Comunicati novembre 2000

 

 

Comunicato #10

Gerusalemme occupata 1/11/2000

Con la triste media giornaliera di cinque morti, anche la giornata di oggi è passata. E anche oggi nuovi giovani palestinesi hanno perso la vita, due a Gaza subito questa mattina, poi nel pomeriggio altri tre. L’attacco più duro e crudele da parte israeliana è partito verso le 14.00, quando, in risposta a supposti colpi di arma da fuoco da Beit Jalla all’indirizzo dell’insediamento del Gilo, sono iniziati i bombardamenti; sono seguiti gli scontri e le pietre ai posti di blocco, poi colpi di arma da fuoco e altri bombardamenti. Particolarmente duro è stato l’attacco su al-Khader, villaggio palestinese all’estremità di Betlemme. L i militari dell’esercito israeliano hanno bombardato dal cielo con gli elicotteri e da terra con più di tre carri armati, ferendo numerosi civili e uccidendo un poliziotto palestinese.

A quell’ora mi trovavo a Betlemme con i miei genitori, che sono casualmente e sfortunatamente in visita qui in Palestina. Siamo rientrati di fretta a Gerusalemme da dove abbiamo continuato a sentire i colpi dei carri armati fin verso le 18.00. Alle 19.00 alcuni elicotteri da guerra hanno sorvolato El Lazharia, dove si trova casa nostra. La radio palestinese Voice of Palestine, ha riportato di attacchi anche contro Gerico.

Purtroppo anche oggi le vittime sono giovani, soprattutto i due ragazzi di Gaza. E sull’età e le cause di morte dei palestinesi coinvolti negli scontri con l’esercito israeliano è arrivato ieri un rapporto del Medical Relief, Ong palestinese che si occupa di sanità. Questi alcuni dati:

I palestinesi uccisi fino ad oggi, per fascia di età, stando al Mr sono:

13,8% al di sotto dei 15 anni

20,3% tra i 16 e i 18 anni;

50% tra i 19 e i 29 anni;

8,7% tra i 30 e i 39 anni;

3,6% tra i 40 e i 49 anni;

3,6% tra i 50 e i 59 anni.

La maggior parte dei bambini uccisi non erano direttamente coinvolti in situazioni di conflitto o in scontri, sostanzialmente non stavano nemmeno lanciando sassi. Ad esempio Muayyad Usma Jawarish è stato freddato a Betlemme da un cecchino israeliano mentre faceva ritorno a casa da scuola, in un’area dove non c’erano scontri. Sara Abdul Azeem, di soli 18 mesi, mentre stava ritornando a casa col padre in un’area dove non c’erano scontri è stata colpita alla testa da una pallottola sparata da un colono israeliano.

In generale le principali cause di morte dei palestinesi sono così ripartite:

92% dei casi a causa di un proiettile;

1,4% a causa di gas lacrimogeni;

1,4% a causa di torture.

Sempre stando al rapporto del Medical Relief le ferite sono distribuite nelle parti del corpo secondo le seguenti percentuali:

26% alla testa o al collo;

70% nella parte superiore del corpo (torace);

58% nella parte superiore del corpo, anche escludendo la zona dei polmoni.

Fino ad oggi nel 98% degli scontri tra palestinesi e israeliani, i palestinesi hanno usato solo pietre.

Non riporto le conclusioni del rapporto, perché mi pare che i dati si spieghino abbastanza bene da soli: esiste una chiara intenzione di uccidere da parte dell’esercito israeliano; non c’è alcuna giustificazione di autodifesa da parte dell’esercito israeliano che potrebbe spiegare dati simili.

Dci-ps ha ottenuto, forse anche grazie alle lettere pervenute al Jerusalem Post (magari anche da parte di qualcuno di voi) il diritto di replica rispetto alla campagna diffamatoria intentata ai danni dei genitori palestinesi e dello loro stessa Ong. Il 31 ottobre 2000 a pag. 7 dell’edizione cartacea del Jerusalem Post è uscito un articolo-intervista a George, il direttore di Dci-ps. George ribadisce che la campagna diffamatoria contro i genitori palestinesi è un tentativo di distogliere l’attenzione dal vero problema portato nuovamente all’attenzione dalla Intifada dell’al-Aqsa (come ormai viene chiamata la protesta palestinese): 33 anni di occupazione militare israeliana. I palestinesi vengono accusati di mandare a morire i propri figli e questo rientra, secondo George, nella facile strategia dell’accusare la vittima. Per le donne violentate si trova la causa della violenza subita nella loro minigonna, per le donne picchiate nella pazienza logorata del marito e così via. Una simile strategia è razzista, afferma Dci-ps, perché implica che i genitori palestinesi non si curino dei propri figli, mentre altri genitori lo fanno. L’attenzione, continua George, viene spostata dallo sproporzionato uso di armi da parte israeliana all’incosciente comportamento dei genitori palestinesi. E nulla viene detto della chiara violazione dei diritti dei bambini da parte israeliana. Ad oggi sono state chiuse 30 scuole, fino a ieri tre sono state trasformate in basi militari (questa mattina la radio palestinese Voice of Palestine, riportava di altre due scuole convertite in basi militari da parte dell’esercito israeliano); 13.000 studenti e 500 insegnanti non sono in grado di raggiungere le scuole a causa della chiusura dei Territori palestinesi imposta dall’esercito israeliano (sempre Voice of Palestine, ha raccontato ieri di casi in cui l’esercito israeliano è addirittura intervenuto per impedire fisicamente l’accesso alle scuole, finendo per scontrarsi con gli studenti e gli insegnanti). E Israele, come fa notare ancora Dci-ps, non solo nei Territori occupati è responsabile di gravi violazioni della Convenzione dei diritti del bambino (Crc) che ha firmato nel 1989, ma non ha nemmeno mai presentato alle Nazioni Unite il dovuto rapporto sullo stato di attuazione della Convenzione stessa1.

Un altro dato allarmante di questi giorni sono gli episodi di rapimento da parte dei coloni israeliani e di arresto da parte dell’esercito israeliano. Di queste persone che vengono “prelevate” nessuno riesce ad avere alcuna informazione. Dei veri e propri desaparecidos. Ci sono alcune eccezioni, si è saputo ad esempio della sorte di due degli otto palestinesi sospettati di aver partecipato al linciaggio di Ramallah: sono stati assassinati (linciati!) a loro volta dai poliziotti israeliani, a furia di botte. Tra i casi di rapimento da parte dei coloni israeliani, sono stati riportati due casi di ragazzi di Betlemme.

Un po’ ovunque continuano le minacce da parte dei coloni israeliani contro i contadini palestinesi impegnati nella raccolta delle olive. Al ministero dell’Agricoltura palestinese è stato stabilito un piano per impiegare nei lavori agricoli le persone che sono rimaste senza lavoro a causa della chiusura dei Territori palestinesi. La città vecchia di Hebron è sotto coprifuoco per il trentatreesimo giorno consecutivo. Ad ora queste sono le informazioni. Da domani dovròò assentarmi dalla Palestina qualche giorno. Saròò di ritorno nella sera di lunedì 6 novembre. Riprenderòò a scrivere da quel momento.

A presto.

 

Comunicato n. 11

Gerusalemme occupata 8/11/2000

Dopo qualche giorno di assenza, vi mando solo qualche breve notizia, tanto per non far dimenticare che oltre al nuovo presidente americano oggi ci sono sette nuovi morti nei Territori occupati palestinesi: cinque civili palestinesi uccisi a Gaza e due in Cisgiordania.

La situazione non migliora, anche se è vero che alcuni cambiamenti ci sono stati. Su alcune strade ora è più facile circolare, almeno di giorno. I blocchi di cemento posti all’entrata di Haloul sono rimasti, ma è stato aperto un varco e non ci sono più i soldati israeliani a fermare le macchine. Lo stesso accade all’entrata a sud di Betlemme, quella -per intenderci- che porta a Deisha Camp.

Forse una relativa calma? Ma lo stato di assedio rimane. Ieri notte i bombardamenti su Beit Jalla si sono susseguiti per tre ore. Dall’Inad Theatre, Marina Barham, la responsabile del teatro, ci ha scritto un e-mail alle tre di notte. Era disperata. Lei, la sua famiglia, gli amici, i parenti non sanno più dove rifugiarsi. Beit Jalla non è come uno dei tanti insediamenti israeliani dotati di rifugi e misure di sicurezza per i civili. Beit Jalla è un paese esposto agli indiscriminati attacchi da terra e dal cielo di un esercito che mira alle case dei civili. Le case di alcuni amici, attori dell’Inad, hanno subito seri danni.

Questa sera verso le 19:00 il Jerusalem Post riportava di un nuovo attacco da parte di carri armati israeliani ai danni del villaggio di Beit Sahour.

Quindi, in definitiva, a che pro dire che è tornata una relativa calma? Quando le persone si sentono minacciate di morte in ogni momento, non credo che si possa parlare di tranquillità, calma, sicurezza e pace. Se anche si tornasse alla situazione del 27 settembre scorso (cioè al giorno prima dello scoppio della nuova Intifada), la condizione del popolo palestinese sarebbe pur sempre quella di un popolo assediato. Ad esempio in questi giorni gli israeliani, nel pieno diritto conferitogli dagli accordi di Oslo hanno chiuso l’aeroporto di Gaza per la terza o quarta volta. E meno male che proprio quell’aeroporto doveva essere uno dei segni più lampanti dei risultati ottenuti durante il processo di pace interrottosi in questi giorni.2

Purtroppo, da quando sono tornato, non sono ancora riuscito ad andare ad al-Fawwar, anche se ho sentito Tariq e gli altri per telefono. Al campo la situazione è di nuovo molto tesa. Mi hanno raccontato che praticamente da una settimana ogni pomeriggio ci sono scontri violenti; ma bisogna ricordarsi che questo significa che i palestinesi lanciano sassi e gli israeliani sparano. Due giorni fa un ragazzo di al-Fawwar è stato colpito allo stomaco da un proiettile israeliano. Ora si trova in condizioni stabili, ma critiche, presso l’ospedale di Hebron, in attesa di essere trasferito o in Germania o in Arabia Saudita (il governo tedesco in questi giorni ha deciso di trasferire nei propri ospedali 35 feriti palestinesi da Gaza e 15 dalla West Bank). L’entrata del campo è sempre chiusa dai blocchi di cemento presidiati dall’esercito israeliano. Talora - mi hanno detto- si riesce a passare per il vicino campo di zucche.

Alla situazione drammatica di questi giorni si è aggiunto un incidente molto grave: l’acqua del campo pare sia inquinata, con il risultato che nell’ultima settimana almeno 500 persone si sono ammalate. Non è possibile acquistare acqua da Hebron: con la chiusura pressoché totale, le autocisterne non possono entrare nel campo. Il ministero della Sanità palestinese ha già fatto cinque ispezioni per controllare la fonte principale, che tuttavia non risulta direttamente inquinata. Probabilmente si tratta delle condutture che, trovandosi per alcuni tratti a cielo aperto, si sono mischiate con le acque reflue o di scarico, determinando la presente grave situazione sanitaria.

Hebron rimane una città divisa e per metà sotto un coprifuoco che dura ormai da quasi 40 giorni e che costringe nelle loro case i suoi quasi 30.000 abitanti palestinesi. Ovviamente i coloni israeliani sono liberi di muoversi nell’area sotto coprifuoco.

Oggi sono andato in visita da Haroun (il direttore della Palestinian Red Crescent Society di Hebron) con il quale ho discusso della situazione sanitaria di al-Fawwar; sono riuscito ad incontrare anche Maesa, la mia ex collaboratrice. Il coprifuoco era stato sospeso per quattro ore e mi ha raggiunto nella parte più "tranquilla" della città. L’ho trovata molto provata dall’esperienza della reclusione collettiva, come lei ha chiamato il coprifuoco imposto sulla città.

Al momento queste sono le notizie, a presto.

 

Comunicato n. 12

Gerusalemme occupata 11/11/2000

Come non detto. Oggi, giornata della manifestazione nazionale italiana, i carri armati, i posti di blocco, i soldati che impediscono la mobilità dei palestinesi sono tornati a fare la loro parte in Cisgiordania e Gaza. Nel precedente messaggio vi dicevo che forse si intravedeva una relativa calma, pur con le dovute precisazioni del caso. Ebbene così non è stato oggi, come non è stato ieri, né tantomeno il 9 novembre. Ormai tutti sanno quel che ha fatto Israele: un elicottero dell’esercito israeliano ha bombardato in pieno giorno e nel pieno centro cittadino di Beith Sahour l’auto sulla quale transitava Hussein Abayat, leader del partito politico di Arafat, al-Fatah. Hussein è rimasto ucciso e con lui due donne che passavano nelle vicinanze, un secondo passeggero dell’auto è rimasto ferito; in quella zona in quel momento non c’erano né manifestazioni né scontri. L’accaduto ha suscitato una serie di proteste e quindi scontri nella giornata di ieri, che hanno aggiunto altri cinque morti alla lunga lista dei caduti palestinesi e un morto a quella dei soldati israeliani.

Ieri sono tornato insieme a Carlotta a Beit Jalla per far visita ancora una volta ai nostri amici dell’Inad Theatre. Ci hanno mostrato i danni del bombardamento della notte prima, un bombardamento che hanno definito il peggiore da quando sono cominciati gli scontri. Abbiamo visto i fori delle pallottole da 500 mm e quelli più grandi. Alcuni proiettili hanno raggiunto anche l’interno del teatro che fortunatamente non ha riportato danni seri, oltre allo sforacchiamento delle porte principali. Le due entrate sono state completamente crivellate, così come l’insegna del teatro.

Mentre parlavamo con Marina sono arrivate due o tre bambine con le scarpe da mezza punta in mano per la lezione di danza classica. Poco dopo è arrivata la loro insegnante ed è iniziata la lezione. Dei bambini del teatro, che fino a qualche settimana fa erano ancora numerosi, Marina ha detto esserne rimasti davvero pochi. I genitori hanno timore a mandarli nella zona dove si trova il teatro. E’ un’area troppo esposta, proprio in faccia all’insediamento del Gilo. Purtroppo l’ultimo bombardamento ha danneggiato l’impianto elettrico del teatro, per cui i loro computer e fax non funzionano più. Se vorrete potròò farmi da tramite per mandare eventuali messaggi di solidarietà o per rispondere all’appello che Marina ci ha mandato. Ve lo trascrivo in calce nella traduzione italiana, così che possiate farlo circolare in Italia soprattutto nel circuito artistico-teatrale.

Dopo la visita all’Inad abbiamo visitato le case palestinesi distrutte nei bombardamenti della notte prima. Due di queste sono state completamente devastate. Le famiglie colpite hanno organizzato un campo di tende, più simbolico che reale, proprio nelle vicinanze delle loro abitazioni distrutte. Non risulta che nessuno sulla stampa ne abbia parlato.

Anche oggi gli scontri sono continuati e ancor più forti di ieri; pare che ci siano più di cinque morti palestinesi e un soldato israeliano. E come vi dicevo sopra, gli israeliani hanno re-imposto le misure restrittive della mobilità dei palestinesi. Andando ad al-Fawwar, ho visto ancora una volta i posti di blocco che la settimana scorsa erano stati lasciati temporaneamente sguarniti. L’entrata a nord di Betlemme era completamente bloccata, quella a sud, venendo da Hebron, chiusa da due pattuglie di soldati israeliani. L’entrata di Haloul bloccata (senza blocchi di cemento, ma da una camionetta dell’esercito israeliano). Tutte le entrate ad Hebron (la cui parte H2 rimane sotto coprifuoco per il quarantacinquesimo giorno consecutivo) sono completamente bloccate, come sono sempre state, da blocchi di cemento, materiali di recupero e militari. Sulle alture della città, a dieci metri dalla strada che percorrevo, ho visto tre carri armati che una decina di giorni fa non c’erano.

Ad al-Fawwar l’entrata è tuttora chiusa, anche se oggi si riusciva ad entrare dal solito campo di zucche. Quel che invece è nuovo è il posizionamento, oltre alle solite due camionette dell’esercito, di un mezzo militare che sul tetto ha una mitragliatrice pesante. Nel campo stanno tutti bene, anche se questo aumentare della tensione sta provando tutti. Il Centro comunitario polivalente in queste ultime due settimane, ha assunto una funzione comunitaria sempre più forte. Hasan e Tariq mi hanno detto che quasi giornalmente si tengono riunioni di comitati della comunità per far fronte all’emergenza in corso. Pare che il problema dell’acqua si sia momentaneamente risolto: per il momento non ci sono nuovi casi di infezione intestinale. Si è costituito un Comitato per i lavoratori (circa 250 i membri), che grazie al supporto dell’United Nation Development Program (Undp) potranno avere un minimo salariale garantito in cambio di lavori “socialmente utili” all’interno del campo. Ripuliranno le strade, pittureranno l’asilo del Centro della riabilitazione insieme ad altri lavori che solitamente vengono trascurati. Purtroppo in queste ultime due settimane le attività per i bambini sono diminuite. I genitori, mi è stato riferito, hanno timore a lasciar uscire i bambini di pomeriggio, soprattutto ora che le giornate si fanno più corte (alle 16:30 qui in Palestina è quasi buio). E in effetti per le strade di al-Fawwar di bambini in giro ne ho visti molti meno del solito. Abbiamo comunque stabilito che Tariq e Hasan cercheranno di tenere il Centro aperto almeno due o tre volte alla settimana per attività rivolte a loro; peraltro il Popular Art Center di Ramallah si è offerto di venire a realizzare qualche giornata di animazione nel campo, sempre che sia possibile raggiungerlo. Sembra strano, ma i 50 chilometri, o poco più, che separano Ramallah da al-Fawwar in questi giorni sembrano una distanza enorme.

Andando via da al-Fawwar ho accompagnato a casa Abu Hiad, il responsabile Unrwa. Mi ha raccontato, con una voce particolarmente triste, che tutti i bambini stanno patendo la situazione di violenza che si protrae da più di sei settimane (ma che in realtà i giovani stanno vivendo ormai dal 1987). “I miei figli – mi ha detto – anche i più grandi (che hanno fino a 14 anni) non vogliono più dormire in camera da soli, ma vengono a dormire in camera mia, nel letto dove dormo con mia moglie”. Pare che sia un fenomeno comune nel campo.

All’uscita del campo ho deciso di fare alcune foto al mezzo militare con la mitragliatrice sul tetto. I soldati stavano puntando i ragazzi che dalla parte opposta della strada tiravano dei sassi. Non appena ho scattato le foto i militari mi hanno raggiunto per chiedermi i rullini. Dopo aver discusso a lungo mi hanno fatto parlare con un loro superiore che parlava italiano. Lui mi ha lasciato i rullini, ma aveva voglia di parlare e così ha cominciato a farmi delle domande sul mio lavoro. Mi è venuto spontaneo fargliene sul suo. Siamo stati l per circa una mezz’ora. Mi ha pure detto il suo nome: Ilan. Devo dire che discutere con questo militare israeliano sulla storia di Israele o sulle ragioni dell’olocausto, mentre i suoi soldati sparavano ai ragazzi di al-Fawwar mi ha fatto sentire un po’ strano. Da una parte non avrei mai voluto parlare con uno dei soldati che qualche giorno fa hanno ucciso Shadi, il ragazzo di al-Fawwar colpevole solo di telefonare sul tetto di casa sua. Dall’altra mi è parsa un’occasione unica per capire che cosa frulla per la testa di queste persone che vedo sempre e soltanto dietro a blocchi di cemento o mezzi militari corazzati. Comunque a ogni domanda “politica” lui mi ha risposto: sono un militare, non posso rispondere.

Ad un tratto la nostra discussione è stata interrotta da spari provenienti dalla cima della collina di fronte. Ilan ha chiesto chi fosse a sparare e un altro soldato con il binocolo ha individuato un altro gruppo di soldati israeliani che cercavano di accerchiare i ragazzi di al-Fawwar da lassù. I soldati sulla strada non sapevano nemmeno che altri loro commilitoni stavano facendo un’azione sulla collina!

Immediatamente Ilan ha dato l’ordine ad una camionetta di raggiungere la base della collina dove si trovavano i ragazzi di al-Fawwar. L giunta è stata colpita da una molotov. Ilan si è rivolto a me e mi ha detto: hai visto cosa ci fanno? E con questo si è conclusa la mia discussione con il soldato israeliano.

Sono tornato a Gerusalemme. Per il momento questo è tutto.

 

Appello dell’Inad Theatre

 

L’Inad Theatre è stato bombardato ancora

La notte del 7 novembre, l’Inad Theatre, l’unico teatro per i bambini nel sud della Cisgiordania, e il quartiere nel quale si trova sono stati bombardati dall’insediamento di coloni israeliani del Gilo, per la seconda volta in due settimane. Quando il teatro era stato bombardato per la prima volta il 21 ottobre, erano stati prodotti danni principalmente al secondo e al terzo piano del palazzo. Questa volta è andata peggio e sono state danneggiate le tre entrate principali. Due missili hanno colpito una delle porte creando un grosso buco, ma non sono riusciti a penetrare il muro insonorizzato. Tutte le entrate e l’insegna del teatro sono state crivellate di colpi. I pavimenti e i soffitti dei piani superiori sono stati ulteriormente danneggiati. Fortunatamente non si è sviluppato alcun incendio ma molte pallottole e schegge di missili sono state trovate sul palcoscenico e sul pavimento del teatro.

Più di un centinaio di case, nel quartiere in cui si trova il teatro, sono state danneggiate in un modo o nell’altro. Cisterne dell’acqua, muri, finestre e automobili sono state raggiunte da pallottole e da schegge di missili. Il bombardamento è durato per più di tre ore sulla nostra cittadina (Beit Jalla, ndt) e sul campo profughi di Aida. La famiglia Nazzal, (che vive accanto al teatro, ndt), la cui casa era stata già bombardata è fuggita dalla propria abitazione. I vicini che cercavano di aiutare la famiglia sono stati colpiti dalle schegge dei missili.

Secondo testimoni oculari almeno otto palestinesi sono stati feriti nel corso dell’attacco, fra di loro una bambina che vive accanto al teatro. Diverse case hanno preso fuoco e hanno subito gravi danni. Casa Kasieyyeh, già bombardata la settimana scorsa, questa volta è stata quasi distrutta insieme all’abitazione vicina. I residenti di Beit Jalla provano rabbia, paura, frustrazione e disperazione essendosi trovati sotto i bombardamenti per la nona volta nel corso delle ultime settimane. Vedere la propria casa distrutta, dopo tutta la fatica e il denaro che ci sono voluti per costruirla, è devastante. E’ più di quanto una persona dovrebbe sopportare.

I bambini hanno paura di tornare al teatro, soprattutto dopo essere stati sorpresi dal bombardamento di mercoledì 1 novembre 2000. I genitori non hanno più intenzione di farli tornare. Hanno paura per la loro vita. Anche noi non siamo sicuri che sia ancora prudente svolgere attività con i bambini all’interno del teatro.

Noi dell’Inad Theatre condanniamo fermamente i raids israeliani sulle aree residenziali di Beit Jalla.

Facciamo appello ai nostri amici, ai sostenitori e agli artisti nel mondo perché si uniscano a coloro che stanno cercando la pace e chiedono che questi attacchi brutali e inumani sui civili e sulle aree abitate abbiano fine.

Nicola, Khaled, Manal, Abeer, Sami, Raeda, Hazem, Rami e Marina (membri dell’ Inad Theatre)

 

Comunicato n. 13

Gerusalemme occupata 12/11/2000

Questa mattina un gruppo di espatriati provenienti da tutte le parti del mondo e residenti nei territori palestinesi, ha manifestato nella zona dei consolati di Gerusalemme est, Sheik Jarrah.

Ho partecipato anch’io alla manifestazione che aveva lo scopo di mostrare solidarietà con la popolazione civile palestinese, richiedere il rispetto delle risoluzioni Onu e il ritiro delle truppe israeliane dai territori palestinesi.

Giunti al Teatro nazionale palestinese di Gerusalemme si è sparsa la voce che poco lontano, presso la sede dell’Undp, si trovava Mary Robinson, la presidente dell’Alta commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, a colloquio con le autorità religiose di Gerusalemme. Spontaneamente è stata presa la decisione di andare fin sotto il quartier generale dell’Undp per richiederle un incontro. L giunti abbiamo discusso con il personale dello staff della Robinson. E’ stato concordato un incontro di una decina di minuti per una delegazione di sette persone. Gli italiani presenti alla manifestazione mi hanno chiesto di rappresentarli in questa delegazione. Di comune accordo con tutti i manifestanti si è deciso, nell’attesa dell’incontro, di stilare una lista di dieci punti da utilizzare come traccia per il colloquio con la Robinson. Sostanzialmente questi i punti principali:

abbiamo espresso preoccupazione per l’attuale situazione di aperta violazione dei diritti umani da parte di Israele ai danni della popolazione palestinese;

si è fatto appello affinché le risoluzioni Onu vengano fatte rispettare ad Israele;

si è ricordata la politica di indiscriminata espansione coloniale israeliana;

abbiamo denunciato l’utilizzo sproporzionato di violenza da parte israeliana e l’utilizzo sperimentale di armi letali da parte dell’Idf;

si è chiesta una forza di interposizione e protezione per i civili palestinesi, sottolineando al contempo che ad oggi non è stata condotta ancora alcuna inchiesta completa e seria sui fatti.

L’incontro con la Robinson è stato abbastanza breve, e, come suggerito dal personale del suo staff, invece che ricordare i fatti di violenza di questi giorni (che ha avuto modo di constatare di persona nel suo giro per la Cisgiordania e Gaza, dove l’esercito israeliano le ha impedito di circolare liberamente), le abbiamo posto alcune domande. Le abbiamo chiesto che cosa stiano facendo le Nazioni Unite per far rispettare le risoluzioni dell’Onu. La Robinson ci ha risposto di avere un mandato molto limitato rispetto a questo compito. Il suo ruolo si limita al monitoraggio della situazione. Ha peraltro ricordato la complessità del contesto politico in cui stanno avvenendo i fatti, pur riconoscendo che l’atteggiamento di Israele finora è stato negativo.

La mia sensazione personale è stata che non stesse rispondendo. Del resto suona abbastanza strano che ci siano paesi dove le Nazioni Unite devono chiedere il permesso per agire (Israele) e altri dove addirittura si arriva a condurre una guerra a “difesa” dei diritti umani, senza chiedere il permesso, non solo ai paesi interessati, ma nemmeno alle Nazioni Unite stesse (ex Jugoslavia).

Abbiamo chiesto che cosa puòò fare la società civile davanti alla violazione israeliana di tutte le convenzioni sui diritti umani sottoscritte, in particolar modo della Convenzione sui diritti del bambino (Crc). La Robinson ha detto che la società civile deve fare pressioni continue, soprattutto in un momento come questo in cui ad esempio Israele dovrebbe presentare il suo rapporto sullo stato di attuazione della Crc. Ha aggiunto di aver riscontrato in questo senso un buon impegno anche da parte della società civile israeliana. Saròò forse un po’ troppo polemico, ma anche in questo caso la risposta della Robinson mi è parsa un po’ troppo “diplomatica”.. Stando qui non si avverte per nulla l’impegno pacifista della società civile israeliana. Le organizzazioni pacifiste di maggior spicco riescono a fare qualche micro-dimostrazione, dove le parole d’ordine sono sempre molto caute! Troppo caute per rappresentare una vera sfida al governo laburista israeliano che non sembra essere su posizioni molto differenti da quelle del governo di estrema destra di Netanyahu, che avevo visto “in azione” nei primi mesi della mia permanenza qui in Palestina.

Uno di noi ha concluso osservando che a suo avviso l’attuale situazione di conflitto si è venuta a determinare non tanto per la visita di Sharon o per una premeditazione palestinese, quanto per l’uso eccessivo di forza e per i mezzi antidemocratici con cui Israele, che si definisce l’unica democrazia della regione, ha voluto “sedare” la protesta palestinese. La Robinson ha detto che durante la sua visita di questi giorni, pur avendo riscontrato un certo impegno da parte di Israele per risolvere i problemi di democrazia interna (conflitto israeliani-ebrei e arabi-israeliani) ha fatto ancora troppo poco per mantenere un atteggiamento democratico nei confronti della popolazione palestinese. Che sbilanciamento!!

Ironia a parte, questo pomeriggio, mentre il convoglio della Robinson transitava per Hebron, una delle auto è stata presa di mira da colpi di arma da fuoco: pare siano stati i coloni israeliani.

A Hebron ci sono stati forti scontri tutto il pomeriggio. Vige ancora il coprifuoco sulla città vecchia. Fin dalla mattina gli scontri hanno avuto un’intensità che non riscontravamo da un po’ di tempo, soprattutto nell’area di Betlemme e a Gaza. La strada che porta da Gerusalemme a Hebron è stata chiusa. Gli israeliani hanno dichiarato di aver risposto dall’insediamento del Gilo con missili anti-carro contro Beit Jalla, da dove dicono aver ricevuto colpi di arma da fuoco. Il risultato comunque è stato che più di otto palestinesi sono stati feriti, tra cui un bambino di 12 anni. Quando gli israeliani hanno colpito Beit Jalla era l’ora di uscita dalla messa (Beit Jalla è a maggioranza cristiana).

Per oggi non ho altre notizie. A presto.

 

Comunicato n. 14

Gerusalemme occupata 13/11/2000

Oggi è stato ancora un giorno nefasto; l’esercito israeliano ha ucciso due ragazzini di 14 e 16 anni, la cui unica colpa era quella di stare fuori casa. Non c’erano scontri a Gaza, ma l’esercito israeliano ha deciso di sparare lo stesso.

Nella strada tra Nablus e Ramallah tre coloni israeliani sono stati uccisi e un convoglio di soldati dell’Idf è stato attaccato. Otto soldati sono rimasti feriti.

Nel pomeriggio sono tornato ad al-Fawwar e la situazione è sempre uguale: i militari fuori dal campo, i ragazzi che tirano sassi; sembra quasi un appuntamento fisso. Io di solito arrivo verso le 13:00 e tutto è calmo; verso le 16:00, quando me ne vado, volano pietre, spari, bombe lacrimogene. La strada è sempre più deserta e la cosa mi fa un po’ paura.

Sopra ad Hebron stazionano sempre i tre carri armati e Haroun questa mattina mi ha detto essercene altri in altri punti. Ieri notte proprio uno di questi ha sparato un colpo che è caduto a poche decine di metri dalla sede della Prcs, sulla profumeria dove avevamo acquistato i materiali per il laboratorio di parrucchiera del Centro donne di al-Fawwar.

Oggi è il quarantacinquesimo giorno esatto di coprifuoco imposto sulla parte vecchia della città di Hebron. A quanto sembra i bombardamenti violenti da parte israeliana non si limitano più solo alla notte. Come vi ho già detto nel mio ultimo messaggio, ieri mattina Beit Jalla è stata presa di mira dai colpi dei carri armati israeliani proprio non appena erano finite le funzioni religiose della messa mattutina. Marina Barham era presente e oggi ci ha mandato un resoconto dettagliato di quanto è accaduto. Non sembra credibile che possano accadere cose simili, eppure accadono!

Qui la notizia della manifestazione italiana è arrivata solo per televisione (quindi si puòò immaginare come). Mi farebbe piacere sapere qualcosa di più, qualche impressione, magari anche qualche valutazione a caldo. Potrebbe essere un buon aiuto per comunicare agli amici palestinesi la solidarietà italiana. Anzi, faccio la proposta a tutti quelli che leggono questi comunicati e che hanno partecipato alla manifestazione, di mandare un messaggio e-mail qui in Palestina entro lunedì prossimo. Possono bastare anche solo due righe, possibilmente in inglese, per dire qualcosa alle persone in solidarietà delle quali si è manifestato. Scrivete in calce al messaggio il vostro nome, la vostra età e la città da cui venite. Io metteròò insieme tutti gli e-mail e farò circolare questo messaggio di solidarietà tra gli amici, le associazioni e le organizzazioni palestinesi.

In conclusione vi propongo di firmare la petizione elettronica, rivolta a Mary Robinson; potete accedervi visitando il seguente sito web: http://www.petitiononline.com/palpet/petition.html è molto semplice e veloce. Questa mattina quando io l’ho firmata ero all’incirca il 400°, questa sera ho visto che c’erano già più di 1100 firme.

Per ora questo è tutto.

 

Comunicato n. 16

Gerusalemme occupata 16/11/2000

Ieri otto palestinesi sono stati ammazzati dall’esercito Israeliano. Non so più se e come commentare queste notizie. Forse puòò aiutare di più consultare la ricerca sull’Intifada e il processo di pace condotta dalla Birzeit University in questi giorni. Nella sua forma completa potete consultarla presso il sito web: http://www.birzeit.edu/disp/

La ricerca, dal titolo “The Palestinian Intifada and the Peace Process”, è stata condotta da 55 ricercatori tra il 6 e l’8 Novembre in 75 località della Cisgiordania e Gaza, su un campione di popolazione di 1234 unità. La percentuale di errore calcolata dal Development Studies Programme, è del 3%.

Traduco i punti principali che sono stati estrapolati dai ricercatori stessi dall’analisi dei dati:

Il 74% degli intervistati sono contrari al coinvolgimento dei bambini negli scontri.

La maggioranza dei palestinesi (57,8%) è favorevole alla continuazione del processo di pace sulla base della legalità internazionale e delle risoluzioni dell’Onu.

La percentuale di coloro che sono favorevoli ad attacchi militari contro obiettivi israeliani è aumentata fino all’80% (nel marzo 1995 la percentuale dei favorevoli era del 33% e nei primi di agosto del 1998 era del 44%).

Di coloro che sono in favore di attacchi militari, il 41% è favorevole ad attacchi contro qualsiasi obiettivo israeliano, mentre il 38% è favorevole ad attacchi contro coloni e obiettivi militari.

Coloro che sono sfavorevoli ad attacchi militari contro i civili israeliani che vivono in Israele sono il 60%, mentre sono il 45% a Gaza.

Solo il 4% ha valutato positivamente il risultato del summit arabo del Cairo, mentre il 67,5% ne ha un’opinione negativa, il 23% è neutrale.

Il 75% degli intervistati è favorevole alla continuazione della presente Intifada, e il 68% pensa che l’obiettivo principale sia la liberazione e la costituzione di uno Stato indipendente palestinese.

Il 45,8% valuta positivamente quello che sta facendo il presidente Arafat, mentre il 17.8% lo valuta negativamente, il 33% ne dà una valutazione media.

Il 73% è favorevole ad operazioni militari contro obiettivi americani nella regione.

Il 78% dei palestinesi credono che prima o poi sarà costituito uno Stato indipendente.

Il 57% dà una valutazione positiva delle posizioni prese dalla popolazione degli altri Stati arabi, mentre il 18% le valuta negativamente, il 23% ne dà una valutazione media.

Riporto per intero le tabelle riassuntive delle risposte date ad alcune domande che riguardano la condizione infantile e la questione dei rifugiati (i numeri corrispondono alle percentuali sul campione).

 

Pensate che la violenza israeliana abbia avuto un impatto negativo dal punto di vista psicologico sui bambini della vostra famiglia?

Gaza Cisgiordania Totale

SI’ 91.1 81.3 84.9

No 5.8 10.4 8.7

Insicuri 0.5 0.4 0.4

Non risponde 2.7 8.0 6.0

 

Pensate che sia possibile una pace tra palestinesi ed israeliani senza che Israele riconosca il diritto al ritorno dei profughi palestinesi?

Gaza Cisgiordania Totale

SI’ 5.8 4.5 4.9

No 92.9 90.7 91.5

Insicuri 1.4 4.8 3.5

 

Pensate che ci sia davvero una possibilità che tutti i profughi rientrino dall’estero?

Gaza Cisgiordania Totale

SI’ 44.6 44.2 44.4

No 49.0 41.8 44.5

Insicuri 6.4 14.0 11.2

 

Siete favorevoli o siete contrari alla partecipazione dei bambini (sotto i 18 anni) negli scontri?

Gaza Cisgiordania Totale

Favorevoli 28.1 20.8 23.5

Contrari 70.7 76.2 74.1

Insicuri 1.2 3.0 2.3

 

Vi sentite sicuri rispetto al futuro delle nuove generazioni?

Gaza Cisgiordania Totale

Certamente si’ 8.2 5.3 6.4

SI’ 18.1 14.5 15.8

Mediamente 14.9 16.4 15.8

No 34.0 41.4 38.7

Decisamente no 21.1 17.9 19.1

Non hanno opinione 3.8 4.4 4.2

 

I risultati della ricerca sono stati riportati, parzialmente, anche dal New York Times, quotidiano notoriamente sionista.

Questa mattina ho ricevuto un appello del Medical Relief. Riguarda le scuole bombardate a Tulkarem, dove i carri armati non si sono fermati nemmeno davanti agli edifici scolastici.

Questa notte l’esercito israeliano ha bombardato per otto ore (!) la cittadina di Beit Jalla. Un medico tedesco che viveva l , è stato colpito da un missile mentre cercava di soccorrere i suoi vicini. Portato in ospedale si è tentato di salvarlo, amputandogli gli arti inferiori. E’ morto comunque.

Ancora una volta Marina, che abita a Beit Jalla e dirige l’Inad Theatre colpito più volte in questi giorni, ci ha mandato un appello per denunciare il bombardamento israeliano, che pare non abbia risparmiato nemmeno le ambulanze e il personale paramedico giunti in soccorso di Harry Fischer, il medico tedesco colpito da un missile. Il bombardamento è continuato per ore, dice Marina, con carri armati ed elicotteri che sparavano missili: la cosa più spaventosa. Marina non sapeva ancora quante persone fossero state ferite o quante case siano state distrutte. Sicuramente l’orrore per cui sono passati gli abitanti di Beit Jalla è maggiore di qualsiasi descrizione se ne possa dare.

 

Comunicato n. 17

Gerusalemme occupata 16/11/2000

Oggi pomeriggio, nel campo di al-Fawwar è stato ucciso un ragazzo di 20 anni, Sameer Mohammed al-Khdore, e altri tre sono stati feriti in maniera grave. L’esercito israeliano ha impedito alle ambulanze giunte in soccorso di entrare nel campo e ne ha sgonfiato le ruote per impedire che si potessero muovere.

Voglio tradurre lE-mail che Tariq mi ha inviato per informarmi dell’accaduto: “La situazione a al-Fawwar ha cominciato a peggiorare dopo le dieci di questa mattina, 16 novembre. Due ore dopo l’inizio degli scontri, un ragazzo di 20 anni, Sameer Mohammed al-Khdore, è stato ucciso e altri tre ragazzi sono stati feriti. La gente del campo, dopo aver sentito la notizia, ha cercato di raggiungere la casa del martire. L’esercito israeliano ha imposto una chiusura del campo ancor più rigida, oltre ad impedire all’ambulanza che portava il corpo di Sameer Mohammed al-Khdore di lasciare il campo. L’ambulanza infine si è diretta verso Hebron per una strada che prende più di un’ora, per quanto la città di Hebron disti da al-Fawwar solo 8 chilometri. Tutte le strade di accesso al campo sono state chiuse dall’esercito israeliano. All’incrocio che porta dentro al campo l’esercito israeliano ha sgonfiato le gomme di tre ambulanze della Red Crescent Society, per impedire di raggiungere al-Fawwar.”

La notizia è stata riportata anche dall’Agenzia di stampa internazionale Reuters.

Oggi pomeriggio ho partecipato al funerale di Harry Fischer, il medico tedesco di 68 anni che è stato ucciso a Beit Jalla da un missile israeliano, mentre prestava soccorso ai suoi vicini. La folla di persone accorse ha sfilato silenziosamente fino alla “Chiesa di Gerusalemme” di Beit Jalla, dove si è tenuta la cerimonia funebre. Bandiere palestinesi, tedesche, di al-Fatah, di Hamas e di altre formazioni politiche (Fronte popolare). Nella processione dalla chiesa al cimitero sono stati scanditi slogan che inneggiavano all’unità della nazione cristiana e musulmana. La bara, preceduta da una camionetta dell’esercito palestinese carica di fotografi, è stata portata alla maniera araba, ossia scoperchiata. Dopo il funerale - insieme a Carlotta e ad altri italiani - abbiamo visitato le case che sono state colpite dai bombardamenti di questa notte e abbiamo parlato con la gente. Molti di loro non hanno un posto dove andare per la notte e quindi rimarranno nelle loro case, molte delle quali sono senza acqua: le cisterne poste sui tetti sono state colpite dalle mitragliatrici israeliane.

Al ritorno a Gerusalemme ho saputo che proprio a cento metri dal mio ufficio, nei pressi del ministero di Giustizia israeliano, c’è stata una sparatoria. La zona è circondata dai posti di blocco dei militari israeliani.

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 20

Gerusalemme occupata 19/11/2000

Oggi ancora una volta non sono riuscito ad andare ad al-Fawwar come programmato. L’esercito israeliano mantiene sigillato il campo, impedendo alle persone di entrare o uscire, anche a piedi. Tariq, uno dei community activator del Centro comunitario polivalente di al-Fawwar, ha dovuto trascorrere la scorsa notte da amici nel campo profughi di Arroub, perché impossibilitato a rientrare a casa. Solo verso la sera è riuscito a raggiungere a al-Fawwar.

Tutto questo nonostante quella che mi viene i brividi a chiamare “relativa calma”. Maesa, la mia ex-collaboratrice che vive nella parte di Hebron sotto coprifuoco per il cinquantatreesimo giorno consecutivo, dice essere stata la prima notte di relativa tranquillità. Gli alti ufficiali dell’esercito israeliano (Mofaz in particolare) hanno dichiarato oggi che percepiscono i segni di un calare della tensione e dell’incidenza degli scontri. Ma dicono non essere ancora abbastanza! Non basta nemmeno che Arafat abbia ordinato di non sparare dalle aree sotto completo controllo palestinese. Cosa si aspettano gli israeliani? Che la polizia palestinese li difenda dai sassi e arresti i ragazzi che scendono in strada?

Che Barak scopra le sue carte!

Sarebbe necessario chiederglielo, così come suggerisce Uzi Benziman, in un articolo apparso oggi sullEdizione inglese dell’Haaretz, reperibile sul sito internet (www.haaretzdaily.com/htmls/1_1.asp). Benziman chiede a Barak di dichiarare pubblicamente quali sarebbero state le sue “concessioni” a Camp David, ad esempio: che percentuale di profughi palestinesi Israele è pronta a riassorbire, che modifiche ai confini del 1967 i palestinesi dovrebbero essere pronti ad accettare e così via. Benziman conclude il suo articolo dicendo che solo un’aperta dichiarazione di quanto è stato proposto da Barak ad Arafat puòò far comprendere se questa sia una guerra “necessaria”.

Per quanto sia impossibile concordare con questa definizione proposta da Benziman è pur tuttavia vero che ad oggi nessuno sa che cosa gli israeliani abbiano proposto a Camp David, mentre tutti sanno di preciso che cosa hanno chiesto e chiedono i palestinesi.

Rimangono alcuni fatti.

Rimane il fatto che anche oggi l’esercito israeliano ha ucciso due ragazzi a Gaza, uno minorenne e uno di poco più di vent’anni.

Rimane il fatto che i movimenti in Cisgiordania e a Gaza sono pressoché impossibili.

Rimane il fatto che anche gli aiuti umanitari non hanno il permesso di arrivare a destinazione. Questa mattina i camion di una Ong italiana che ha un progetto di distribuzione alimentare per le comunità beduine dell’area di Betlemme ed Hebron, sono stati fermati dall’esercito israeliano. I soldati hanno impedito che i camion raggiungessero le tribù beneficiarie del loro intervento.

E rimangono ancora tutti i fatti dei giorni scorsi che nell’avvicendarsi delle notizie non sono stato in grado di raccontarvi. Ad esempio che qualche giorno fa l’esercito israeliano ha fermato un palestinese a Beit Ummar, gli ha intimato di scendere dall’auto e proseguire a piedi; quando questi ha protestato, essendo l’auto in affitto, i soldati gli hanno sparato alla testa a distanza ravvicinata (fonte: televisione palestinese).

Rimane il fatto che i soldati israeliani tre giorni fa, nei pressi di Hebron hanno fermato quattro palestinesi in attesa di un taxi, li hanno arrestati e poi, a seguito delle loro proteste, gli hanno sparato uccidendone due e ferendo gli altri due.

Rimane il fatto che i soldati israeliani hanno adottato come procedura di routine di sparare alle ruote delle auto palestinesi per impedirne i movimenti.

Rimane il fatto che lo sradicamento degli olivi, la confisca delle terre e la devastazione dei campi coltivati palestinesi continua giorno dopo giorno sia per mano dell’esercito israeliano sia per mano dei coloni israeliani.

Rimane il fatto che le richieste di un intervento deciso da parte delle Nazioni Unite ad oggi hanno suscitato in Kofi Annan solo l’idea di creare una commissione di osservatori, sul tipo della Tiph di Hebron. E solo a parlare dieci minuti con chiunque abbia vissuto questi ultimi anni a Hebron ci si rende conto di quanto inefficace e inutile sia stata la presenza di questi osservatori internazionali (carabinieri italiani inclusi) che non fanno altro che prendere appunti, scattare fotografie o girare filmati, sempre a distanza di sicurezza dalle situazioni di conflitto.

Il dottor Robert Kirschner, membro dell’organizzazione americana Physicians for Human Rights in the United States, a seguito di una sua visita in Cisgiordania e Gaza ha negato che l’esercito israeliano stia usando pallottole dum dum. Il suo report è intitolato “Evaluation of the Use of Force in Israel, Gaza and the West Bank - A Medical and Forensic Examination.”. Kirschner dice che gli israeliani usano “solo” pallottole ad alta velocità (pallottole da 7.62 mm. E 5.56 mm., usate, a detta degli ufficiali dell’Idf, da “numerose organizzazioni ed eserciti nel mondo”). Sfortunatamente per i palestinesi, questo tipo di pallottole hanno più o meno gli stessi effetti devastanti sul corpo umano: una volta perforati i tessuti umani cambiano direzione all’interno del corpo, disintegrandosi in esso e producendo schegge e polveri letali.

Sta di fatto che, come dice Moustafa Barghouti - responsabile per conto della Palestinian Authority del monitoraggio medico degli incidenti di questi giorni: “In realtà non importa se loro (gli israeliani, ndt) stiano usando o meno pallottole dum dum. Ora siamo coscienti dei danni causati dalle pallottole ad alta velocità, che si comportano come le pallottole dum dum, anche se non si possono definire tali. Abbiamo a che fare con armi che sono pensate per la guerra e non per essere utilizzate sui civili”.

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 20/1

Gerusalemme occupata 20/11/2000

Questa mattina a Gaza un pullman di coloni israeliani è stato colpito da una bomba. A bordo del pullman, corazzato e scortato da camionette militari, viaggiava un gruppo di bambini israeliani e alcuni adulti. Le notizie dei giornali israeliani e delle principali agenzie di stampa parlano di 2 morti (adulti) e quasi 10 feriti (tra i quali alcuni bambini) Rispetto all’accaduto vorrei fare alcune considerazioni. Ma ancor prima delle considerazioni una premessa: qualsiasi bambino muoia in questo conflitto, palestinese o israeliano che sia, è una vittima la cui morte è ingiusta e immorale. Ogni attacco, azione militare, azione dimostrativa che abbia tra le sue vittime dei bambini è deprecabile e va condannata con forza, da qualsiasi parte provenga. Ma vengo alle considerazioni. In questi ultimi giorni, nonostante i bambini palestinesi continuassero ad essere ammazzati dall’esercito israeliano, nonostante i bombardamenti si susseguissero, con il loro tragico bilancio non solo di morti, ma anche di feriti e case distrutte solo dalla parte palestinese, i media italiani, così come parte di quelli stranieri hanno diminuito il “gettito” informativo. Forse ci si abitua troppo velocemente alla morte, soprattutto se i numeri si aggiungono da una sola parte al mucchio, e così non si presta nemmeno tanta attenzione se tra questi numeri ci sono bambini. Sono rimaste invece le polemiche, o per lo meno il loro strascico, con le quali si è voluto accusare il mondo adulto palestinese per l’utilizzo strumentale della morte dei loro figli. Oggi invece tutti i media parlano, a buon diritto, dell’orribile accaduto di Gaza che ha come vittime i bambini israeliani. Credo che pero’ ci sia una differenza sostanziale nelle responsabilità che vanno attribuite per la morte dei bambini palestinesi e per il tentativo di uccidere i bambini israeliani. Innanzitutto le responsabilità dirette. Un esercito armato e organizzato ha la responsabilità diretta della morte dei bambini palestinesi. Gruppi non direttamente ricollegabili ad un esercito vero e proprio sono responsabili per le ferite dei bambini israeliani. Da queste responsabilità dirette è evidente che mentre uno Stato, Israele, puòò essere ritenuto responsabile per quanto il suo esercito fa, una società intera, quella palestinese, non puòò essere accusata di quanto soffrono i bambini israeliani. Veniamo alle responsabilità indirette. Ai genitori palestinesi in questi giorni si rinfaccia di essere gli “indiretti” responsabili della morte dei loro figli. Questo senza che nessuno abbia mai provato che ci siano genitori o gruppi che incitano alla violenza i bambini o i ragazzini (non ci troviamo infatti nella situazione della Sierra Leone dove i bambini vengono rapiti, drogati e arruolati; qui i bambini, se partecipano agli scontri, vi partecipano nonostante gli sforzi che il mondo adulto palestinese fa per impedirglielo) E per i bambini israeliani? La responsabilità indiretta è sicuramente dei loro genitori, i coloni, che coscientemente hanno deciso di vivere su terra rubata e internazionalmente riconosciuta come spettante al popolo palestinese. Che dire quindi della loro responsabilità? Perché nessuno accusa i coloni israeliani che costringono i propri figli a vivere in quegli insediamenti che hanno più l’aspetto di fortificazioni militari invece che di normali comunità? I genitori israeliani delle colonie sanno che vivono in un contesto pericoloso, per loro e per i loro bambini, altrimenti perché manderebbero a scuola i loro figli in autobus corazzati e scortati dall’esercito? La loro è una scelta precisa, che certamente non toglie alcuna responsabilità diretta a chi compie attacchi o operazioni militari contro i loro figli, ma che sicuramente li carica della responsabilità indiretta che questa stessa scelta implica. I coloni scelgono coscientemente di vivere in una terra che non è la loro, per quanto affermino il contrario, e chi è consapevole che il diritto internazionale vale più delle promesse che Dio ha fatto al popolo ebraico più di 3.000 anni fa deve agire per attribuire le responsabilità dirette e indirette a chi spettano. Tutti si devono rammaricare e sentire profondamente offesi per la morte o il ferimento di bambini in questo conflitto, ma è necessario smettere di accusare i genitori palestinesi per la responsabilità indiretta che hanno nella morte dei loro figli e cominciare ad accusare i genitori coloni israeliani che costringono i loro figli a vivere in una situazione di illegalità che mette la loro vita a rischio.

Così come credo sia necessario cominciare a chiamare anche i bombardamenti israeliani su Gaza terrorismo! Sono state uccise due persone e più di 150 sono rimaste ferite, senza contare i danni alle strutture: come si potrebbe chiamare altrimenti un’operazione militare che ha avuto per obiettivo la popolazione civile? e’ necessario chiedere ai nostri media di raccontare la verità con le definizioni giuste! Scriviamo lettere, fax e mail a coloro che continuano a distorcere la verità, anche quando la verità è chiara di per sé: gli israeliani stanno massacrando i palestinesi perché lo Stato di Israele non è pronto per la pace. Ieri era l’undicesimo anniversario della Convenzione dei diritti del bambino. A questo proposito Dci-ps ha fatto circolare un appello che si puòò trovare sul loro sito (www.dci-pal.org).

Continuano gli attacchi dei coloni israeliani contro i palestinesi, l’Alternative Information Center ha diramato un altro rapporto. Rispetto alla questione dei coloni vorrei ricordare un particolare che viene ribadito troppo poco: i coloni israeliani, che sono civili, hanno il diritto di girare armati ovunque, senza alcun controllo da parte dell’esercito israeliano!

 

Oggi è martedì , circa una settimana fa avevo chiesto a tutti coloro che leggono quanto viene inviato da qui e hanno partecipato alla manifestazione di Roma, di far sentire ai nostri amici palestinesi la propria voce di solidarietà, scrivendo due righe, qualche parola (possibilmente in inglese) che io poi potessi copiare su un volantino o un comunicato da far circolare tra le persone e le associazioni che conosco. Mi rammarico e mi vergogno a dirlo, ma ho ricevuto solo tre messaggi. Solo tre persone, che rappresentano ciascuna delle realtà associative più o meno grandi, hanno risposto a questo appello. Ovviamente mi scuso con loro, ma non farò circolare un messaggio di solidarietà firmato da tre sole persone, come se questi rappresentassero i manifestanti di Roma. Mi impegneròò di sicuro a recapitare i loro messaggi, ma sicuramente non potròò dire ai palestinesi che questi rappresentano la voce di coloro che hanno manifestato a Roma. Coloro che hanno manifestato a Roma sono rimasti zitti. Non so e non capisco perché. Forse ho utilizzato un sistema sbagliato per chiedere alle persone di esprimere la propria solidarietà? Ci sono certamente modi più efficaci per far sentire la solidarietà, questo è sicuro, ma non credo che l’uno impedisca l’altro. Due o tre minuti da spendersi al computer, anche per scrivere due righe in italiano, non credo siano mancate a nessuno. Ma tra le centinaia di destinatari di questi comunicati, solo tre hanno deciso di farlo. Mi chiedo perché e soprattutto mi chiedo che cosa stia significando per chi legge questi comunicati ciò che scrivo.

Con rammarico.

 

Comunicato n. 22

Gerusalemme occupata 23/11/2000

Ieri l’attentato al bus di Khadera, in territorio israeliano, ha fatto dimenticare quanto è accaduto la mattina stessa a Gaza, nei pressi di Rafah. Due automezzi privati palestinesi, che transitavano nelle vicinanze dell’insediamento israeliano di Morag sono stati colpiti dal fuoco di un carro armato dell’esercito israeliano. I due automezzi, dai quali non è stato sparato alcun colpo di arma da fuoco, sono stati presi di mira senza alcun motivo dai soldati israeliani. Quattro palestinesi sono morti e otto sono rimasti feriti. Le ambulanze intervenute non hanno avuto il permesso di soccorrere i feriti e recuperare i corpi delle persone uccise. I soldati israeliani hanno tenuto i corpi dei palestinesi uccisi e i feriti all’interno dell’insediamento di Morag per più di un’ora e mezza. Uno dei feriti è stato arrestato. Alla stampa non è stato permesso di fotografare. Questi avvenimenti stanno aumentando il clima di terrore che Israele intende imporre come soluzione dell’attuale crisi.

Oggi su Nablus un aereo da guerra ha lanciato una bomba da addestramento sulla città, “per errore” hanno dichiarato le autorità militari israeliane. Le vittime palestinesi degli scontri si contano un po’ ovunque. Non so dirvi esattamente quante persone oggi abbiano perso la vita o siano rimaste ferite.

Ieri, a Teqoa, un villaggio a pochi chilometri da Betlemme, un colono è arrivato in paese con un fuoristrada e si è fermato davanti ad una pasticceria dove si trovavano alcuni ragazzi palestinesi. Fra di loro c’era un ragazzo che alcuni giorni prima era già stato minacciato. Il colono, dopo essere sceso dall’auto, ha sparato sul gruppo di ragazzi con una mitraglietta Uzi. In tutto ci sono stati quattro feriti gravi. Avvenimenti come questo capitano ogni giorno in molti dei villaggi palestinesi che si trovano vicino agli insediamenti. Nella maggior parte dei casi i testimoni riportano di avere visto i soldati agire insieme ai coloni sia in atti di vandalismo contro i beni (terre, coltivazioni, abitazioni ecc.) sia in atti di terrore nei confronti della popolazione civile palestinese (spari contro le auto, spari contro le abitazioni e gli abitanti ecc.).

Ieri mattina nel centro storico di Hebron, che vi ricordo essere sotto coprifuoco da 55 giorni consecutivi, i soldati e i coloni israeliani dell’insediamento che si trova in mezzo alla città hanno distrutto tutte le bancarelle del mercato palestinese della frutta e della verdura. Le scuole, che già vi ho scritto essere state occupate dall’esercito israeliano, continuano ancora ad essere usate come basi militari. Migliaia di bambini e ragazzi sono ancora obbligati a stare chiusi in casa insieme ai loro genitori, giorno e notte, tranne quando i militari, con i megafoni, annunciano la sospensione del coprifuoco per qualche ora.

e’ di oggi la notizia che tutti gli uffici di contatto tra forze di sicurezza palestinesi e israeliane sono stati chiusi per decisione unilaterale di Israele. Israele in sostanza sta diffondendo un clima di vero terrore tra la popolazione civile palestinese. Amira Hass, giornalista dell’Haaretz, ha definito l’attuale situazione una “libanizzazione” del conflitto3.

Qualche giorno fa ho scritto ancora una volta delle accuse ai genitori palestinesi. Ieri, sull’edizione internet del Jerusalem Post, è uscito l’ennesimo articolo sulla questione. Veniva riportata anche la ricerca delle Birzeit University, dalla quale nei giorni scorsi ho estrapolato dei passi e sintetizzato i punti principali. Ebbene l’articolista afferma che, benché il 70% o più degli intervistati consideri negativamente il coinvolgimento dei bambini negli scontri, il fatto stesso che la domanda sia stata posta significa che il problema esiste…

Per capire meglio che cosa intendono per bambini in Israele potete leggere l’intervista che Amira Hass ha fatto ad un tiratore scelto israeliano. E’ stata tradotta in italiano da Carlotta ed è stata pubblicata su il manifesto del 22/11/2000. In sintesi sembra che i soldati israeliani possano sparare a tutti coloro che hanno più di 12 anni perché questa è lEtà per i bambini ebrei del Bar Mitzva, ossia il rito religioso con il quale entrano nella comunità degli adulti. Non sembra dunque un caso che Israele, come ha ricordato Dci, non abbia ancora presentato il suo rapporto alla commissione delle Nazioni Unite per i diritti dei bambini.

La strada per andare ad al-Fawwar, è sempre più desolata. Dopo Betlemme non transitano quasi più auto, ma solo mezzi militari, soprattutto se si prende la by-pass road, ossia la strada che gira intorno alle città palestinesi e tocca solo gli insediamenti israeliani. A passare per i villaggi e le città palestinesi si impiegherebbero ore. Ogni strada è chiusa con blocchi di cemento e materiali di recupero posti dai soldati israeliani per impedire la mobilità dei palestinesi. Le persone arrivano fino ai blocchi con i taxi, scendono, scavalcano le barriere a piedi e quindi proseguono con altri taxi che li aspettano dall’altra parte. Quando va bene…: molte volte i soldati bloccano i taxi e fanno attendere i passeggeri ore interminabili. A volte decidono pure di sgonfiare o tagliare le gomme.

Ma ritorniamo ad al-Fawwar. L’entrata del campo è sempre chiusa. Ora non si puòò nemmeno passare per la strada parallela del campo di zucche. Se ne è creata un’altra, che fa un giro molto più largo. Di l i soldati lasciano passare qualche auto. Ma il loro nuovo sistema per impedire ai palestinesi di muoversi consiste proprio in questo: lasciano passare le auto, ma ad un certo punto le seguono con le loro camionette e le bloccano in mezzo alla strada del campo. L sequestrano le chiavi al conducente per ridargliele ore dopo o non riconsegnarle affatto e quindi di l non riescono a passare altre auto. Uscendo da al-Fawwar anche io sono stato seguito da una camionetta di militari. Mi sono fermato e ho tirato fuori le mani dal finestrino mentre i soldati uscivano dal loro mezzo militare puntando i fucili. Mi hanno lasciato andare dopo aver visto il mio passaporto, ma se fossi stato un palestinese non so se sarebbe andata alla stessa maniera. E devo dire che dopo aver sentito quanto era accaduto ieri mattina a Gaza, mi sono davvero impaurito.

Una volta uscito da al-Fawwar sono stato fermato un’altra volta a Beit Haggai, l’insediamento vicino al campo, da dove ieri i coloni hanno sparato sulla strada contro le auto in transito. L "solo" un controllo di routine per me, mentre i taxi palestinesi venivano rimandati indietro verso non so dove, visto che tutte le strade che portano a villaggi e città palestinesi nelle vicinanze sono chiuse. Qualche chilometro più avanti, in corrispondenza dell’entrata a sud di Hebron ho incontrato una ventina di auto della polizia e una ventina di jeep dell’esercito. In mezzo alla strada stava un gruppo di coloni israeliani. Un militare mi ha fermato spiegandomi che quelli (i coloni) stavano ‘solo’ pregando. In mezzo alla strada? Armati? Fortunatamente non è accaduto nulla.

Ma non solo, pare che l’Idf stia usando anche mine antiuomo Sembra che l’esercito israeliano non si accontenti di incutere terrore con atti come quello di ieri mattina a Gaza. Dci-ps ha diffuso un comunicato in cui i soldati israeliani vengono accusati di piazzare mine antiuomo in corrispondenza dei punti di chiusura dei territori.

Alcune delle persone che leggono questi messaggi hanno cominciato a mandare delle informazioni circa articoli di giornale o servizi televisivi che riportano le notizie sull’attuale conflitto in maniera distorta. Invito tutti a continuare in quest’opera di monitoraggio. Se si riuscissero a coordinare anche azioni di protesta come quella che abbiamo proposto qualche giorno fa per criticare i servizi della Rai, ancora meglio. Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 24

Gerusalemme occupata 27/11/2000

Oggi inizia il Ramadan e gli israeliani, proprio questa mattina verso le quattro hanno già ammazzato cinque palestinesi nei pressi di Qalkilia. Ieri è stata la giornata della manifestazione degli “internazionali” a Ramallah per mostrare solidarietà ai palestinesi e far vedere loro che non tutti i non-palestinesi hanno deciso di andare via (come invece hanno fatto molti rappresentanti delle Nazioni Unite).

Carlotta ha partecipato insieme ad altri italiani. Circa 130 persone erano presenti; molti i giornalisti sia locali che internazionali. La manifestazione è partita da Manara Square per concludersi proprio sotto l’insediamento di Psagot da dove ogni notte i coloni e i soldati israeliani sparano sulle abitazioni dei civili palestinesi. I manifestanti hanno visitato una casa bombardata dove due palestinesi hanno perso la vita. Gli “internazionali” si sono assunti l’impegno di compiere ulteriori azioni dimostrative per richiamare l’attenzione della comunità internazionale su ciòo’ che sta accadendo ai palestinesi in questi mesi.

Io sono andato a al-Fawwar dove stiamo per avviare la clinica di prima emergenza presso il Centro comunitario polivalente. Prima di andare ad al-Fawwar passo ad Hebron per salutare Haroun, il collega della Palestinian Red Crescent Society (il corrispondente arabo della Croce Rossa). E’ occupatissimo perché l’emergenza sta diventando la routine. Mi racconta delle mille difficoltà che sta attraversando l’ospedale che si trova nella parte della città sotto coprifuoco: i pazienti non possono più raggiungerlo e questo, oltre a causare un danno a chi ha bisogno di cure, sta creando un deficit inimmaginabile per la struttura. I costi di funzionamento, per le attrezzature e per il personale, non sono più sostenibili.

Visto che sono a Hebron decido di visitare Maesa, la mia ex collaboratrice, che vive nella zona della città sotto coprifuoco dal 30 settembre.

Il coprifuoco è stato tolto per qualche ora e così posso camminare “liberamente” per Shouada Street, la strada dove si trova l’insediamento israeliano e che porta direttamente nel cuore della città vecchia.

All’entrata, tutta ingombra di macerie, c’è un primo posto di blocco corazzato dell’Idf. Subito dopo aver percorso cento metri di strada sulla quale si affacciano solo case palestinesi (finestre e porte completamente sigillate) si passa davanti alle tre o quattro case dell’insediamento israeliano. L davanti un altro posto di blocco, all’incirca una ventina di soldati in assetto da guerra. Subito dopo si passa davanti all’incrocio con la strada che fino a qualche mese fa i palestinesi potevano percorrere con le proprie auto (uno dei risultati dell’accordo di Sharm el-Sheik del settembre 1999).

Percorsi ancora duecento metri di strada pattugliata da una decina di soldati, si arriva al mercato della frutta e della verdura, l’inizio della città vecchia vera e propria. Là ci sono le bancarelle distrutte qualche giorno prima dall’esercito e dai coloni israeliani. Un dispetto.

Più avanti ancora un altro posto di blocco corazzato e quindi si imbocca la strada che passa davanti al cimitero e che porta o alla Moschea/Sinagoga dei Patriarchi o alla zona industriale di Hebron. A questo bivio, sul tetto di una farmacia palestinese, l’esercito israeliano ha costruito un posto di avvistamento con sacchi di sabbia e una parabolica per tetto. L è appostato un soldato che imbraccia un fucile di precisione con mirino telescopico. In lontananza si vede la scuola elementare palestinese occupata dall’esercito israeliano. L stazionano due carri armati. La notte precedente proprio da questi carri armati sono stati sparati colpi di mortaio dalle 22:00 fino alle 4.00.

Un gruppetto di bambine con la divisa a righe della scuola pubblica passa proprio sotto la postazione israeliana. Il soldato dall’alto urla: “Dove state andando?”, loro rispondono che casa loro è dietro l’edificio. Il soldato fa cenno con il fucile di passare. Le bambine corrono via.

Procedendo per la strada incontro ancora militari, a gruppetti di quattro o cinque, che nonostante la sospensione del coprifuoco fermano le persone, chiedono i documenti e a loro discrezione mandano indietro alcuni e fanno passare altri. Contrariamente a quanto mi aspettavo fanno transitare anche qualche auto, mentre ad alcune auto, che probabilmente sono state lasciate passare da altri militari, sgonfiano le ruote.

Finalmente arrivo a casa di Maesa. La famiglia mi racconta la notte passata sotto ai colpi di cannone. Mi dicono di aver sbirciato sul tetto di casa ed aver visto i proiettili passare proprio sopra le loro teste.

Dopo circa un’ora decido di riprendere la strada per al-Fawwar. Con me esce anche Wajda, una delle sorelle di Maesa che ha da portare dei vestiti di ricambio a Buran, la sorella. Per poter seguire i corsi dell’Università Buran ha dovuto affittare una stanza a Betlemme, così da non dover sperare ogni giorno nella temporanea sospensione del coprifuoco. Wajda ha un po’ più di libertà di movimento perché lavora alle Nazioni Unite, ma anche questo non impedisce ai soldati di fermarla e spesso rimandarla indietro.

Passando sotto la farmacia da cui il soldato osserva il bivio per la moschea/sinagoga, Wajda mi racconta che proprio quel soldato qualche giorno prima l’ha fermata puntandole il fucile contro. Lei ha mostrato la sua carta di riconoscimento da dipendente Un e il militare l’ha ispezionata dall’alto col binocolo. Poi le ha fatto cenno di procedere.

Passato il controllo dei passaporti al posto di blocco militare dell’insediamento israeliano, iniziamo a percorrere gli ultimi cento metri di zona araba. L le finestre hanno cominciato ad aprirsi e c’è qualcuno per strada. Da una porta esce una signora; io e Wajda stiamo ridendo: lei mi racconta di esser stata spesso scambiata per una colona (ha i capelli lunghi, non porta il velo e le piacciono i cappellini che di solito usano le israeliane). La donna cerca di convincere una bambina in lacrime ad uscire per strada. Indica noi e cerca di tranquillizzarla facendole vedere che noi ridiamo e che non c’è nulla di cui preoccuparsi (come mi traduce Wajda). La bambina è disperata e punta piedi e mani per non uscire dal portone.

Dall’altra parte dell’ultimo posto di blocco Hebron sembra un’altra città. Per il Ramadan le bancarelle si sono moltiplicate. La gente fa acquisti come da noi nei giorni prima di Natale. Ovviamente c’è più povertà, quindi si comprano calze, canottiere, fichi secchi, arance e piccola paccottiglia.

Davanti all’ufficio della Prcs incontro i giornalisti della Rai (radio-giornale), de Il Sole 24 Ore e del Corriere della Sera che il giorno prima mi avevano contattato per visitare al-Fawwar. Per raggiungere il campo prendiamo la strada che passa per Dura, che purtroppo alla fine, proprio a venti metri dal campo, è bloccata. Bisogna prendere una strada sterrata e fare più di un chilometro in mezzo ai campi per riprendere la strada asfaltata che porta al campo. L ci sono ancora i soldati e i cumuli di macerie che hanno messo sulla strada per impedire l’entrata al campo. Proprio davanti alla strada bloccata che viene da Dura c’è un’altra strada sterrata che passa per altri campi e che porta ad al-Fawwar. Ancora circa un chilometro di sterrato dunque. In mezzo alla strada troviamo un pullmino-taxi fermo e il conducente ci ferma per spiegarci che i soldati hanno sparato alle gomme del suo mezzo. Dopo ore sono riusciti a sostituire le quattro ruote e, pronti a ripartire, sono stati raggiunti un’altra volta dai soldati che hanno sequestrato le chiavi del mezzo. E così loro sono l ad aspettare da tutto il pomeriggio.

Ad al-Fawwar, presso il Centro comunitario polivalente, si è radunato tutto il comitato esecutivo del progetto ed è venuto anche Abu Yiad, il responsabile dell’Unrwa per il campo. Hanno voglia di raccontare le storie dei giorni passati, di ricordare i due ragazzi uccisi senza motivo, l’uno mentre telefonava sul tetto di casa, l’altro mentre passeggiava alla vigilia del suo matrimonio. Il giornalista de Il Sole 24 Ore chiede a Ziad, il responsabile del Comitato di campo, se l’Olp abbia dato ordini di attacco o difesa rispetto ai soldati israeliani. Ziad dice di no. Mostrano loro il Centro e la clinica tirata a lucido in attesa che il dottore possa iniziare il suo lavoro e che si riescano a portare nel campo le medicine e le attrezzature per le necessità di base del funzionamento.

Sono le 15:30 e i giornalisti hanno timore che faccia buio, per cui decidono di rientrare. Io mi fermo ancora un po’ per gli auguri di rito per il Ramadan e quindi anch’io torno a Gerusalemme.

In corrispondenza dell’entrata (anch’essa bloccata) del villaggio di el-Khader la strada è ricoperta di sassi. Le camionette con i militari in assetto da guerra cominciano a convenire in quel punto per colpire i responsabili della sassaiola. Finalmente passo e raggiungo Gerusalemme. L chiamano Carla e Gianluca, altri due cooperanti che vivono a Beit Jalla, mi dicono che col buio sono iniziati i colpi di arma da fuoco provenienti dall’insediamento del Gilo.

Questa mattina gli amici dell’Inad ci confermano che per la terza volta il loro teatro è stato bombardato.

A proposito delle riflessioni sulle responsabilità dei genitori coloni israeliani è uscito un articolo interessante su The Indipendent a firma Phil. Reeves, secondo il quale anche i “liberali” israeliani incomincerebbero a farsi qualche domanda sull’opportunità di mantenere i coloni nei Territori palestinesi occupati (Amos Oz, Abraham Yeoushua e altri intellettuali israeliani hanno fatto un appello in questo senso proprio alcuni giorni fa). Reeves continua dicendo che i genitori israeliani coloni, decidendo di vivere negli insediamenti, mettono a repentaglio la vita dei propri figli.

Purtroppo pero’ è di oggi la notizia riportata dal Jerusalem Post che la Land Administration del governo israeliano ha approvato la costruzione di 607 nuove unità abitative negli insediamenti in Cisgiordania e Gaza.

E le notizie preoccupanti non sono finite. Secondo Uzi Mahnaimi, su The Sunday Times (Uk),del 26 novembre 2000, l’Idf starebbe addestrando i suoi soldati per rioccupare i Territori palestinesi ad oggi sotto l’Autorità palestinese (aree A).4

Per ora queste sono le notizie.

 

Comunicato n. 26

Gerusalemme occupata 30/11/2000

In questi ultimi due o tre giorni tutto sembra immobile. Come se non accadesse nulla. Eppure sono stati ammazzati ancora dei palestinesi (più di cinque in questi ultimi tre giorni), eppure il blocco delle principali vie di accesso alle città e ai villaggi palestinesi rimane, eppure l’occupazione militare israeliana continua anche se con meno clamore dei media, eppure continua imperterrito il coprifuoco di Hebron (per il sessantatreesimo giorno consecutivo) e la notte i carri armati sparano ancora sulla zona della città vecchia. Forse la crisi politica israeliana ha sottratto attenzione a quanto accade per le strade dei territori palestinesi, o forse si tratta di una di quelle oscillazioni di attenzione che ci vengono imposte dai media (anche a noi che vediamo le cose con i nostri occhi).

Oggi andando ad al-Fawwar ho ritrovato gli stessi blocchi stradali di qualche giorno prima. I palestinesi continuano ad uscire dalle loro città o dai loro villaggi giungendo con i taxi ai “confini” imposti dagli israeliani, scavalcano cumuli di terra al di là dei quali li attendono altri taxi e quindi sperano di non essere fermati dalle pattuglie militari, che ormai costituiscono, per quanto vedo io, il principale traffico per le strade della Cisgiordania.

Ad al-Fawwar poi, ogni via di accesso è stata completamente chiusa. Con l’auto non si puòò nemmeno più passare dai campi. Pare che ieri un ragazzo di Dura, il villaggio davanti a al-Fawwar, abbia cercato di lanciare un ordigno esplosivo contro la jeep israeliana che staziona giorno e notte davanti al campo. L’ordigno è esploso pero’ tra le sue mani. E quindi oggi l’esercito israeliano ha imposto la punizione collettiva: tutte le strade sono state bloccate con terra, sassi e blocchi di cemento. Nemmeno le auto delle Nazioni Unite possono entrare.

Per raggiungere il campo ho dovuto lasciare l’auto fuori e camminare per i quasi due chilometri che portano dalla strada al Centro comunitario polivalente.

Rientrando a Gerusalemme mi è capitato di essere testimone di una delle tante misure di repressione/oppressione dell’esercito israeliano. Mentre guidavo ho notato tre o quattro persone correre su una collina di fronte a me. Mi stava precedendo ad andatura abbastanza sostenuta una camionetta dall’esercito israeliano. Probabilmente anche loro hanno notato le persone correre sul lato opposto della collina e hanno improvvisamente accostato; due militari sono scesi immediatamente per salire su un rialzo opposto alla collina dove i tre o quattro stavano correndo. Da l gli hanno sparato. Non so se li abbiano colpiti, perché non ho voluto fermarmi, ma resta il fatto che le persone che stavano correndo, per quanto si poteva vedere dalla strada che stavamo facendo io e i soldati israeliani, avrebbero anche potuto essere l a giocare a nascondino.

Questa mattina invece un ragazzo di 14 anni, Shadi Hassan Zoul, è stato investito intenzionalmente da un colono israeliano che poi è scappato lasciando il ragazzo morto sulla strada.

E la campagna di accusa nei confronti dei genitori palestinesi continua sia sui media israeliani che americani. Oggi il Jerusalem Post ha pubblicato un articolo intitolato: “Report: PA urging kids to risk their lives” di Margot Dudkevitch. Secondo la giornalista, il Palestinian Media Watch, un organo israeliano di monitoraggio dei media palestinesi, avrebbe individuato sui giornali e nelle trasmissioni televisive palestinesi incitamenti espliciti ai bambini da parte del mondo adulto palestinese a sacrificarsi anche col martirio. Viene citata perfino questa frase di un bambino di Jabalia: “potenzialmente siamo tutti martiri per Gerusalemme e la patria”.. Non si riesce a capire come un’affermazione del genere possa provare che gli adulti palestinesi incitano i loro figli a morire. Sempre a questo proposito ieri l’American-Arab Anti-Discrimination Committee ha denunciato come la campagna di accuse infamanti contro i genitori palestinesi stia procedendo anche sui media statunitensi. L’Orlando Sentinel ha pubblicato il 26/11/2000 un articolo a dir poco razzista a firma di Stan K. Sujka (urologo e presidente dell’Holocaust Center di Maitland) il quale, utilizzando la compassione per i bambini come pura mossa retorica, esplicitamente accusa i genitori palestinesi di mandare i propri figli a morire, nutriti solo d’odio per Israele5. Come già faceva notare Dci-ps ancora una volta viene utilizzata la tecnica di accusare le vittime invece che attribuire le responsabilità agli oppressori. Per ora queste sono le notizie.

 

 

 

Note

1 Chi vuole rimanere al corrente dei dati del Medical Relief e di Defence for Children International-Palestinian Section, puòò dare un’occhiata ai loro siti web, che vengono regolarmente aggiornati sui fatti di questi giorni: Medical relief-http://www.upmrc.org/, dc/ps-www.dci-pal.org/.

2 Chi è interessato a dare un’occhiata ai vari accordi che hanno segnato la storia palestinese – fin dall’inizio del secolo – puòò visitare il seguente sito web: www.palestinehistory.com/document.htm, dove si possono trovare anche le varie risoluzioni dell’Onu sulla questione palestinese.

3 Per leggere l’ articolo di Amira Hass si puòò visitare il sito di Haaretz (http://www.haaretzdaily.com/htmls/1_1.asp) cercando nellEdizione del 22/11/2000.

4 L’articolo di Phil Reeves e quello di Uzi Mahnaimi si possono trovare nella loro forma originale sul sito www.infopal.org/palnews/.

5 I riferimenti per saperne di più sulla questione specifica li trovate sul sito internet http://www.adc.org.

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