingua inglese. Anche un poliziotto palestinese potrebbe dunque essere un bersaglio accettabile per l’esercito di Israele. Ad al-Fawwar oggi hanno “scherzato” sulla questione. Mi hanno detto che tutti gli accordi di questi giorni, gli accordi veri (quelli tra Cia, servizi segreti israeliani e palestinesi), servirebbero proprio a garantire questa certezza: i palestinesi hanno il diritto di manifestare, magari tirare qualche sasso e ovviamente scavalcare i cumuli di terra posizionati per bloccare le loro città, mentre gli israeliani hanno il diritto di sparare.

Sempre ad al-Fawwar mi hanno raccontato che proprio ieri, quando si è avuta la notizia della ripresa ad Erez dei colloqui tra le forze di sicurezza israeliane e palestinesi, davanti al campo stazionavano sette camionette dell’esercito israeliano. Hasan mi ha detto che si sono disposte tre da un lato e tre dall’altro della strada, e una di sbieco a impedirne l’accesso, peraltro bloccato ancora oggi dai cumuli di terra e detriti imposti dall’esercito israeliano più di tre mesi fa. Chi usciva a piedi dal campo doveva sfilare in mezzo a queste due ali di militari israeliani. Hasan mi ha detto di aver temuto di venire arrestato. Gli ho chiesto per quale motivo. Lui mi ha detto: “Così , solo perché loro erano l e io passavo in mezzo a loro e avevo questa sensazione. Può capitare benissimo”.

Ieri sera, rientrando a casa da una cena con amici, sono stato fermato ad un posto di blocco improvvisato dai soldati israeliani. Mi hanno fermato puntandomi contro il fucile con la torcia elettrica montata sul mirino. Mentre aspettavo che controllassero il mio passaporto altri soldati hanno fermato alla stessa maniera un taxi palestinese. Tutti i passeggeri sono stati fatti scendere, messi tutti al muro e perquisiti con le mani in alto. Non ho visto il resto della scena perché una volta riconsegnatomi il passaporto sono stato invitato ad andarmene.

Il coprifuoco che era stato tolto qualche giorno fa ad Hebron ieri è stato reimposto, anche se non su tutta la zona sotto il controllo israeliano. Sostanzialmente ad oggi non si puòò andare nella parte della città vecchia, né tanto meno transitare a piedi o in macchina per le strade limitrofe.

E oggi, che ha circolato la voce di un “ammorbidimento” della chiusura imposta sulla Striscia di Gaza, spaccata in quattro dai blocchi israeliani, sulla strada che da al-Fawwar porta a Gerusalemme ho incontrato almeno tre cingolati corazzati con mitragliatrici di grosso calibro puntate sui bivi che portano a città o paesi palestinesi e almeno un trentina di camionette dell’esercito e della polizia israeliana a pattugliare le strade; ad alcuni bivi i mezzi palestinesi venivano rimandati indietro.

Tutto fa pensare che gli israeliani manterranno questa situazione di stallo fino alle elezioni del loro primo ministro.

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 37

Gerusalemme occupata 14/1/2001

Come da ormai un mese a questa parte anche in questi ultimi giorni gli scontri tra esercito israeliano e manifestanti palestinesi sono stati pressoché nulli. Casi sporadici di scambio di colpi di arma da fuoco qua e là, ma nulla che possa essere paragonato anche solo lontanamente a quanto è accaduto in ottobre o novembre.

Per il secondo venerdì consecutivo l’accesso alla moschea di Gerusalemme è stato più semplice che non nelle settimane passate; ma, sempre venerdì , un palestinese è stato ucciso dall’esercito israeliano ad Hebron. Pare che Shakr Hasouna al-Husseini (21 anni) sia stato colpito dai soldati israeliani nella zona sotto controllo palestinese H1 e quindi trascinato in quella sotto controllo israeliano, H2. L i coloni ebrei, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, hanno sputato sul corpo e lo hanno calpestato. Sempre l’Haaretz ha pubblicato una fotografia del soldato israeliano che trascina il corpo di al-Husseini, mentre brandisce l’arma del palestinese e sorride all’indirizzo dei suoi compagni. E così il coprifuoco che era stato sospeso, seppur parzialmente, è stato reimposto su tutta l’area H2 di Hebron sotto controllo israeliano.

Ieri è stato il giorno dell’esecuzione dei due “collaborazionisti” palestinesi: unanime è stata la condanna delle organizzazioni per i diritti umani sia palestinesi che israeliane. Ma ieri è stato anche il giorno in cui sono stati aperti alcuni varchi nei blocchi imposti dall’esercito israeliano sulle strade palestinesi, forse come conseguenza dei recenti incontri tra le due forze di sicurezza.

Oggi ho visto che l’entrata sud di Betlemme era aperta così come è stato sgomberato completamente dai detriti e dai blocchi di cemento l’accesso ad Haloul, la strada che porta a Dura è stata riaperta così come, finalmente, quella che porta all’interno di al-Fawwar. Al-Khader, Sair, la parte a sud di Hebron rimangono chiuse.

Tuttavia, anche se gli accessi sono stati aperti, le camionette dell’esercito israeliano rimangono a presidio di ciascuna strada palestinese che si immetta sulla principale arteria che attraversa il sud della Cisgiordania, la strada n. 60. Questa sera ad alcuni incroci oltre alle camionette erano presenti anche i cingolati corazzati dell’esercito israeliano.

Ad al-Fawwar oggi si è parlato più delle elezioni israeliane che di tutto il resto. Mi è parso che un’idea diffusa sia quella di preferire Sharon a Barak, di modo che le posizioni politiche di Israele risultino più chiare non solo ai palestinesi stessi, ma al mondo intero. Del resto, un ragionamento altrettanto diffuso è quello secondo il quale i palestinesi non avrebbero più nulla da perdere, per cui preferirebbero arrivare il più presto possibile al fondo e al peggio di questa situazione per poter poi iniziare ad intravedere una soluzione.

e’ pur vero che, come mi ha detto Hasan, arrivare al peggio e al fondo ora, non sembra l’opzione preferita dagli alleati di Israele, gli Stati Uniti. Proprio per questo motivo, sempre secondo Hasan, la candidatura di Netanyahu sarebbe stata ritirata. Netanyahu sicuramente avrebbe vinto e con lui come Primo ministro non sarebbe stato possibile raggiungere alcun accordo tra israeliani e palestinesi, se non altro a causa degli slogan del Liqud. Con i laburisti si’ , la loro “immagine di pacifisti” gli permette di essere quelli che cercano e firmano un accordo con i palestinesi, per quanto le loro posizioni in buona sostanza non differiscano da quelle del Liqud. E’ solo una questione di slogan pubblici, ha concluso Hasan. Secondo lui si farà di tutto (gli Stati Uniti faranno di tutto) perché Barak possa vincere, arrivando perfino a premere per sostituire la sua candidatura all’ultimo minuto con quella di Peres (così come sostengono molti giornali israeliani stia già accadendo). Tariq mi ha detto che addirittura alcuni media israeliani stanno insinuando il dubbio che Sharon sia affetto dal morbo di Alzehimer.

Politica a parte, oggi di nuovo tutte le strade di al-Fawwar erano piene di bambini; terminati gli esami del primo semestre, la vita scolastica è tornata alla normalità.. Il sistema scolastico palestinese infatti prevede, dopo il primo semestre di insegnamento, un esame di verifica. In questa occasione la vita scolastica muta sostanzialmente. Le lezioni durano molto meno e i ragazzi hanno molti più compiti a casa. Per questo motivo nelle due settimane passate si sono visti in giro molti meno bambini: tutti a casa a studiare o a fare compiti. Dopo gli esami del primo semestre è prevista una pausa di due settimane, un po’ come le vacanze di Natale per noi, ma quest’anno l’Autorità palestinese e l’Unrwa hanno deciso di revocare le due settimane di vacanze invernali: in questa maniera vengono recuperati i giorni persi all’inizio dell’Intifada.

e’ purtroppo vero che comunque molte scuole non sono ancora tornate ad un vero e proprio ritmo normale di insegnamento. Il padre di Tariq, che è preside di una scuola di Hebron, mi ha detto che molti insegnanti e studenti non sono ancora in grado di raggiungere le scuole.

Per il momento queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 37/1

Gerusalemme occupata 15/1/2001

In questi giorni ho incontrato una pacifista israeliana nota forse ad alcuni di voi. Vi riporto il colloquio perché mi pare interessante.

Quanti sono i veri pacifisti israeliani? Poche centinaia, al massimo forse qualche migliaio. Neta si corregge e mi dice, che forse si’ : arriviamo ad un migliaio. Neta Golan è israeliana, un’attivista israeliana, sempre in giro a “lavorare” per la causa palestinese. Era anche a Roma, alla manifestazione dell’11 novembre 2000, invitata a parlare sul palco. La contestazione di un gruppo di Autonomi glielo ha impedito, anche se lei è convinta non volessero contestare lei, ma gli organizzatori (mi dice che gli Autonomi l’hanno anche chiamata per scusarsi dell’accaduto). Nei primi giorni della recente Intifada, Neta stava tutto il giorno in Paris Square, una piazza del centro della Gerusalemme ovest, per protestare contro l’occupazione e l’aggressione israeliana ai danni dei palestinesi. La gente passava e insultava lei e il piccolo gruppetto di pacifisti insieme a lei.

Pur non appartenendo ad un gruppo vero e proprio, si sente vicina al movimento Stop the Occupation. Cita il Matzpen come suo antecedente ideale: una formazione di attivisti degli anni Sessanta fuoriusciti dal Partito comunista israeliano a causa della mancanza di interesse per la questione araba da parte del partito. Neta, anche se non ha un’appartenenza precisa, ha connessioni un po’ con tutti i maggiori gruppi pacifisti israeliani: B’tselem, Hadash (i comunisti israeliani), Gush Shalom (Il Blocco della Pace), Rabbies for Human Rights (i Rabbini per i diritti umani), l’Alternative Information Center (il Centro di informazioni alternative). Non considera Peace Now un gruppo pacifista.

Oggi ha poco tempo, deve scappare ad Hares, un villaggio della Cisgiordania. Poco più di tremila palestinesi abitano l , a due passi dall’insediamento di Ariel, a Nord di Ramallah. Da quasi due mesi Neta va spesso ad Hares per testimoniare e protestare contro gli attacchi indiscriminati dei coloni israeliani. Mi racconta che i coloni solitamente adottano questa tattica: vanno in massa nelle vicinanze del villaggio e cominciano a provocare gli abitanti palestinesi. Non appena gli shebab (i giovani palestinesi) tirano qualche sasso, i coloni chiamano l’esercito che accorre per sparare, ai palestinesi ovviamente. Lei arriva con il suo gruppo di amici o sostenitori e filma tutto, scatta foto, poi prende il megafono e in ebraico parla con i coloni e cerca di convincerli ad andarsene. Con la sua presenza vuole essere un deterrente per i coloni e l’esercito. In sostanza fa quello che le Nazioni Unite hanno deciso di non fare. E dice che a qualcosa serve. Da quando lei frequenta Hares gli incidenti sono diminuiti, anche se durante la settimana che è stata arrestata e le è stato proibito di recarsi l , esercito e coloni hanno sradicato più di 800 ulivi. Ora ha in progetto di ripiantarli insieme agli abitanti del villaggio.

Dice che i soldati ci pensano due volte prima di sparare ad un israeliano. Tra i coloni ci sono quelli che non sparerebbero mai, quelli che sparerebbero solo ad un palestinese e quelli che non si fanno scrupoli a sparare anche a un’ebrea come lei. Mi racconta che una notte, durante un attacco dei coloni, per poco non ci lasciava la pelle. Lei parlava al megafono e qualcuno le ha sparato, mirando solo nella direzione da cui proveniva la voce.

Le chiedo se, a parte i rischi fisici, non ci siano altri tipi di “pericoli”. “Persecuzione politica, vuoi dire? No, non ci sono persecuzioni politiche di questo tipo in Israele, anche se è vero che se il paese continua ad andare nella direzione in cui sta andando ci sarà presto da aspettarselo. Se ti arrestano in Israele per una manifestazione a sostegno dei palestinesi, non ti tengono più di venti minuti, se ti capita in Cisgiordania, magari stai dentro un giorno o al massimo due. Ovviamente se lo stesso capita ad un palestinese, nessuno sa quanto lo terranno, né cosa gli faranno”.

“Ma allora perché siete così pochi? Come è possibile che gli israeliani non vedano le ingiustizie che stanno infliggendo ai palestinesi. Sono tutti in mala fede?”.

“No, sicuramente no. Ci sono vari motivi.

Innanzitutto l’informazione, o meglio la disinformazione. La televisione o i giornali israeliani riportano ogni singola pietra che venga lanciata contro un israeliano, ma nessuno parla di Hares. L’unica volta che se ne è parlato alla televisione (israeliana), gli attacchi dei coloni sono diminuiti.

Dopo Oslo sembrava che tutti i problemi fossero risolti e i media hanno creato una cortina di fumo dietro alla parola pace: stabilità economica, politica, sicurezza eccetera. Gli israeliani hanno creduto davvero che si potesse mangiare il frutto della pace senza pagarlo. E così ora i “pacifisti” di sinistra sono scioccati. E così ora la gente dice: gli abbiamo dato tutto e guarda questi come ci ricompensano. Gli israeliani, anche quelli più in buona fede, non capiscono che i palestinesi non hanno avuto ancora niente dalla cosiddetta pace.

e’ vero pure che per un certo periodo anche ai palestinesi è andato bene di starsene dietro a questa cortina di fumo e a quello che significava”. Poi ci ripensa e si corregge: “No, non è che ai palestinesi sia stato bene così , stava bene alla loro classe dirigente. Comunque sia, a sbandierare la parola pace ci sono stati un po’ tutti. Il baluardo della globalizzazione in Medio Oriente non l’hanno tenuto alto solo gli israeliani. Guarda cosa stanno facendo gli Stati Uniti, anche per l’informazione, voglio dire”.

C’è poi un’altra motivazione. Neta crede che tutti gli israeliani siano malati, in un certo senso. “Abbiamo subito un trauma psicologico, mi dice, e non ci siamo ancora ripresi”. Neta mi ricorda che per professione fa la terapista e quindi magari è affetta da deformazione professionale. La ferita inferta dall’olocausto al popolo ebraico lo ha reso insensibile all’altro. Quasi che esporsi all’altro, ascoltare l’altro significhi esporsi al rischio di una nuova tragedia. “Non vogliamo nemmeno più vederli gli altri. Pensiamo che l’unica soluzione per non ricadere in una nuova tragedia sia quella di diventare sempre più forti”.. Secondo Neta l’appello di questi giorni degli intellettuali israeliani, pacifisti e di sinistra, nel quale si nega il diritto al ritorno dei profughi palestinesi in nome dell’integrità ebraica dello Stato di Israele non puòò essere spiegato altrimenti. Moralmente non c’è alcuna spiegazione del perché ai palestinesi non debba essere riconosciuto il diritto di rientrare nelle loro terre di origine. E’ solo la paranoia dell’altro che puòò spiegare il disconoscimento dei diritti dei palestinesi da parte israeliana, se non il disconoscimento della loro stessa esistenza, come vorrebbero i sionisti più convinti.

Mi fa un esempio, un esempio sulla sua pelle. Anni fa non le importava nulla dei palestinesi. Quando ha iniziato a occuparsi della questione e dunque a frequentare i palestinesi ha dovuto lottare a lungo contro la sua paranoia. Mi racconta che aveva paura anche solo a prendere un taxi collettivo insieme ai palestinesi e viaggiare in Cisgiordania. “E non è un lavoro su se stessi che finisca presto”, aggiunge. Un mese fa ha incontrato degli esponenti di al-Fatah. Fuori dal palazzo dove si è tenuto l’incontro c’erano delle guardie armate. “Tutti i giorni vedo i soldati israeliani, ma a vedere i palestinesi con i mitra la paranoia ha cominciato a tornare a galla. Ora la so controllare e ogni volta che la riconosco e la sorpasso mi sento più forte, ma non è un esercizio facile né breve”.

Mi fa ancora un esempio. La settimana scorsa due suoi amici israeliani si erano accordati per accompagnarla ad Hares. Il giorno prima l’hanno chiamata per disdire: troppa la paura che succedesse qualcosa, che i palestinesi li potessero attaccare perché israeliani. E’ riuscita a convincerli, ma la mattina della partenza alle sei l’hanno richiamata, indecisi se andare o meno. Alla fine sono andati e al ritorno le hanno confessato di aver conosciuto gente meravigliosa, gente che le giovani generazioni israeliane, invaghite di New Age, vanno a cercare in America Latina o in India, senza sapere che sono i loro vicini di casa.

Le chiedo se non sia difficile, per lei che ha deciso di superare la paranoia, avere relazioni con altri israeliani che questa paranoia ancora ce l’hanno e non se la vogliono togliere di dosso. Neta mi dice che dipende dalla pazienza che si riesce ad avere e da quanto si è disponibili a stare accanto a chi incomincia a volersi liberare di questa paranoia, e, in tutta onestà, gli israeliani, come popolo, non hanno ancora iniziato a riconoscere di essere affetti da questa paura patologica dell’altro. E poi ci sono delle relazioni che esistono comunque. Mi dice che suo padre è profondamente razzista e probabilmente voterà Sharon alle elezioni del 6 febbraio, ma non per questo non gli vuole bene e non lo rispetta.

Visto che è venuto fuori il discorso delle elezioni le dico che i palestinesi, quelli che conosco io per lo meno, dicono tutti di preferire Sharon a Barak o Peres, di modo che risulti chiaro a tutto il mondo qual è la vera politica di Israele. Del resto, sempre i palestinesi che conosco io fanno questo ragionamento: non avendo più nulla da perdere, meglio arrivare al fondo il più presto possibile. Neta mi confessa che davvero non sa cosa rispondermi. Tutti e tre sono stati generali dell’esercito e responsabili di assassinii atroci. E’ una scelta difficile, anche se si sente obbligata a credere che a votare Peres si possa sperare in una pace, che, per quanto all’insegna della normalizzazione, almeno interrompa il ciclo di morte che si è instaurato da qualche mese a questa parte. Ad ogni modo Peres non è ancora ufficialmente candidato alle elezioni, se ne ventila soltanto una possibile candidatura in extremis, nel caso Barak rinunci all’ultimo minuto, con un colpo di teatro, per la verità largamente preannunciato dai media israeliani come possibile.

Per ora questo è tutto.

 

Comunicato n. 38

Gerusalemme occupata 19/1/2001

Sono accadute mille cose in questi giorni, in cui non sono riuscito a scrivere.

Innanzitutto lunedì l’uccisione di un colono israeliano a Gaza. L’esercito israeliano, come misura punitiva collettiva, ha chiuso nuovamente tutta la Striscia che era stata liberata dai blocchi solo qualche giorno prima. Israele ha bloccato pure la frontiera palestinese di Rafah con lEgitto e l’aeroporto di Gaza City. Tra lunedì e martedì i coloni hanno assalito per vendetta l’area palestinese di al-Mawassi, sparando contro le case e terrorizzando la popolazione; i coloni degli insediamenti vicini a Khan Younis hanno dato alle fiamme quattro edifici rurali e le coltivazioni adiacenti di proprietà palestinese, sradicando alberi e distruggendo alcuni macchinari agricoli. Qualcuno di loro è stato pure arrestato, ma poi subito rilasciato, con l’unico divieto di non potersi avvicinare ad al-Mawassi per un certo periodo.

E la connivenza tra coloni ed esercito israeliano non si limita a questo. E’ di due giorni fa la notizia che l’esercito israeliano ha concesso il permesso ai coloni di pattugliare autonomamente le strade, creare posti di blocco e arrestare i palestinesi. Il permesso è stato accordato soprattutto per i coloni che vivono nell’area a sud della West Bank, quella di Hebron. Anche se andando ad al-Fawwar non ho visto posti di blocco dei coloni, è vero che questa misura risulta essere sicuramente un’indiscriminata minaccia per tutti i palestinesi che vivono vicino agli insediamenti.

In questi giorni poi si susseguono le notizie di misteriose uccisioni arbitrarie in area palestinese. Si dice che i palestinesi stiano cercando di eliminare i collaborazionisti interni, anche se in molti casi le dinamiche delle uccisioni non sembrano molto chiare. Ad esempio si è parlato di collaborazionismo anche a proposito dell’uccisione del direttore della Tv palestinese perpetrata da tre uomini mascherati e armati di pistole munite di silenziatore, proprio il tipo di arma che, dicono i palestinesi, gli israeliani forniscono ai loro collaborazionisti palestinesi. E dunque chi sarebbe stato il collaborazionista, Hisham Mikki, il direttore della Tv palestinese, o i suoi assassini? Ma sono almeno due i palestinesi ammazzati in questi giorni di sicuro per mano israeliana. Uno a Gaza e uno al nord della West Bank.

I blocchi sulle strade palestinesi comunque sono meno serrati e la mobilità è un po’ più semplice, anche se mercoledì , nei trenta chilometri che separano Hebron da Gerusalemme ho incontrato almeno sei carri armati. Forse tutto questo è il risultato delle misteriose negoziazioni che pare stiano continuando ad andare avanti. Dico misteriosamente, perché non si capisce davvero di che cosa stiano discutendo l’Autorità palestinese e gli israeliani. Dai giornali ogni tanto sembra che si stia riconsiderando il piano di accordo proposto da Clinton, ogni tanto nuovi accordi sulla sicurezza, ogni tanto la definizione di un ennesimo accordo quadro definitivo. La cosa più sconcertante è che né Barak né Arafat hanno mai spiegato al proprio popolo che cosa sta succedendo, cosa vogliono ottenere e come. Barak ha fatto solo una specie di mea culpa pre-elettorale, che alcuni giornalisti israeliani hanno definito nello stile delle telenovelas. Ad ogni modo, come più volte mi hanno detto ad al-Fawwar, sembra che in queste negoziazioni si tratti di un affare privato tra Barak e Arafat, come se non ci fossero in gioco milioni di persone.

Dci-ps due giorni fa ha inviato un rapporto di aggiornamento sugli arresti di bambini palestinesi da parte dell’esercito israeliano, in contravvenzione dell’art. 37 della Convenzione sui diritti del bambino (Crc), ratificata da Israele il 2/11/1991.1 Anche se non ci sono dati molto aggiornati rispetto ai precedenti rapporti, il documento ci ricorda che dalla fine di settembre 2000 ad oggi sono stati arrestati più di 250 ragazzi sotto i 18 anni, spesso tenuti in isolamento dalle proprie famiglie e senza alcuna certezza rispetto ai tempi di procedura processuale, alcune volte perfino torturati durante gli interrogatori. I legali di Dci-ps hanno inoltre verificato che in tempi recenti le pene inflitte ai minori palestinesi per lancio di pietre sono notevolmente aumentate. Dai “canonici” sei mesi che venivano inflitti prima dello scoppio dell’Intifada, in questi giorni si è arrivati a chiedere la reclusione anche fino a 18 mesi. Dci-ps ci ricorda poi che per effetto dell’ordine militare n. 132, approvato da Barak nel maggio 1999 non appena eletto Primo ministro, si contano numerosi casi di arresti di quattordicenni. E per rimanere in tema di ragazzi, ieri è stata riportata la notizia di un sedicenne israeliano ucciso a Ramallah. In un primo momento si era creduto che fosse uno dei “soliti” collaborazionisti, poi si è risaliti all’identificazione del corpo in Ofir Nahum, residente ad Ashkelon, cittadina israeliana vicino a Gaza. I giornali israeliani hanno avanzato l’ipotesi che Ofir abbia conosciuto una ragazza palestinese via internet e abbia voluto incontrarla, nonostante i pericoli che questo poteva comportare. Sempre secondo i giornali israeliani Ofir sarebbe caduto in un’imboscata tesagli da alcuni giovani palestinesi e quindi ammazzato. La Repubblica on-line ha riportato subito la vicenda, con tutti i ricami di rito: il Romeo israeliano muore per andare ad incontrare la Giulietta palestinese.

Senza considerare il cattivo gusto nel riportare in questa maniera la notizia della morte di un ragazzo, vorrei fare alcune considerazioni che forse rischiano di andare fuori tema, ma magari possono aiutare a comprendere alcuni aspetti di ciò che io vedo qui.

Premetto che sono convinto che sarebbe meglio che non ci fosse alcuna violenza, da una parte o dall’altra, giustificabile o meno per ragioni politiche o sociali, da qualcuno o da nessuno.

Eppure nella violenza, negli scontri, nello stare sul campo a tirare pietre o a confrontarsi con l’esercito israeliano c’è una dose di emozione ed esaltazione che non puòò essere negata. Non so cosa provino i soldati israeliani con i loro fucili in mano, ma credo di sapere che cosa provano i palestinesi quando tirano le pietre. Due o tre mesi fa sono andato con alcuni amici a scattare delle foto sopra il ponte di Haloul, in mezzo ai ragazzi che tiravano i sassi ai soldati israeliani. La situazione era abbastanza tesa. I ragazzi non si fidavano di noi, perché avevano paura che fossimo agenti israeliani in borghese. Continuavano a mettere le mani sugli obiettivi, per non farsi riprendere in volto. Una volta acquisita una certa fiducia, ci hanno portati avanti, dietro alle vigne dove si nascondevano i ragazzi più esposti. Scherzando ci hanno mostrato le pallottole di “gomma” israeliane, delle palle di ferro di 500 mm ben pesanti. Poi ci hanno messo in mano delle pietre e ci hanno incitato a tirarle. Ovviamente non l’abbiamo fatto, ma devo confessare di aver guardato quelli di loro che le tiravano con un po’ d’invidia. Anch’io avrei voluto tirare un sasso a quei soldati che proprio in quei giorni stavano ammazzando così tanti bambini. Poi sono arrivati i colpi israeliani e ci siamo tutti acquattati nel prato. Alcuni ridevano, altri sembravano impauriti, ma quando si è visto che nessuno era stato colpito tutti hanno urlato e incominciato nuovamente a lanciare altre pietre. Era una specie di esaltazione collettiva, un po’ come quando da piccoli si gioca a guardie e ladri e una squadra vince sull’altra. E’ ovvio che quando qualcuno viene colpito, da una parte o dall’altra, il gioco diventa tragico e se quel giorno mi fossi preso una pallottola, anche solo di striscio, ora forse non la penserei alla stessa maniera. Eppure c’era esaltazione, divertimento, quello spirito di gruppo e di lotta che trascina le persone anche nelle situazioni più pericolose a cuor leggero. UnEmozione che in quel momento ho giudicato positiva.

E dunque, invece di pensare ad Ofir come al Romeo israeliano che sfida i pericoli per raggiungere la sua Giulietta palestinese, perché non proviamo a pensarlo come uno dei tanti ragazzi che vivono le situazioni di pericolo, di scontro e di conflitto anche con una certa esaltazione? A considerarlo solo un Romeo, si rischia di non comprendere una delle ragioni del conflitto, non solo di questo conflitto, ma di tutti i conflitti: che combattere, rischiare, trovarsi nella mischia è anche bello, soprattutto per i ragazzi, al di là delle ragioni per cui si combatte. L’esaltazione della battaglia, che tanti giochi dei bambini cercano di riprodurre, spiega forse più di qualsiasi condanna nei confronti dei genitori palestinesi il perché così tanti giovani si trovino in prima linea.

e’ ovvio che poi si debba utilizzare la ragione e attribuire le responsabilità adeguate affinché l’esaltazione e l’impeto non causino tragedie, ma a mio avviso si deve essere coscienti anche di questo lato oscuro del combattere e della lotta che è comune ai ragazzi come agli adulti. Finché lo si lascia in ombra a mio avviso non si riesce a descrivere del tutto ciò che accade. A voler comprendere o descrivere con la ragione, si descrivono solo le ragioni politiche, sociali, forse anche parzialmente umane, ma sicuramente non si dice tutto.

Per ora questo è tutto.

 

 

 

 

Nota

1 Si puòò trovare nella sua forma completa sul sito http://www.dci-pal.org/000101.htm.

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