Prefazione

 

Alla fine degli anni Quaranta una brigata dell’esercito israeliano si presentò davanti ad un villaggio palestinese ed ingiunse agli abitanti di andarsene. Dove?

Ai soldati non riguardava, non era un loro problema.

I combattimenti erano cessati, ma era vivo il terrore delle stragi, delle espulsioni forzate.

I contadini e i pastori se ne dovettero andare, ma cercarono in tutti i modi di allontanarsi il meno possibile. Amavano molto il loro villaggio. Era uno dei più antichi e per loro il più bello.

Non una pietra era fuori posto, gli alberi crescevano come persone di famiglia e il sole nei secoli aveva colorato di miele i muri delle case.

Si accamparono come poterono sulla collina di fronte e continuarono a guardare il loro villaggio.

Anche i conquistatori trovarono bellissimo il villaggio.

Qualcuno pensò di regalarlo agli artisti che arrivavano dall’Europa.

Agli artisti il villaggio piacque e furono contenti di andarci a vivere.

Le due moschee persero i minareti e divennero caffetterie; di altre costruzioni religiose rimasero solo file di archi armoniosi, circondati da aiuole di fiori. Le macine di pietra smisero di girare e furono tramutate in ornamentali sculture astratte.

Gli spazi del mulino e del frantoio vennero trasformati in una galleria d’arte e in un museo.

Molti dei disegni, dei quadri, delle opere grafiche che vi sono esposti raffigurano il villaggio. Ma i contadini e i pastori che guardano dalla collina di fronte non vi compaiono mai. Gli artisti erano tutte persone degnissime. Uno di loro fu tra i fondatori del dadaismo. Dicono che si incontrasse con Lenin al cabaret Voltaire di Zurigo. Nemmeno lui pare abbia mai alzato gli occhi alla collina di fronte.

Nemmeno gli studenti e i turisti che ogni giorno arrivano in visita al villaggio alzano gli occhi alla collina di fronte.

I contadini e i pastori sono ancora li'. Si sono sistemati come hanno potuto. Le loro case non sono belle come quelle che hanno perduto. Non sono di pietra color miele, ma della stessa materia dei nostri borghetti degli anni Cinquanta. Nel loro vecchio villaggio hanno visto costruire una piscina, ma a loro l’acqua non arriva.

Per i vincitori il villaggio lassù non esiste. Nemmeno la strada ci arriva, nemmeno i fili della luce.

La Palestina è fatta di colline, di fuggiaschi, di villaggi arrangiati.

Ci vive un popolo che non si rassegna a violenze e soprusi.

ب la cicatrice impresentabile e vergognosa che unisce i due secoli. Quando si parla di Palestina gli occhi si abbassano, anche le coscienze si abbassano. Le parole vengono fuori addomesticate.

Giustizia, diritti umani, dignità, limite, sicurezza hanno un valore diverso in Palestina. Non si possono usare proprio per quelli che di quei principi hanno sete.

Possono andare bene per tutti, ma non per gli aggrediti, per i violentati, per gli oltraggiati.

 

Uno dei tanti premi Nobel che si aggirano nell’area sui giornali internazionalmente più letti minacciava e ammoniva che anche solo parlare di giustizia in Palestina può portare alla guerra, quindi per sperare nella pace bisogna smettere di sperare nella giustizia, di cercare la giustizia.

 

Marco Grazia gli occhi li alza. Il suo lavoro, la sua scelta di vita lo portano a viaggiare per le colline. Guarda, chiede, ascolta.

Tenta di rendersi conto.

Le sue parole non accettano condizionamenti. Cerca gli amici confinati dal coprifuoco, parla con le madri degli uccisi, chiede ai soldati che sradicano gli alberi. Gli avvenimenti di cui è testimone lo fanno riflettere ed è capace di farci riflettere con lui.

Leggendo ci sentiamo chiamati a proseguire, ad ampliare, sviluppare i pensieri che facciamo con lui.

Le sue sono parole pulite e limpide come il suo modo di guardare. Marco ci chiede di essere partecipi del suo ruolo di autore, non ci dà giudizi ma ci chiama a darli.

 

Roma, aprile 2001

Tano D’Amico

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