Gerusalemme occupata 29/3/2001
Da un po’ di giorni non scrivo, e non perché qui in
Palestina non stia accadendo più nulla. Anzi l’elenco delle vittime
dell’occupazione israeliana continua ad allungarsi così come
continua la chiusura dei territori che strangola l’economia e le vite di
milioni di persone.
Alcuni giorni fa l’Idf ha chiuso con blocchi di
cemento e pietre la strada che da Abu Dees porta al Monte degli Ulivi. Ora i
palestinesi che vogliono andare là in cima devono passare da Ras al-Amud, dove
c’è il check point israeliano. Non si tratta semplicemente di una noia per i
pullman turistici, pochi per la verità, che da un mese a questa parte erano
tornati a usare quella strada per scendere dal Monte degli Ulivi e raggiungere
la Tomba di Lazzaro. I palestinesi non vanno sul Monte degli Ulivi per vedere la
città dall’alto o per visitare la Chiesa dell’Ascensione. L in
cima c’è il Makassed, uno degli ospedali pubblici più grandi di tutta la
Cisgiordania. Ora chi non ha il permesso per entrare a Gerusalemme e deve
raggiungere l’ospedale non potrà più farlo, perché al check point di Ras
al-Amud verrà fermato e rispedito indietro. Non è un caso che questo nuovo
blocco abbia causato nuovi scontri in una zona, quella di Abu Dees appunto, che
da almeno tre mesi era tornata ad una relativa calma.
Ancora un episodio: al-Fawwar, il campo è stato
sigillato definitivamente, l’ho già scritto tante altre volte, ma sembra che
questa volta il significato di definitivamente sia ancora più forte di
quanto non abbia pensato in passato. Tariq mi ha telefonato per avvertirmi che
il campo è circondato da carri armati dell’esercito israeliano che bloccano
tutte le uscite. Non più le solite jeep, per quanto corazzate ed equipaggiate
di mitragliatrici pesanti. Questa volta sono carri armati, mi ha detto Tariq. E
i soldati ci hanno ordinato di non avvicinarci a meno di 500 metri da loro,
altrimenti spareranno, ha continuato. Questo noi adulti lo capiamo, ma i
bambini? Due giorni fa un ragazzino di 11 anni stava andando da al-Fawwar a Dura,
non sapeva nulla dell’ordine degli israeliani e i soldati gli hanno sparato al
petto, uccidendolo.
Questi sono solo due dei mille episodi che non vengono
raccontati o liquidati in due righe dai mezzi di informazione. Sicuramente
invece i media riporteranno quello che sta accadendo in queste ore. Per la
seconda volta da sei mesi a questa parte gli israeliani hanno deciso di
attaccare le città palestinesi come rappresaglia per due attentati suicidi che
hanno causato il ferimento di più di trenta persone e la morte di almeno due
ragazzi israeliani.
Tuttavia, per quanto lo sdegno che mi ha animato
dall’inizio e la mia voglia di raccontare quello che vedo e che sento non sia
diminuita, mi chiedo se abbia senso continuare farlo. In linea di principio la
necessità di mandare informazioni potrebbe non smettere mai. Ogni giorno morti,
ogni giorno soprusi e ogni giorno varrebbe la pena descrivere nei dettagli
l’oppressione vissuta nella vita quotidiana dalla gente di Palestina. Forse
pero’ a questo punto io non posso aggiungere molto. Per l’aggiornamento
ciascuno si puòò benissimo rifare ad altri mezzi. Non penso ai telegiornali ovviamente,
sempre troppo parziali e spettacolarizzanti, né tanto meno alla quasi totalità
dei quotidiani italiani che spesso, soprattutto quando si tratta di notizie
dall’estero, non fanno altro che ribattere le agenzia di stampa. Ognuno puòò accedere ai siti internet che ho indicato nei Comunicati, scoprirne altri,
farsi mandare le newsletter che inviano le persone che come me vivono qui e che
come me vedono con i loro occhi la vita di tutti i giorni. Io, quando ho
iniziato a scrivere questi Comunicati, non intendevo fare un mero lavoro di
cronaca. Non ho mai preteso di diventare una fonte ufficiale e se penso di
esserlo stato anche in minima parte come voce contro-informativa credo che ormai
il mio compito possa dirsi concluso. Per quanto qualche Comunicato sia stato
anche pubblicato su alcuni giornali, la pretesa giornalistica non è mai stata
la mia principale preoccupazione. Ulteriori informazioni non aggiungerebbero
molta sostanza a ciò che ho
cercato di raccontare: la sofferenza e la condizione di ingiustizia in cui vive
la gente di Palestina. Quello che ho scritto finora puòò bastare. Come si usa dire, penso di aver reso l’idea, per chi
quest’idea era disposto ad accettare ovviamente.
Chiudendo qui i miei Comunicati resisto pero’ a
fatica alla tentazione di tirare alcune somme. So che non avrebbe molto senso
farlo ora, quando finora ho cercato di non farlo, preferendo far parlare i fatti
che ho raccontato. Certo in tutto quello che ho scritto non ho potuto fare a
meno di far trasparire il mio punto di vista, e sarei stato ipocrita a non farlo.
Tuttavia ho cercato di analizzare il meno possibile. Mi domando dunque se sia
utile mettermi a teorizzare ora su tutto ciò che ho visto e di cui ho scritto. Penso di no. Ma se
resisto dunque alla tentazione di mettermi ad analizzare, voglio chiudere questa
mia specie di diario con alcune riflessioni. Spero così di dare alcuni elementi, magari anche solo appena
abbozzati, utili ad allargare la prospettiva in cui puòò essere letto ciò che ho raccontato. Questo semplicemente è
l’unico modo che mi viene in mente per mettere la parola fine a tutto quello
che ho scritto, ben sapendo che a parlar di Palestina, la parola fine sembra
sempre troppo lontana per poter essere scritta una volta per tutte.
Parto dal titolo di questi comunicati: Emergenza
Palestina. Ho intitolato i Comunicati in questa maniera perché io ho
vissuto i fatti di cui parlo come un’emergenza, un evento straordinario. Da
quando sono arrivato qui nel marzo del 1999, pur avendo visto la subdola
violenza quotidiana dell’occupazione israeliana, non ho mai pensato di vivere
in una situazione speciale, di emergenza appunto. Non c’erano scontri, la
gente si lamentava, ma comunque continuava a vivere abbastanza normalmente. Poi
il 28 settembre 2000 è scoppiata la protesta.
C’era da
aspettarselo?
e’ stata
inaspettata? Non so dare una risposta precisa. Certo dopo otto anni di Oslo e di
processo di pace, arrivati al traguardo stabilito dalle trattative più
dilazionate qualcosa sarebbe pur dovuto accadere. La domanda più appropriata
dunque sarebbe: chi l’ha fatto accadere? L’Autorità palestinese, gli
israeliani, l’Autorità palestinese d’accordo con gli israeliani, oppure la
gente? Chi ha determinato questa emergenza? O semplicemente è diventato
evidente nei fatti che la normalità in cui si viveva prima era il travestimento
di un’emergenza solo sopportata?
I primi giorni, quando la gente moriva quotidianamente
a decine, io, gli amici che sono qui, tutti noi internazionali abbiamo creduto
che ad aver determinato la nuova Intifada fosse stata la gente, la pazienza di
un popolo logorata dal troppo attendere il riconoscimento dei propri diritti.
Poi le cose sono continuate, ma senza un filo logico. Le misure repressive
israeliane si sono inasprite, gli scontri sono diminuiti e l’emergenza ha
continuato ad aumentare. Si è passati agli attentati e alle sparatorie. Ma tra
i palestinesi coloro che sparano sono pochi, forse a Gaza un po’ di più che
in Cisgiordania. Gli attentati sono direttamente riconducibili a fazioni di
guerriglieri più o meno estese, ma comunque non rappresentano tutta la
popolazione palestinese. Paradossalmente i mezzi di informazione hanno
cominciato a parlare di guerra, anche se di sicuro non è iniziata nessuna
guerra. Per fare una guerra ci vogliono due eserciti e non uno solo. Il popolo
palestinese non ha imbracciato in massa le armi, che molto probabilmente non ha
nemmeno, per quanto i vertici dell’Intelligence israeliana dicano il contrario.
Le pietre, quelle poche che ancora vengono tirate, spesso non arrivano nemmeno a
colpire i soldati che pero’ reagiscono come se si trovassero in guerra.
Per la gente normale dunque l’emergenza ha cambiato
modalità, ha assunto nuovamente i panni della quotidianità, anche se una
diversa quotidianità. La gente è tornata a subire. Subisce le chiusure,
subisce la distruzione dei campi, lo sradicamento degli alberi e
l’abbattimento delle case. La gente subisce che le vengano puntati contro i
carri armati e che talvolta da quei carri armati si spari pure. E che altro
potrebbero fare, verrebbe naturale domandarsi? Chi aiuta i palestinesi? I
fratelli arabi non fanno che chiacchierare, le Nazioni Unite sono schiave della
politica Usa e l’Unione europea paga il conto per lavare la coscienza di tutti.
Tutto ciò è vero, ma a pensare a tutto quello che è successo in questi ultimi sei
mesi sembra inimmaginabile e soprattutto inaccettabile che la vita possa andare
avanti come se niente fosse, che appunto l’emergenza sia tornata ad essere
routine. In molti ogni giorno dicono che tutto questo presto finirà perché le
cose stanno peggiorando troppo. Quante persone hanno avvertito che si è
arrivati al colmo! Il direttore dell’Unrwa l’ha dichiarato quasi un mese fa
a Gaza, ma sembra che questo colmo giorno dopo giorno si sposti un po’ più in
alto. Certo si potrebbe pensare, forse in maniera facilona, che i palestinesi
hanno imparato con gli anni, coi più di cinquanta anni di occupazione, a
pazientare. Molti palestinesi mi hanno raccontato che nel Corano c’è scritto
che le piscine del Sultano, quell’arena che sta appena sotto la porta di Jaffa
e che ogni estate viene usata dagli israeliani per il Festival del cinema di
Gerusalemme, si riempiranno di sangue ebreo. I palestinesi aspettano davvero che
accada questo? Pazientano davvero aspettando questa fine sanguinaria?
Non lo so e non penso sia appropriato dare una risposta.
E’ vero pero’ che pazientano senza troppo organizzarsi, senza strutturare
un’idea di resistenza, così
come non hanno mai strutturato un’idea di Stato (del
resto è altrettanto vero che gli Israeliani non hanno mai pensato ad una vera
idea di pace). E così la
retorica dell’Intifada sta diventando funzionale a trasformare l’emergenza
in routine: la recrudescenza dell’occupazione israeliana diventa una nuova
prova per il popolo palestinese, quasi un destino contro il quale poco si puòò fare, ma che nessuno sa né vuole dire, se lo sa, verso dove porterà.
Senza voler togliere alcuna responsabilità alle politiche criminali dello stato
di Israele, penso dunque sarebbe necessario che i palestinesi cominciassero a
porsi qualche domanda che vada oltre la recriminazione dello status di vittime.
Di sicuro l’Autorità, una volta fatta la pace, dovrà assumersi appieno la
responsabilità di essere quello Stato che finora non ha potuto, ma nemmeno ha
provato ad essere. I palestinesi tutti dovranno fare il sacrificio e lo sforzo
di pensare e mettere in piedi il loro Stato nazionale. Sicuramente questo sforzo
implicherà un paragone con l’attuale situazione. La futura Palestina dovrà
essere all’altezza e distinguersi dal disgregamento sociale imposto
dall’occupazione. Nella futura Palestina i palestinesi dovranno poter dire di
stare meglio che non nello stato attuale. Il nuovo Stato dovrà avere una
missione e un compito di giustizia, e in un certo qual modo di risarcimento
ideale, per tutto quanto patito finora. Non penso si tratti di monetizzare,
nemmeno in senso metaforico, il compenso per il danno subito. Non sarebbero mai
abbastanza i flussi di denaro provenienti da un’Europa affetta da senso di
colpa o dal pietismo degli Stati Uniti. Le cifre pur astronomiche che i fratelli
musulmani vorranno elargire ai palestinesi, non saranno mai abbastanza per
costruire il principio della nuova società palestinese e sarà proprio su
questo principio che dovranno essere gettate le basi per il nuovo vivere insieme,
non solo tra palestinesi, ma all’interno dell’intera regione. I palestinesi
stessi, con le loro forze, nelle loro varie forme associative o partitiche
dovranno definire l’idea di consesso civile da applicare, il patto sociale da
stipulare e da far valere all’esterno.
e’ ovvio che per la simbiosi nella quale finora hanno
convissuto e saranno per sempre costretti a convivere palestinesi e israeliani,
lo stesso discorso andrebbe fatto anche per Israele. Il governo di unità
nazionale che Sharon ha messo in piedi a febbraio, non è altro che un paravento
alle mille contraddizioni e fratture interne alla società israeliana. Ma non
posso dire di conoscere la società israeliana altrettanto bene quanto quella
palestinese.
E quindi torno ai palestinesi. E mi limito a domandarmi:
chi tra i palestinesi ora si sta dimostrando interessato a questo tipo di
domande? L’avanguardia rivoluzionaria un tempo rappresentata dall’Olp se mai
ha discusso di tutto ciò, lo sta facendo ora? E la ricca borghesia palestinese che ruolo è pronta
ad assumere nella costruzione del nuovo Stato, o per lo meno che parte prevede
le spetterebbe? I partiti politici di sinistra, le loro Ong, le associazioni di
base e tutti quanti si identificano con la sinistra palestinese, che sola forse
in passato aveva speso delle energie in questa discussione, ora a che cosa
stanno pensando, stanno discutendo dei principi sociali dello Stato che
vorrebbero? Dobbiamo aspettare che lo faccia Hamas o la Jihad? Per gli
integralisti islamici la giustizia è una prospettiva metafisica e dunque, come
per tutte le pretese ultraterrene, in terra è giocoforza che si traduca in un
paradigma teocratico dittatoriale. Nessuna delle forze in campo al momento
sarebbe disposta ad ammettere di volere uno Stato teocratico, anche se in
effetti la riflessione dei partiti religiosi è quella più completa, più
strutturata come sistema e questo sicuramente comporterà una grande sfida in
futuro. In questo senso anzi l’efficienza della rete di servizi sociali messi
in piedi dalle fazioni religiose rappresenta già una sfida per chi non aderisce
ad esse.
Viene il dubbio dunque di trovarsi all’interno di un
circolo vizioso dove i termini della discussione possono benissimo invertirsi.
Non è l’emergenza che sta sottraendo spazio alla discussione interna alla
società palestinese, alla strutturazione di un vero e proprio discorso sociale,
ma è la destrutturazione politica e sociale che rinforza e perpetua questo
stato di emergenza fino a farlo diventare routine.
A questo punto si dovrebbe capire se questa tendenza
sia tipica della società palestinese e quali ne siano le ragioni, o se invece
sia una di quelle tendenze che nel contesto mondiale sta investendo tutte le
società che si rifanno all’idea capitalistica o post-capitalistica di Stato
nazionale come principio di aggregazione. In alcune società è più evidente la
radicalizzazione dei nazionalismi e delle identità etniche (i Balcani come la
stessa Israele), in altre salta subito agli occhi la progressiva sostituzione
dello Stato di diritto con lo Stato di polizia (l’Europa come gli Stati Uniti),
in quella palestinese così come
in molti dei vicini Stati arabi, la dittatura tout court sembra l’opzione più
facilmente attuata. Praticando questa inversione dei termini ovviamente c’è
il rischio di tralasciare l’analisi che mira a identificare che cosa o chi
determina questa tendenza destrutturante, quali ne siano le ragioni e quali le
prospettive di soluzione. Ma per rimanere nell’ambito ristretto del
ragionamento che mi ha portato fino a qui, credo che comunque sarebbe un errore
cedere all’illusione di poter identificare con certezza il nemico solo
nell’oppressore sionista, nel potere del capitale o nella barbarie dei tempi.
Ma questo sicuramente non è il luogo per andare oltre.
Ora è necessario che io chiuda.
Questo è
tutto.