Da marzo del 1999 ho lavorato per una Organizzazione non governativa (Ong)
italiana come coordinatore di un progetto di sviluppo per la promozione della
condizione infantile nel campo profughi più a sud della Cisgiordania: al-Fawwar..
Il mio lavoro consisteva nel coordinare una serie di azioni mirate a rafforzare
i centri comunitari di base di Fawwar e a creare un centro nuovo, che
funzionasse come punto di raccordo per tutte le attività rivolte ai bambini e
alle famiglie, in sostanza un Centro comunitario polivalente.
Nel
settembre 2000, quando è iniziata la seconda Intifada palestinese, io dunque
ero in Palestina e quando, alla fine di gennaio 2001, è terminato il mio
contratto da cooperante, ho deciso di rimanere in Palestina, dove appunto vivo
tuttora.
Quello
che segue è una sorta di diario della seconda Intifada palestinese. E’ stato
scritto durante quei giorni per tenere informati amici e persone che avevano
chiesto di sapere qualcosa dalla Palestina da chi l
c’era.
Devo
dire che inizialmente sono stato riluttante a spedire i miei messaggi. Mi
sembrava che ci fossero già troppe notizie. Certamente mi accorgevo che le
notizie erano distorte e i commentatori riportavano male la realtà che io
vedevo con i miei occhi, tuttavia avevo suggerito ai miei amici e a quanti mi
avevano richiesto di mandare informazioni di guardare la televisione a volume
spento. Ero sdegnato e al contempo mi sembrava naturale che le cifre parlassero
da sole: da un lato centinaia di civili palestinesi uccisi dalle pallottole di
un esercito armato e dall’altra qualche decina di soldati israeliani. Così
per lo
meno credevo io. Ed ecco perché pur essendo scoppiata l’Intifada alla fine di
settembre 2000, fin verso la metà del mese successivo ho pensato che non fosse
necessario scrivere nulla.
Poi
da un lato l’attenzione dei media è calata, dall’altro ho incominciato a
provare sempre più forte un senso di impotenza che bloccava tutti noi
“internazionali” presenti in Palestina. Ci incontravamo nell’ufficio
dell’uno o dell’altro, attaccati alla radio a commentare le notizie, ad
arrabbiarci per i continui soprusi dell’esercito israeliano contro i civili
palestinesi, a raccontarci quanto avevamo visto durante la giornata con i nostri
occhi mentre andavamo al lavoro o semplicemente passavamo per strada. Alla sera
per lo più ci vedevamo a casa di quelli tra di noi che avevano la televisione e
iniziava la solita storia: i commenti alle notizie e alle distorsioni dei
giornalisti. Ma tutto questo rimaneva l ,
tra noi, senza che le nostre discussioni avessero modo di coinvolgere più dei
sei o sette che eravamo. E’ così ho
deciso che attraverso i miei e-mail avrei potuto contribuire a fare da volume a
quelle televisioni che avevo suggerito ai miei amici di tenere “in silenzio”..
Rileggendo i primi messaggi dunque ritrovo lo sdegno,
la voglia di commentare e analizzare dei fatti che in quel momento non riuscivo,
né tanto meno ora riesco ad accettare. Alcune persone rispondevano ai miei mail
dicendomi che avrebbero avuto bisogno di meno “analisi politica” (se
veramente analisi politica facevo) e più racconto di vita quotidiana. Io mi
innervosivo e rispondevo che di prese di posizioni politiche c’era bisogno,
che non volevo raccontare il melodramma della Palestina e così via.
L’astensione dell’Italia alla votazione di condanna di Israele proposta
all’Onu ad ottobre 2000 e la manifestazione dell’11 novembre era stato il
momento in cui più forte avevo avvertito la necessità di un forte supporto
politico alla causa palestinese. Il nostro governo non osava prendere una
posizione ufficiale alle Nazioni Unite, ma poi scendeva in piazza, addirittura
accanto ai centri sociali e alla sinistra alternativa, per rivendicare giustizia
e pace. Dalla Palestina come si poteva accettare che la politica (nel senso più
alto del termine) venisse vilipesa in questa maniera? E così , indignato e arrabbiato, scrivevo i miei messaggi dove
finivo per cascare anche nella retorica. Ad un certo punto ho addirittura
proposto una conta, come se una volta identificati i buoni con loro avessi
potuto fare chissà che.
Poi non so cosa sia accaduto, forse davvero ci si
abitua alla morte, alla violenza, si sentono i carri armati sparare e si
continua a fare la spesa. Si torna a casa e si sente la musica, mente si sa per
certo che fuori c’è qualcuno che ci sta lasciando la pelle in uno scontro
impari tra pietre e pallottole ad alta velocità. E’ ovvio pero’ che non mi
sono girato dall’altra parte: quella sarebbe stata ipocrisia, semplicemente ho
cambiato il modo di informare i miei amici e quanti me lo chiedevano. Ho
iniziato a fare quello che loro mi avevano richiesto all’inizio: raccontare le
cose di tutti i giorni, le storie di cui ero partecipe con Carlotta, la mia
compagna. Ho cercato di non farne un melodramma; ho cercato di raccontare i
fatti anche più banali, ripetendoli spesso più volte, nel tentativo di
trasmettere comunque un po’ del senso (per la verità non-senso) del vivere
“giorni di ordinaria occupazione militare” israeliana.
Ad un certo punto Carlotta per prima e poi alcuni amici,
mi hanno suggerito di provare a mettere insieme i comunicati e farne un libro,
in modo da allargare maggiormente il numero di possibili lettori. Tano D’amico
mi ha stimolato e dunque è iniziato un lavoro di rielaborazione che mi ha
portato a modificare parzialmente quanto avevo scritto. Per la verità ho
cercato di mantenere tutto più o meno come è stato mandato per e-mail, mi è
parso infatti che proprio questa disomogeneità nello stile, nei toni e nei
racconti testimoniasse meglio di qualsiasi spiegazione riscritta a tavolino il
mutare delle emozioni e degli stati d’animo di quei giorni. Ho fatto questo
non certo perché io creda che i miei personali stati d’animo siano così importanti per testimoniare una fase, un periodo, dei fatti accaduti su così
vasta scala e riportati dalla stampa di mezzo mondo. La
questione palestinese ha sicuramente i suoi illustri commentatori e narratori e
non credo di aggiungere molto a quello che già è stato scritto. Sta di fatto
pero’ che un po’ troppo spesso questa famigerata questione ha rischiato di
cancellare il volto delle persone, le storie delle loro vite ordinarie in
condizioni così
straordinarie come sono quelle della Palestina da
almeno cento anni, dalla Palestina Mandataria alla Palestina degli accordi di
Oslo. Come scrive Rita Porena nel suo libro L’anno che a Beirut morirono i
panda in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi periodo della storia di
questi ultimi cento anni, il dottore, l’avvocato, l’operaio, la donna, il
bambino che vengono dalla Palestina, sono sempre stati il dottore palestinese,
l’avvocato palestinese, l’operaio palestinese, la donna palestinese e il
bambino palestinese. Come se questo aggettivo qualificativo fosse necessario per
farli esistere e al contempo indicarli agli occhi di chi nel Medio Oriente non
ci sta. E’ sicuramente vero che i palestinesi stessi hanno determinato questa
situazione, la loro ormai cinquantenaria rivendicazione di uno Stato nazionale
nel quale vivere ha contribuito a connotare questa infinita crisi
medio-orientale con termini che si sono attaccati troppo alla pelle della gente
comune. Ma che potevano fare i palestinesi altrimenti? Perché non avrebbero
avuto diritto a dire che volevano vivere in un loro Stato indipendente? E anche
se questa fosse ormai un’idea sorpassata dalla storia o lo sarà in nome di
lotte sociali che nel futuro sembra più probabile accomuneranno di nuovo le
classi in base a un’identità transnazionale? Ebbene se la storia ha corsi e
ricorsi, che anche i palestinesi passino per questa fase, se questo è quello
che vuole la loro maggioranza. Del resto se dovessimo cercare le ragioni di
connotazioni così forti
per la crisi del Medio Oriente una bella fetta di responsabilità dovremmo pure
attribuirla alla controparte israeliana. Si legge spesso che se i palestinesi
non avessero avuto per “nemici” gli israeliani la loro causa sarebbe
scomparsa molto tempo fa dall’attenzione internazionale e in questo mondo di
media non sarebbe dunque più esistita. Basta pensare alla causa curda, che
miete sicuramente altrettante vittime, ma che non attira attenzione (benevola o
malevola che sia) come quella palestinese. Del resto essere antiturco o anti-iracheno
è molto più semplice che non essere antisionista: ci sono in troppi pronti ad
accusare di antisemitismo anche le più giustificate rivendicazioni del e per il
popolo palestinese.
Mi accorgo ora di essere tornato alle “analisi” e
ai commenti che forse portano poco lontano: già in troppi ci si sono dedicati e
ci si dedicano per mestiere. Probabilmente accade perché non potevo fare a meno
di scrivere questa specie di introduzione a tavolino, anche se tutto quello che
ci sta dietro viene solo da quello che ho visto con i miei occhi e provato
insieme ai miei amici palestinesi per strada, nei campi profughi o in qualsiasi
altro posto che non fosse la stanza dove ora sto scrivendo. Chiudo qui, nella
speranza che le pagine che seguono possano contribuire ad aumentare non solo
lEmpatia per il popolo palestinese e la sua causa, ma anche le prese di
posizioni politiche e le assunzioni di responsabilità conseguenti.
Io sono di parte sicuramente, ma non credo che nessuno
possa fare altrimenti.
M.G.