Di
seguito ho provato, a mio modo, a dare spiegazione di alcuni termini; penso così
di poter aiutare nella lettura chi in Palestina non
c’è mai stato o chi non sa molto della questione. Probabilmente alcune parole
che ho cercato di spiegare non sono nemmeno usate nel testo dei Comunicati, ma
queste “spiegazioni” possono essere usate come integrazioni al testo stesso,
tanto per farsi un’idea un po’ più ampia di quello che ho raccontato nei
Comunicati.
In questa specie di glossario ho cercato di limitare al
massimo la ricerca del perché le cose siano così come
sono. Ho provato a raccontare le cose, ancora una volta, così come se scrivessi ai miei amici, molti dei quali
probabilmente sapevano già le spiegazioni delle parole usate. Di sicuro a dare
spiegazioni più accurate ci sono esperti più qualificati di me e testi più
scientifici di questo ai quali rifarsi.
In questo glossario ho provato non solo a spiegare i
termini astratti, gli acronimi e le definizioni, ma ho cercato di raccontare
qualcosa dei luoghi e delle persone di cui si parla nei Comunicati. Ho creduto
fosse importante per chi legge averne un’idea un po’ più precisa,
quand’anche si tratti di luoghi noti o di persone che non hanno alcuna
importanza nelle “grandi vicende politiche”. Tariq, Hasan, Saeda o Maesa non
sono andati a negoziare con gli israeliani, ma tutti i giorni hanno vissuto e
vivono sulla loro pelle l’occupazione israeliana, hanno le loro idee al
riguardo e sono gli amici e colleghi con i quali ho condiviso le vicende di cui
ho scritto. Perché dunque chi legge non dovrebbe sapere qualcosa di più di
loro per comprendere meglio quello che è accaduto e accade in Palestina? A
parlare con loro e a condividere con loro i fatti di questi mesi ho capito
meglio quello che mi accadeva intorno. Così come ho capito qualcosa della Palestina vivendo le
vicende quotidiane di quei luoghi che solitamente i pellegrini e i turisti
visitano velocemente senza soffermarsi troppo. Un posto di blocco della polizia
o dei militari israeliani può
apparire come un’esperienza divertente o passare pure inosservato per il
turista che viaggia in comitiva (solitamente i pullman turistici non vengono
nemmeno fermati). Ma per chi usa i taxi collettivi palestinesi o le auto locali,
un posto di blocco è un’esperienza quotidiana che fa una differenza
sostanziale nella percezione dei luoghi e sicuramente poco divertente.
Ad ogni modo chi non è interessato a leggere di Tariq
o la mia descrizione della Tomba di Rachele, può sempre passare al paragrafo che ritiene più
interessante o utile per la sua comprensione.
Per comodità ho usato l’ordine alfabetico per
mettere in sequenza i vari paragrafi; non c’è una conseguenza logica
nell’ordine dei paragrafi che possono essere letti indipendentemente l’uno
dall’altro. Sta a chi legge decidere come usare questo “glossario”.
Vedi Oslo
Contrariamente
a quanto spesso si sia indotti a pensare, la moschea dell’al-Aqsa non è il
simbolo iconografico di Gerusalemme a cui tutti, non solo gli arabi, fanno
riferimento quando immaginano Gerusalemme. La moschea dell’al-Aqsa è un
semplice edificio in pietra con una cupola nera, che dista un centinaio di metri
dalla più famosa moschea dalla cupola d’oro, quella che tutti, a volte
perfino gli israeliani, usano per rappresentare la città eterna. La moschea al-Aqsa,
che ha dato il nome alla seconda Intifada palestinese, per i musulmani è il
terzo luogo sacro dell’Islam, come hanno ripetuto all’infinito tutti i media
del mondo, terzo solo alla Mecca e a Medina. Dal punto di vista religioso è
sicuramente più importante della moschea con la cupola d’oro, o moschea di
Omar o della Roccia, dalla roccia che secondo i musulmani servì a Maometto per ascendere al cielo in sogno. Sotto la più
modesta cupola nera, infatti, i fedeli dell’Islam si radunano a centinaia per
pregare insieme.
Lo spazio circostante le due moschee è forse la zona
più bella di tutta la Gerusalemme vecchia e nuova. Nel recinto sacro Haram
al-Sharif attorno alle due moschee ci sono giardini, fontane e vestigia di
antichi edifici; l i fedeli dell’Islam passeggiano, discutono o
semplicemente si rilassano, soprattutto il venerdì mattina, in attesa di pregare all’ora prestabilita.
Anche i turisti possono entrare a prendere una boccata di
silenzio e tranquillità in questo spiazzo di pace in mezzo alla
città vecchia sovraffollata e brulicante di uomini e cose. O per lo meno così potevano fare prima di settembre 2000. Da quando è
iniziata la protesta palestinese nessuno straniero, nemmeno i giornalisti, hanno
avuto accesso all’Haram al-Sharif.
In situazioni “normali”, ossia prima di settembre
2000, a fare da “contrappunto” all’atmosfera di pace e serenità della
Spianata delle Moschee c’erano, e ci sono tuttora, i posti di blocco della
polizia israeliana, alle cui procedure di controllo ciascuna persona che voleva
entrare nello spiazzo doveva sottostare. Musulmani, turisti, chiunque entrasse
doveva passare il controllo israeliano. In effetti fino a settembre 2000 questo
controllo non era particolarmente rigido. Per esempio solitamente i membri dello
Waqf (vedi Waqf) non erano fermati, così come
spesso nemmeno i fedeli musulmani che si recavano a pregare al venerdì . Per lo più i controlli riguardavano i turisti e un
campione casuale di musulmani. Ovviamente questo non significa che non fosse in
potere delle autorità israeliane fermare chiunque volessero e questo è uno di
quegli aspetti pratici di ciò che s’intende per “sovranità” al
centro del problema di Gerusalemme.
Dopo settembre 2000, ossia dopo l’inizio della
protesta palestinese, i posti di blocco israeliani posizionati in corrispondenza
di tutte le entrate all’Haram al-Sharif sono diventati posti di blocco a tutti
gli effetti. E’ proprio in quel punto che il turista viene fermato e il
poliziotto israeliano in uniforme blu gli impedisce di entrare. Stessa sorte per
i palestinesi di Gerusalemme al di sotto dei 40 anni, (se non altro fino alla
fine del Ramadan del 2000). Nei primi quattro mesi di Intifada, per i
palestinesi non residenti a Gerusalemme l’esercito israeliano aveva
posizionato dei posti di blocco addirittura al di fuori delle mura della città
vecchia. Alle porte della moschea i palestinesi non residenti a Gerusalemme al
di sotto dei 40 anni nemmeno ci potevano arrivare, soprattutto il venerdì ,
come più volte viene raccontato anche nei Comunicati.
Ovviamente tutti sanno perché tanto contendere tra
palestinesi e israeliani: sotto all’Haram al-Sharif gli ebrei sostengono
esserci il Secondo Tempio di Salomone1.. E in passato hanno pure
iniziato degli scavi archeologici per raggiungere questi resti. Gli scavi nel
1996, come molti ricorderanno, causarono lo scoppio di una violentissima
protesta da parte palestinese, che causò 62 morti palestinesi e 14 israeliani.
Gli ebrei comunque, resti o non resti, tutti i giorni,
ma soprattutto il sabato, pregano rivolti a quel muro che noi definiamo Muro del
Pianto che loro chiamano Muro Occidentale e che in sostanza non è altro che il
muro di sostegno della parte a ovest della Spianata.
Al-Fawwar,
il campo profughi di cui spesso si parla nei Comunicati, è il posto dove ho
lavorato da marzo 1999 a gennaio 2001. La storia del campo la conosco dai
racconti della gente che l ho
incontrato, anche se Abu Hiad, il responsabile dell’United Nation Relief and
Work Agency for the Middle East (vedi Unrwa) del campo, rimane la fonte più
autorevole per raccontarla. Jousef Hiliqawi, il suo nome all’anagrafe, è
profugo da 48 anni, ossia dal giorno in cui è nato, ad al-Fawwar appunto. Dopo
aver insegnato per 10 anni nelle scuole Unrwa, è diventato il Camp Officer,
ossia il responsabile generale per conto delle Nazioni Unite dei servizi del
campo: una specie di sindaco.
Tutte le volte che qualche delegazione ufficiale visita
al-Fawwar sembra che Abu Hiad metta su un disco; con voce annoiata inizia sempre
dallo stesso punto, da quando cioè nel 1948, a seguito della creazione di ciò che
oggi viene chiamato Israele, la gente di Beit Jibrin, Iraq al-Manshiyya (l’attuale
Kyriat Gat) Ajjur, Faluja, Sueil, Kudna scappòò..
Questi sono i villaggi da cui proviene la maggior parte dei palestinesi
rifugiati ad al-Fawwar. Dei villaggi di cui parla Abu Hiad, che non distano più
di 25 o 30 km da al-Fawwar, ormai non resta quasi più nulla. Hanno seguito la
sorte di tutti i 513 villaggi palestinesi che nel 1948 vennero distrutti o
occupati dai nuovi “pionieri” ebrei. La voce di Abu Hiad è monotona e alle
volte sembra pure svogliata, ma tutte le volte che qualche straniero ascolta il
suo racconto automaticamente rimane coinvolto dalle sue parole, quasi si
trattasse di una favola.
Effettivamente quando si parla di campi profughi la
gente solitamente pensa alle tende, a recinti e fili spinati nel mezzo di zone
desolate. Al-Fawwar invece sembra un paese di campagna, soltanto un po’ più
sfortunato e povero della vicina Hebron (o al-Kalil). Certo ci sono le fogne a
cielo aperto e molte strade sono sterrate, ma questa è una condizione comune a
molti dei villaggi del sud della Cisgiordania. E così è
ovvio che si rimanga coinvolti dalle parole di Abu Hiad che raccontano di come i
suoi genitori e i padri di tutti quelli che ora vivono nel campo scapparono dai
loro villaggi palestinesi e trovarono rifugio nell’avvallamento tra le colline
che separano Yatta da Dura. Oggi dei palestinesi che scapparono nel 1948 ne
rimangono ancora circa 600, il 10% dell’intera popolazione. Tutti, mi ha
assicurato più volte Abu Hiad, conservano ancora la chiave di casa loro o i
documenti di proprietà per i beni espropriati da Israele.
Quasi come una litania Abu Hiad continua informando i
suoi uditori che al-Fawwar è il campo più a sud della Cisgiordania. Si arriva
a Hebron e bisogna fare ancora una decina di chilometri in direzione di Beer
Sheva. Qualche chilometro più a Sud e qualche chilometro più a ovest passa la
Linea Verde (vedi Linea Verde), ossia inizia Israele. Il campo si trova in una
zona abbastanza fertile e sicuramente ad una prima impressione puòò sembrare pure un bel posto, a partire dal
suo nome che significa sorgente. Ma quando nel 1948 circa 6.000 profughi
palestinesi si rifugiarono l ,
ad aspettarli c’erano davvero le tende, quelle della Croce Rossa. E’ sotto
la tutela della Croce Rossa questi agricoltori, allevatori, commercianti
palestinesi che avevano dovuto lasciare le loro proprietà e scappare via dalla
loro terra ci rimasero fino al 1950.
Nel 1950 le Nazioni Unite crearono l’Unrwa che, con
un contratto di 99 anni, affittò il terreno sul quale si trova al-Fawwar dalla Giordania, che al tempo
governava quell’area sotto il nome di Transgiordania. Arrivarono dunque altre
tende, questa volta con i simboli delle Nazioni Unite, e la stessa gente ci
rimase sotto ancora 8 anni. Verso la fine del 1958 l’Unrwa sostituì le tende con delle baracche in muratura e Abu Hiad
racconta che ai profughi venne detto che si trattava solo di una soluzione
temporanea: le baracche avrebbero dovuto servire per uno o due anni, finché cioè
fosse stato garantito il diritto al ritorno dei palestinesi, secondo quanto le
Nazioni Unite già avevano stabilito nel 1948. Ogni famiglia si spostò dunque da una tenda ad una baracca: 10 mq a famiglia.
Quelle baracche durarono anni, non solo due, ma decine.
Ad al-Fawwar se ne vedono ancora, anche se ormai la gente da tempo le usa solo
come magazzini. Abu Hiad infatti racconta che con il tempo ci si rese conto che
le baracche non sarebbero state una soluzione temporanea. I profughi
cominciarono dunque ad allargare, modificare, buttare giù e ricostruire le loro
“abitazioni”: tutto nel medesimo spazio affittato dall’Unrwa e a proprie
spese.
La popolazione intanto diminuiva, dai 6.000 che
originariamente avevano trovato rifugio ad al-Fawwar, intorno al 1967 si era
arrivati a 3.000. Molti si erano spostati nei paesi arabi vicini, soprattutto in
Giordania, nella speranza di trovare condizioni di vita migliori. Ma nel 1967 la
nuova occupazione israeliana determinò una nuova ondata di fuga. Nel 1948 circa 700.000
palestinesi avevano lasciato tutto ed erano divenuti profughi, nel 1967 altri
300.000 patirono la medesima sorte, più della metà profughi per la seconda
volta. Gli “abitanti” di al-Fawwar dunque tornarono ad essere circa 6.000,
una cifra che più o meno è rimasta invariata fino ad oggi: più della metà di
loro ha meno di 18 anni.
In
effetti al-Fawwar non è un campo grosso se paragonato ad altri campi,
specialmente quelli della Striscia di Gaza. Il campo di Jabalia ad esempio conta
circa 99.000 profughi; Rafah, sempre a Gaza, più di 85.000. Tra i 27 campi
della Cisgiordania e di Gaza ci sono campi anche più piccoli di al-Fawwar. Il
campo Beit Jibrin, praticamente dentro Betlemme, ad esempio ha solo poco più di
1.000 rifugiati.
A questo punto Abu Hiad incomincia a sciorinare una
trafila di dati. Sparsi per Siria, Giordania e Libano ci sono altri 32 campi
profughi. I palestinesi che vivono in Libano sono quelli che stanno peggio, i
palestinesi che si trovano in Giordania quelli che stanno “meglio”.. I
profughi che abitano nei 59 campi Unrwa sono circa 1.200.000, anche se
rappresentano una percentuale limitata di coloro che hanno lo status di
rifugiati, ossia di coloro che sono registrati come tali presso l’Unrwa. In
totale i palestinesi profughi sono circa 3.737.000. Questo enorme numero di
persone rappresenta il singolo gruppo di profughi più esteso del mondo. Secondo
le procedure di registrazione dell’Unrwa hanno diritto ad essere registrate
come profughi quelle persone che abitavano nella Palestina mandataria (ossia la
Palestina sotto il mandato britannico) tra il giugno 1946 e il maggio 1948, che
in seguito alla guerra del 1948 hanno perso i loro mezzi di sostentamento e le
loro proprietà e che si sono rifugiate in Giordania, Siria, Libano e
nell’attuale Cisgiordania (al tempo amministrata dalla Giordania) o a Gaza (al
tempo amministrata dall'Egitto). Chi scappò per effetto della guerra dei Sei Giorni, nel 1967, non ha lo status di
rifugiato, a meno che all’epoca non fosse già registrato come tale.
Ovviamente lo status di profugo si trasmette ai discendenti ed ecco perché oggi
ci sono più di 3.000.000 di profughi.
Ogni volta, quando Abu Hiad finisce di elencare i dati,
“il disco” passa a elencare le risoluzioni delle Nazioni Unite che
riconoscono il diritto al ritorno dei palestinesi. Abu Hiad si sofferma
soprattutto sulla 194, quella con la quale fin dal 1948 la legalità
internazionale stabilì che i profughi dovevano tornare da dove erano stati
cacciati. In effetti, secondo le decisioni dell’Onu, tutti i profughi
palestinesi dovrebbero avere il diritto a tornare e/o a ricevere un risarcimento
per le perdite subite. Dico e/o perché le interpretazioni della
risoluzione 194 differiscono a seconda del testo inglese o francese che si
voglia considerare. Una volta ho assistito ad una discussione animata tra alcune
persone di al-Fawwar e un membro della Autorità palestinese (Anp) che
accompagnava una delegazione di donatori dell’Unrwa. Abu Hiad, arrivato a
parlare della 194, dice che i profughi palestinesi hanno diritto al ritorno e al
risarcimento per i beni perduti. Il funzionario della Anp interviene e dice che
si tratta di un’alternativa e non di un doppio diritto. Inizia una discussione
animatissima. Sembra che tutti siano avvocati. Chi cita il testo inglese –
“the refugees wishing to return to their homes and live at peace with their
neighbors should be permitted to do so at the earliest practicable date...
compensation should be paid for the property of those choosing not to return”
– chi urla, chi addirittura fa la scena di andarsene dalla sala dove si tiene
l’incontro. Alla fine la lite si risolve, gli animi si calmano, ma comunque
rimane il fatto che da 53 anni più di 1.000.000 di palestinesi vive ancora nei
campi e altrettanti nella diaspora.
Vedi Autorità palestinese
Nei
primi anni Novanta Oslo (vedi Oslo) ha posto alcuni punti fermi nei rapporti tra
Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), se mai è
possibile che in questo Medio Oriente ci siano punti fermi. Israele è stato
riconosciuto dall’Olp e ai palestinesi è stato riconosciuto il diritto di
discutere il riconoscimento del proprio Stato sul 22% della Palestina storica,
ossia della Palestina governata prima del 1948 sotto il mandato britannico.
Discutere appunto, perché Oslo non ha determinato il riconoscimento della
Palestina da parte di Israele. Si è avviato così il processo di pace, ossia un percorso che per gradi
avrebbe dovuto portare alla costituzione di uno Stato nazionale palestinese le
cui caratteristiche, come ormai è risaputo, avrebbero dovuto essere discusse e
definite in un accordo finale entro il 13 Settembre 2000.
Una delle clausole accettate dalle due parti sedute al
tavolo del negoziato fu quella che stabiliva la divisione di quel 22% di
Palestina storica in tre differenti aree: aree A, poste immediatamente sotto il
completo controllo palestinese, civile e militare; aree B, sotto controllo
civile e amministrativo palestinese, ma controllate militarmente da Israele per
le questioni di sicurezza; infine aree C, sotto completo controllo israeliano,
civile, amministrativo e militare. Il processo avviato avrebbe dovuto portare la
nascente Autorità palestinese a poter dichiarare un unico Stato su tutti i
Territori palestinesi (vedi Territori). Con il progressivo ritiro dell’Israeli
Defence Forces (vedi Idf) dalle aree B e C tutto quel 22% di Palestina storica
avrebbe dovuto diventare area A e quindi una Palestina riconosciuta e accettata
da Israele. Non credo che sia utile elencare qui le mille clausole che
definivano la gestione di queste tre aree e la loro progressiva trasformazione
in un unico Stato, tuttavia mi sembra importante puntualizzare che per ragioni
di sicurezza Israele, secondo gli accordi di Oslo, ha comunque il diritto di
controllare i movimenti da e per le aree A. Inoltre tutte le strade di
collegamento tra Israele e gli insediamenti rimangono sotto l’autorità
militare israeliana quand’anche passino per le aree A, B o C.
Il 13 settembre 2000, ossia il giorno in cui secondo
gli accordi di Oslo e le loro successive modifiche i palestinesi avrebbero
dovuto dichiarare il loro Stato, la Cisgiordania era così divisa:
aree A 17,2%, aree B 23,8%, aree C 59%. A Gaza il 60% del territorio era area A,
con più di 1.000.000 di abitanti (l’area più densamente popolata al mondo),
mentre il restante 40% rimaneva occupato dagli insediamenti israeliani abitati
da circa 6.500 coloni. A oggi questi dati sono ancora validi.
In sostanza se si guarda la mappa dei Territori secondo
la suddivisione nei tre differenti tipi di area, sembra di guardare una pelle di
leopardo.
Per spiegare che cosa significhi la suddivisione dei
Territori occupati in bantustan provo a fare un esempio pratico. Poniamo che la
Svizzera occupi l’Italia. Dopo anni di occupazione si riesce ad arrivare ad un
accordo. L’Italia tornerà ad essere Italia solo dal Lazio in su, il Piemonte
rimarrà svizzero, mentre la Val d’Aosta tornerà a essere Italia. Tutto
questo non all’improvviso. Si stabilisce di seguire l'esempio del processo di
pace mediorientale e dunque si divide l’Italia, ossia il territorio che va dal
Lazio in su, in tre aree: A, B e C. Su alcune zone, dove gli svizzeri hanno
impiantato le loro colonie, si decide di non trattare e rimandare la questione
ad un accordo finale. Poniamo dunque che le province di Roma, Firenze e Milano
diventino aree A, le aree immediatamente circostanti aree B e tutto il resto del
territorio area C, ovviamente ad esclusione del Piemonte svizzero e di tutte
quelle zone dove si trovano le colonie svizzere. Ora poniamo che io mi trovi a
Roma e voglia andare a Firenze, due aree tornate sotto il controllo italiano.
Prendo l’auto e arrivo ai confini della provincia di Perugia, area C. L devo passare un posto di blocco dei militari svizzeri che mi chiedono la
carta d’identità, ispezionano la mia auto e poi mi lasciano andare. Dopo
Perugia passo di nuovo in area A e quindi un altro posto di blocco svizzero;
stessa trafila e finalmente arrivo a Firenze. Decido di trascorrere una
settimana a Firenze e quando voglio tornare a Roma mi accorgo che è Ramadan e
in quell’occasione gli svizzeri chiudono tutte le frontiere e i posti di
blocco delle aree B e C. Devo aspettare che la chiusura termini oppure
arrischiarmi a passare per strade sterrate. Da Firenze a Roma, il percorso che
potrei fare in due ore e mezzo diventa di almeno cinque o sei.
Tornato a Roma, dopo alcuni giorni il mio capo mi
chiede di andare a fare un’ispezione alla filiale della nostra ditta che si
trova ad Aosta. Mi consegna l’auto dell’ufficio e io parto. Passando dalle
aree A a quelle B devo fermarmi ai posti di blocco dove oggi gli svizzeri per
fortuna sono abbastanza accondiscendenti. Quando arrivo in prossimità della
Liguria, che è tutta area B, devo fare una diversione lunghissima. Non posso
passare per La Spezia che, dopo essere stata distrutta dagli svizzeri e
colonizzata con un nome tedesco, ora è diventata svizzera. Mi tocca passare in
Lombardia. Mentre guido mi chiedo come mai lungo il Po siano tutte aree C. A
pensarci bene non è così strano: sono le zone più fertili e ricche. Finalmente
arrivo al confine con il Piemonte. I soldati svizzeri che mi bloccano mi
chiedono il passaporto e il permesso speciale che il mio capo aveva ottenuto per
me nei giorni precedenti dalle autorità svizzere. Mostro i documenti richiesti
e i soldati mi dicono che per andare ad Aosta posso passare solo per una certa
strada e comunque non con la mia auto. Dopo lunghi controlli mi fanno salire su
un pullman speciale scortato dalle loro camionette militari e quindi partiamo
verso la Val d’Aosta. Arrivati all’ennesimo confine ci aspetta un altro
posto di blocco, ma questa volta le procedure sono ancora più lunghe. Quasi due
ore per poter passare il controllo militare. Entro in questa regione che è
tutta circondata da una recinzione di filo spinato e devo chiamare un taxi.
Finalmente arrivo ad Aosta, anche se il mio taxi impiega circa un’ora in più
della volta scorsa. Gli svizzeri hanno rinforzato l’insediamento di
Saint-Vincent e, dunque, dobbiamo fare un giro un po’ più lungo per non
incontrare i loro carri armati. Qualche giorno dopo, mentre faccio ritorno a
Roma mi chiedo se dopo otto anni di questa vita è possibile che mi ci abitui.
In Palestina questa è la vita quotidiana da otto anni,
l’unica differenza è che la superficie complessiva di Cisgiordania, Gaza e
Israele è poco più estesa di quella della Lombardia. I tempi di percorrenza
pero’ cambiano di poco.
A
seguito degli accordi di Oslo (vedi Oslo) Israele ha riconosciuto la cosiddetta
Autorità palestinese (Autorità nazionale palestinese – Anp, o Pna secondo la
versione inglese Palestinian National Authority). Che cosa significa questo
riconoscimento? Innanzitutto che gli israeliani, per negoziare con i palestinesi
e intraprendere il famoso “processo di pace” non dovevano più citare
l’odiato acronimo dell’Olp (o Plo per usare la versione inglese Palestinian
Liberation Organization). Con Oslo la Palestina non doveva più essere liberata,
né si potevano più arrogare questo diritto i nemici di Israele di sempre, i
“terroristi” dell’Olp, come da sempre Israele ha definito i suoi membri.
Dal 1994 in poi dunque i palestinesi hanno visto
arrivare in Cisgiordania e a Gaza l’Autorità palestinese. Per la verità
hanno visto arrivare due Autorità palestinesi, una a Gaza e una in
Cisgiordania. Problemi di mobilità tra la Striscia e i Territori ad ovest del
Giordano, ma anche problemi di spartizione del potere, amministrato e gestito
direttamente da Arafat e dai dirigenti dell’Olp rientrati dall’esilio di
Tunisi. Il nuovo soggetto “politico-istituzionale”, a parte la sua duplice
essenza, riunificata comunque dall’autorità unica di Arafat, presidente
simbolo, ma anche padre della (futura) nazione, soffriva e soffre tuttora di
numerose stranezze.
Innanzitutto il gruppo dirigente dell’attuale Autorità
palestinese era fuori dal paese che reclamava di voler liberare quando
effettivamente il movimento di liberazione nazionale portò avanti la lotta di liberazione della
Palestina. Forse è l’unico caso al mondo di una dirigenza che conduce una
lotta di liberazione fuori del paese che intende liberare e poi si presenta a
governarlo quando gli viene riconosciuta una parvenza di autorità.
Le stranezze principali dell’Anp derivano comunque
dalla stortura fondamentale che ne sta alla base: l’Autorità rappresenta uno
Stato che non esiste. Gli accordi di pace avviati con Oslo definivano date e
scadenze perché la sua esistenza fosse finalmente ufficializzata, ma ad oggi
questo processo si è interrotto (e non a causa dell’Intifada al-Aqsa, ma a
causa del continuo procrastinare dei governi israeliani nel riconoscere lo Stato
palestinese).
Da questa stortura originaria derivano molte
“stranezze”, prima tra tutte il fatto che in Palestina esiste un apparato
statale senza uno Stato. Ci sono corpi di polizia, ufficiali ministeriali e pure
ministeri, ma non uno Stato [a cui possano fare riferimento]. E’ vero si’ che
ci sono aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sulle quali la Pna ha
piena autonomia, le aree A, ma è altrettanto vero che su queste aree la
sovranità non è completa. Per motivi di sicurezza Israele puòò sempre interferire nella gestione palestinese di
questi territori, per un mutuo accordo tra Israele e Pna sancito dai trattati di
Oslo (per saperne di più sulla questione territoriale vedi Aree A, B e C).
C’è
poi la stranezza legislativa di questa Autorità palestinese. La Pna, là dove
governa, “governa” secondo un miscuglio indistricabile di leggi e
disposizioni. E questo non solo per volontà dei suoi funzionari o legislatori,
ma anche e soprattutto come conseguenza diretta della mancanza di uno Stato
autonomo a cui far riferimento. Leggi giordane, egiziane, israeliane e
addirittura inglesi del periodo mandatario, sono il riferimento principale dei
giudici palestinesi, oltre che ovviamente le nuove leggi approvate dall’organo
legislativo della Pna stessa, il Palestinian Legislative Council (Plc), e le
leggi coraniche, o shari’ah, che sono considerate fonti di diritto al
pari delle altre leggi civili citate ora. Ovviamente la questione si complica
ancor di più quando si guarda alla gestione delle zone palestinesi che sono
sotto controllo misto, le cosiddette aree B. In queste parti di territorio
l’Autorità palestinese ha un limitato controllo civile-amministrativo, che
gestisce appunto con il guazzabuglio di fonti sopra citate, ma che si intricano
ancor di più con leggi israeliane civili e militari. Se poi si cerca di
comprendere come vengano “governate” le aree C, quelle sotto completo
controllo militare e civile israeliano, la questione risulta ancor più
difficile. E’ vero che l
i
palestinesi possono governare ben poco e non possono far applicare per nulla la
loro legge, ma è vero altresì
che le
persone che l vivono sono tutte palestinesi, sono sotto la
diretta gestione israeliana, ma non sono cittadini israeliani e dunque non
possono godere dei diritti di cui godono gli israeliani, pur dovendo al contempo
sottostare ad una serie di doveri imposti dalle leggi e dagli ordini militari
israeliani. Bisogna comunque fare anche un breve riferimento alle leggi “non
scritte” che i palestinesi osservano. Non che le consuetudini sociali abbiano
forza di legge riconosciuta dall’Autorità palestinese, ma è pur vero che
esse hanno un valore importantissimo per la gente che si potrebbe riconoscere
nel futuro stato palestinese, governato dalla Pna. A ben guardare la gente
comune considera questo insieme di pratiche sociali quasi fossero leggi e
sicuramente il controllo sociale esercitato per mezzo di esse è uguale se non
maggiore di quello esercitato attraverso le leggi scritte che la Pna fa
applicare dove possibile.
Se
alle stranezze “legislative” si aggiunge la particolare formazione sociale
ed etnica dei Territori palestinesi si finisce per non capire davvero che cosa
sia l’Autorità palestinese. I palestinesi non sono solo arabi musulmani
sunniti: tra i palestinesi ci sono arabi musulmani sciiti, arabi
cristiano-ortodossi, arabi cristiano-cattolici, arabi cristiano-coopti, arabi
atei o laici in generale, in aggiunta ad alcune minoranze etnico-religiose, come
i samaritani o le tribù beduine. E se si considera il valore attribuito alle
pratiche sociali, di cui si è appena parlato, in aggiunta al fatto che ciascun
gruppo religioso e sociale ha le sue pratiche, si può
comprendere come sia difficile definire l’Autorità palestinese come unico
organo politico-istituzionale di rappresentanza e che compito difficile spetti
all’Autorità stessa.
e’ vero tuttavia che la Pna è, almeno formalmente,
un’istituzione democratica, ossia espressione di una volontà popolare
esercitata tramite il voto riconosciuto con suffragio universale a tutti i
palestinesi abitanti delle aree A, B e C. I principali partiti politici sono:
al-Fatah, Hamas, Jihad, Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp),
Fronte democratico per la liberazione della Palestina (Fdlp), Partito
palestinese della gente (ex partito comunista, che va sotto il nome inglese di
Palestinian Peoples Party, Ppp). A questi partiti maggiori si affiancano
numerosi partiti minori e fazioni, soprattutto di ispirazione islamica.
I partiti politici sono rappresentati in un’unica
camera parlamentare, il Plc, composto da 88 membri eletti direttamente nei 16
distretti, o governatorati, in cui è divisa la Cisgiordania e la Striscia di
Gaza. A capo del Plc c’è uno speaker, o portavoce. L’organismo dovrebbe
essere eletto ogni 4 anni, tuttavia, pur essendo scaduto il termine prestabilito
dalla legge, dal 1996 non si tengono elezioni politiche. Il popolo vota
direttamente anche per il presidente dell’Autorità, il quale a sua volta
designa i 32 ministri che compongono il governo, il 20 per cento dei quali
possono anche non essere parte del Plc. Ogni decisione del governo deve essere
convalidata dal presidente, che non esercita questa autorità solo formalmente,
ma ne fa un uso quasi legiferativo. Ad esempio ad oggi l’Autorità palestinese
non ha ancora adottato alcun documento costituzionale, perché nessuna delle
versioni proposte dal Plc al presidente Arafat ha ricevuto la sua approvazione.
Le amministrazioni locali, ossia i 16 governatorati,
non si rinnovano con elezioni amministrative dal 1967 e sono coordinate a
livello centrale dal ministero delle Autorità Locali, che negli ultimi anni ha
designato direttamente numerosi sindaci e funzionari amministrativi.
Partiamo
dai Centri donne, giovani e della riabilitazione. Questo tipo di centri esistono
pressoché in ogni campo profughi. Quando furono costituiti nei primi anni
Novanta essi rappresentavano lo sforzo congiunto delle comunità profughe e
dell’Unrwa (vedi Unrwa). L’Unrwa metteva le strutture e il sostegno alle
risorse umane, le comunità i loro bisogni e l’aggregazione spontanea intorno
ad alcune soluzioni. In Palestina ad esempio gli asili pubblici non esistono: né
il sistema educativo della nuova Autorità palestinese, né le strutture
scolastiche Unrwa li prevedono. I comitati che gestivano il Centro donne e
quello della riabilitazione decisero di aprire un asilo in ciascun centro. Oggi
i due asili messi insieme servono circa 150 bambini. Ancora: fin verso la metà
degli anni Novanta il Centro giovani rappresentava il maggior punto di
aggregazione per i ragazzi del campo. Attività sportive, dibattiti, anche
attività folcloristiche come la dabka, la danza tradizionale
palestinese.
Con il tempo l’Unrwa ha ridotto il suo impegno a
sostegno di questi Centri e l’autogestione ha dovuto procedere con i mezzi che
si riuscivano a trovare: le quote degli iscritti, le misere rette dei bambini,
gli sporadici progetti degli stranieri (in effetti sono pochissime le Ong
straniere che hanno lavorato e lavorano nei campi). Le attività comunque sono
continuate, ma con il tempo le strutture gestionali sono diventate troppo
rigide: hanno cominciato a rappresentare solo se stesse e non più la spinta
comunitaria che le animava all’inizio. La cosiddetta sostenibilità,
sbandierata dall’Unrwa come un risultato raggiunto e usata come scusa per
ritrarsi dall’impegno economico per il sostegno a questi centri, è venuta a
mancare. Del resto per me, lavorando quotidianamente ad al-Fawwar, è stato
abbastanza facile capire i motivi delle impasse sperimentate dai Centri.
In un contesto così povero e deprivato come quello di un campo profughi è
difficile lavorare a lungo come volontari. Un’insegnante dell’asilo del
Centro per la riabilitazione ad esempio guadagna 350 nis (new Israeli
sheqel) al mese, ossia un po’ meno di 200.000 lire. E’ vero: le insegnanti
lavorano abbastanza poco e hanno moltissime occasioni formative; inoltre sono
parte di una rete di sostegno reciproco che in teoria le dovrebbe motivare
fortemente. Eppure quando le insegnanti raggiungono un livello di formazione
accettabile, non appena acquisiscono le competenze necessarie per migliorare la
loro posizione lavorativa, quasi sempre decidono di lasciare il Centro e
impiegarsi altrove. E chi non lo farebbe? In un campo profughi è difficilissimo
vedere i fattori di sviluppo della comunità come delle motivazioni sufficienti
per un impegno costante in essa. Per quanto la comunità sia molto coesa, tutti
i profughi che ho conosciuto vivono sempre e comunque con l’aspirazione ad
andarsene dal campo e a sciogliere quei legami pur cinquantenari.
Perché dunque un quarto centro, il Centro comunitario
polivalente? Il progetto di al-Fawwar al quale ho lavorato scommetteva sul fatto
che questo nuovo Centro potesse funzionare come motore di nuove iniziative
basate sulla valorizzazione di quanto già esisteva e sul loro funzionamento
coordinato e in rete. La nuova biblioteca avrebbe dovuto partire
dall’esperienza dell’altra biblioteca già esistente, le attività con i
bambini avrebbero dovuto integrarsi con quanto già era in atto nel Centro
giovani, il presidio medico avrebbe dovuto essere una sorta di punto di ascolto
e di consultazione per tutti coloro che comunque già usufruivano della clinica
specializzata dell’Unrwa.
Le cose non sono andate come previsto. Le attività dei
Centri erano troppo deboli al momento in cui si è deciso di farle funzionare in
rete. Rispetto al presidio medico l’assistenzialismo dell’Unrwa ha
contribuito fortemente a indirizzare la richiesta della gente verso mere
prestazioni di servizio piuttosto che su interventi così teorici
e raffinati quali quelli descritti nei documenti di progetto. L’aspetto
interessante di un progetto di sviluppo pero’ è proprio la flessibilità che
si può e si deve applicare in casi come questi. Il Centro comunitario
polivalente ha preso dunque una piega differente da quella descritta nei
documenti approvati e finanziati. Ovviamente non è questo il luogo per
discutere del successo o meno di questi cambiamenti e più in generale di quello
che si è fatto ad al-Fawwar.
Esistono
sostanzialmente tre tipi di chiusura: interna, esterna e internazionale. La
chiusura interna si ha quando l’Esercito israeliano vieta i movimenti
all’interno dei Territori palestinesi. La chiusura esterna si ha quando
l’esercito israeliano vieta i movimenti dai Territori palestinesi ad Israele e
viceversa. Quando gli israeliani chiudono le frontiere tra i Territori
palestinesi e gli Stati confinanti si dice chiusura internazionale. Durante il
periodo dell’Intifada che racconto nei Comunicati l’esercito israeliano ha
imposto in misura differente tutti e tre i tipi di chiusura, anche se quella che
ha avuto gli effetti più drammatici è stata quella interna. Di seguito quindi
faccio riferimento soprattutto alle chiusure interne.
Per comprendere che cosa significhi il termine
“chiusura” innanzi tutto bisogna tenere presente la conformazione geografica
dei Territori palestinesi (vedi Aree A, B, C). Le varie macchie di leopardo che
compongono il territorio palestinese, sono separate tra loro da posti di blocco
(check-point) dell’esercito israeliano permanenti e/o temporanei. Quando si
dice che l’esercito impone la chiusura solitamente si intende che a questi
posti di blocco i soldati israeliani non lasciano transitare le auto e le
persone che vogliono passare da una parte all’altra. Ma è necessario fare
un’ulteriore distinzione: prima e dopo settembre 2000.
Prima di settembre 2000 c’erano vari gradi di
chiusura, anche se ufficialmente si trattava sempre del medesimo ordine
militare. Le chiusure più frequenti erano quelle che impedivano il transito dei
mezzi, solitamente privati e/o pubblici, ma permettevano il transito pedonale.
In questo tipo di chiusure i mezzi di soccorso, i rifornimenti e tutti i servizi
pubblici erano permessi. Talora la chiusura poteva essere più rigida e quindi
impedire anche il transito pedonale e dei mezzi di trasporto per merci e/o
approvvigionamento. La chiusura totale, ossia quella che impediva qualsiasi
movimento attraverso i posti di blocco, era abbastanza rara prima di settembre
2000. Le differenze nei gradi di rigidità della chiusura dipendevano
sostanzialmente dalle motivazioni della chiusura e dai soldati stessi preposti
ad imporla. Così ad esempio le chiusure imposte in occasione delle
festività ebraiche erano abbastanza “morbide”, mentre quelle determinate da
ragioni di sicurezza erano più rigide. Senza contare poi lo stato d’animo dei
soldati. Poteva capitare che ad alcuni posti di blocco i soldati fossero
particolarmente nervosi e quindi non facessero transitare nessuno, oppure, in
corrispondenza di posti di blocco in aree meno “calde”, soldati più
accondiscendenti lasciavano una maggiore libertà di movimento. Fatto sta che
quando la chiusura era abbastanza morbida, per lo più si applicava solo ai
palestinesi, quando invece era più rigida si applicava anche agli stranieri. A
quanto detto finora c’è da aggiungere una nota: spesso era possibile trovare
strade alternative per aggirare i posti di blocco chiusi. Ad esempio per
raggiungere Gerusalemme da casa mia ci sono due strade, su quella principale
c’è un posto di blocco, su quella secondaria, che passa dal Monte degli
Ulivi, non ci sono presidi militari permanenti. Per questo motivo quando la
strada principale era chiusa spesso si poteva fare un giro molto più lungo, ma
arrivare comunque a Gerusalemme. Solo raramente, quando la chiusura era
abbastanza rigida l’esercito israeliano imponeva dei posti di blocco
temporanei anche sul Monte degli Ulivi, che servivano ad estendere la chiusura
anche da quella parte.
Che cosa è successo dopo settembre 2000? Le chiusure
sono diventate tutte rigide e sono state imposte quasi tutti i giorni su quasi
tutte le strade di collegamento tra i Territori palestinesi. Spesso gli
stranieri sono stati rimandati indietro e molte volte nemmeno i mezzi delle
Nazioni Unite e i mezzi di soccorso potevano transitare. Dopo circa un mese le
chiusure sono diventate quasi totali. L’esercito israeliano impediva il
transito attraverso i posti di blocco sulle strade di collegamento principali,
dove comunque i cittadini israeliani avevano il permesso di passare, mentre la
mobilità sulle strade di accesso alle sole aree palestinesi veniva fisicamente
impedita. Come? Nei Comunicati racconto abbastanza a lungo di questo tipo di
chiusure: blocchi di cemento, sbarramenti di terra, pietre e materiali di
recupero venivano posti sulle strade a impedire fisicamente il passaggio. In
alcuni casi l’esercito israeliano ha anche scavato delle buche sulle strade di
accesso ai Territori palestinesi. Alcuni di questi blocchi erano presidiati
dall’esercito israeliano, altri erano sguarniti. Ovviamente sulle strade
bloccate in questa maniera era impossibile il transito di qualsiasi mezzo,
privato, pubblico, di soccorso o delle Nazioni Unite. Quando i palestinesi si
arrischiavano a forzare i blocchi sguarniti, rimuovendo gli ostacoli o
riempiendo le buche con terra e pietre, il giorno seguente l’esercito
ritornava con i bulldozer e chiudeva nuovamente la strada. Spesso anche le
strade secondarie erano chiuse alla stessa maniera e dunque si dovevano aprire
ex novo strade alternative. Si passava per lo più attraverso i campi, le
mulattiere o i sentieri erano usate come strade di collegamento per aggirare i
blocchi. Ma anche questi passaggi improvvisati spesso erano bloccati
dall’esercito israeliano. I soldati imponevano ostacoli fisici o fermavano le
persone e i mezzi rimandandoli nella direzione da cui provenivano, spesso
danneggiando le ruote dei mezzi o requisendo le chiavi dei conducenti.
Il
community activator di cui si parla nei comunicati non è una figura
professionale specifica in Palestina o nei campi profughi. Semplicemente sarebbe
meglio dire che corrisponde ad una scommessa del progetto per il quale ho
lavorato ad al-Fawwar. Secondo le intenzioni di chi aveva scritto il progetto e
per quanto concretamente si è cercato di realizzare ad al-Fawwar i community
activator avrebbero dovuto essere le persone predisposte e formate per
“muovere” la comunità sulle tematiche dell’infanzia. Il meccanismo che si
cercava di costruire funzionava ad un duplice livello: il community activator
veniva formato e le sue nuove competenze dovevano servire a strutturare una
componente formativa accessibile ad altre persone del campo che, col tempo,
avrebbero potuto diventare a loro volta community activator.
La
prima community activator con cui ho lavorato è stata Maesa, una ragazza di 26
anni, selezionata e assunta nello staff del progetto per le sue brillanti
capacità tecniche e per un suo modo particolare di fare che qualsiasi operatore
comunitario dovrebbe avere: gentile, ma determinato. Per una ragazza di Hebron
(la sua città di provenienza) non è facile lavorare ed affermarsi, l
il contesto culturale e sociale è tra i più
conservatori della Palestina. Ma la famiglia Irfaeya è di vedute abbastanza
aperte, forse anche perché la componente femminile è predominante: sei sorelle
e due fratelli. Tutte le ragazze della famiglia all’aspetto sono differenti
tra loro, chi ha il velo, come Maesa, e chi invece sembra quasi un’israeliana,
come Wajda, di cui parlo anche in uno dei Comunicati. Tutte lavorano e nessuna
di loro è sposata, cosa strana per la maggioranza delle ragazze palestinesi che
hanno più di 20 anni. A Hebron le ragazze si sposano anche a 14 anni. Maesa ha
un master in Sanità pubblica conseguito presso l’Università di Washington, e
prima di lavorare ad al-Fawwar ha lavorato con successo in varie Ong
internazionali nel campo della sanità.
Nel
progetto di al-Fawwar Maesa si occupava di tutto, dalle questioni logistiche a
quelle amministrative, oltre a mantenere rapporti costanti con le insegnanti,
gli educatori e le famiglie dei bambini coinvolti nelle attività del progetto.
Maesa da esperta di gestione dei servizi sanitari di base e comunitari quale è,
si occupòò
di organizzare il servizio di clinica del nuovo Centro comunitario polivalente
che stava nascendo. Frequentòò
corsi di formazione e di conseguenza organizzòò
a sua volta corsi di formazione, mise in contatto l’associazione delle donne
di al-Fawwar con altre associazioni fuori del campo e tenne anche dei seminari
specifici sulla salute rivolti alle donne.
Dopo
un anno di lavoro Maesa decise di non rinnovare più la sua collaborazione con
il progetto di al-Fawwar. Per quanto il suo lavoro avesse ottenuto un certo
successo non si sentiva così
in contatto con la comunità e, dalle discussioni con
il comitato di gestione del progetto formato dai rappresentanti dei Centri del
campo (vedi Centro donne, Centro giovani, Centro per la riabilitazione), risultòò
che la cosa era reciproca. Sicuramente agivano quelle diffidenze e quelle
divisioni che intercorrono tra profughi e palestinesi delle città e dei
villaggi (vedi Unrwa). Ad ogni modo risultò
ovvio che le competenze tecniche specifiche che il progetto cercava di
rinforzare non potevano bastare. Si decise dunque di selezionare tre nuovi
community activator, tenendo conto anche delle relazioni personali dei candidati
con alcuni gruppi della comunità. Un rischio ovviamente, perché dalla
relazione personale alla raccomandazione il passo è breve. Wasta si dice
in arabo quando qualcuno ottiene un posto grazie ad una raccomandazione. La
scelta alla fine è stata fortunata anche se l’attivazione della comunità non
è risultata così efficace.
Senza cercare le ragioni di questa inefficacia, vale comunque la pena raccontare
un po’ chi sono e che cosa dovevano fare i tre nuovi community activator.
Hasan
ha 38 anni e lavora come impiegato dell’Unrwa a Hebron. Ha una figlia e un
figlio: Ali e Aliah. Ha una laurea in sociologia, e gli piace moltissimo
leggere. Ha iniziato nelle prigioni israeliane, dove ha passato in detenzione
amministrativa (ossia senza processo) un periodo cumulativo di cinque anni.
Nella precedente Intifada è stato un attivista politico del Fronte popolare di
liberazione della Palestina (Fplp) e questo gli è costato caro.
Hasan
doveva mantenere i contatti tra i rappresentanti dei centri del campo e il nuovo
Centro comunitario polivalente. La sua era un’attività quasi politica: doveva
facilitare la progressiva appropriazione del progetto da parte della comunità,
facendo leva su coloro che politicamente contano nella gestione delle attività
comunitarie realizzate tramite i centri (vedi Centro donne, Centro giovani,
Centro della riabilitazione). La sua esperienza passata lo rendeva adatto a
questo compito, anche se la provenienza politica di coloro con i quali avrebbe
dovuto aver a che fare era differente. La maggior parte dei rappresentanti dei
Centri appartiene ad al-Fatah. Abu Hiad comunque mi aveva rassicurato: quando si
tratta di questioni della comunità qui siamo tutti profughi, al-Fatah o Fplp
non importa.
Tariq
è il community activator più giovane, ha 22 anni e studia letteratura inglese
all’Università di Betlemme. Anche lui ha scelto di lavorare nella sua comunità
per una forte motivazione politica. Appartiene al Fronte democratico per la
liberazione della Palestina (Fdlp) e suo padre nella passata Intifada è stato
un attivista politico molto importante del campo. Tariq stesso rappresenta il
Fdlp nel Consiglio degli studenti universitari di Betlemme.
Tariq
si doveva occupare di organizzare le attività per i bambini del Centro
comunitario polivalente. Un laboratorio di lettura nella nuova biblioteca, un
programma settimanale di attività ludiche, il club degli scacchi, che ai
bambini palestinesi piace moltissimo, il film guardato con il videoregistratore
tutti insieme al giovedì
pomeriggio eccetera.
Saeda
ha 26 anni, è nata nel campo di al-Fawwar dove è sposata con tre figli. Prima
di lavorare come community activator nel Centro comunitario polivalente Saeda
aveva lavorato come infermiera professionale per 10 anni nel principale ospedale
di Hebron. E’ stato naturale dunque che si occupasse della clinica, o meglio
del presidio medico del nuovo Centro comunitario polivalente.
Dall’organizzazione amministrativa, alla schedatura dei pazienti, fino
all’ascolto di tutti coloro che arrivavano proprio quando il dottore non
c’era. Avrebbe dovuto occuparsi anche dei rapporti con il Centro donne, come
aveva fatto in precedenza Maesa, ma il presidio medico ha assorbito quasi tutto
il suo tempo. Di lei posso dire ben poco perché ha iniziato a lavorare al
progetto quando ormai io stavo quasi per lasciarlo.
e’ inutile dire comunque che il rapporto di lavoro presto
si è trasformato anche in un legame affettivo, soprattutto con Maesa, che da
ottobre 2000 è rimasta reclusa in casa per quasi quattro mesi a causa del
coprifuoco imposto dagli israeliani sulla sua città.
I cooperanti rappresentano quasi una comunità a sé stante all’interno
della nutrita comunità internazionale presente in Palestina. Oltre ai
cooperanti c’è il personale delle missioni diplomatiche, i numerosissimi
dipendenti delle fin troppo presenti Nazioni Unite, il personale delle scuole
religiose o private o ancora i dipendenti dei vari istituti di cultura. In un
paese dove al massimo ci sono 8 milioni di abitanti locali, tutti questi
stranieri (vedi Internazionali) si notano. Eppure i cooperanti sono un gruppo di
persone particolare e credo di poterlo dire perché anche io ho fatto parte di
questo gruppo, se non altro durante i primi quattro mesi di Intifada.
Letteralmente il cooperante è colui che ha un contratto con una Ong (vedi Ong)
straniera per lavorare alla realizzazione di un progetto di cooperazione. E’
ovvio che io qui parli dei cooperanti italiani. Il cooperante fa un po’ di
tutto per la gestione di questi progetti: si occupa delle questioni contabili,
intrattiene rapporti ufficiali con le autorità, realizza alcuni interventi del
progetto che gestisce in prima persona, insomma è una sorta di uomo o donna
factotum. Ovviamente il suo lavoro dipende molto dal tipo di progetto cui lavora
e senza stare a elencare tutti quelli finanziati in Palestina per le Ong
italiane, si può fare una distinzione di massima tra progetti di
sviluppo e progetti di emergenza. I primi sono quelli che durano di più,
solitamente tre anni, e appunto hanno obiettivi di sviluppo a lungo termine. I
progetti di emergenza sono quelli che invece durano meno, solitamente sei mesi,
e si prefiggono obiettivi più limitati, ma più urgenti. Ad esempio il progetto
al quale ho lavorato io fino al gennaio 2001 era un progetto di sviluppo con lo
scopo di migliorare la condizione dell’infanzia nel campo profughi di
al-Fawwar. Le attività erano intese a creare le condizioni per cui la comunità
del campo col tempo potesse sviluppare una maggior consapevolezza dei diritti
dei bambini e quindi attuare misure di protezione e promozione della loro
condizione. si trattava dunque di rinforzare i Centri già esistenti (vedi
Centro donne, Centro giovani, Centro per la riabilitazione), concentrandosi non
solo sul supporto alle strutture e alle attrezzature, ma soprattutto sulla
formazione degli operatori. Il progetto che gestivano Carla e Gianluca, due
amici e cooperanti di un’altra Ong italiana di cui parlo nei comunicati, era
un progetto di emergenza che serviva alla distribuzione di cibo per il bestiame
di molte tribù beduine. Anche in questo tipo di progetti spesso c’è una
componente di formazione, ma il grosso dell’intervento si concentra sui
bisogni materiali immediati determinati da una situazione di emergenza. Ma
torniamo ai cooperanti e al motivo per cui ho detto che si tratta di un gruppo
di persone particolare. Innanzitutto per lo più i cooperanti vivono lontano da
casa loro per lunghi periodi e questo spesso determina una prospettiva molto
distanziata da ciò che accade
in Italia. Al contempo, per le relazioni quotidiane con la gente del posto dove
si lavora, si stringono legami particolari e si assume una conoscenza molto
approfondita del posto dove si gestiscono i progetti, cosa che ovviamente non
accade per il personale delle missioni diplomatiche o per i dipendenti delle
Nazioni Unite che hanno molte meno relazioni “sul campo”. E’ ovvio dunque
che tra gli internazionali i cooperanti siano quel gruppo di persone più di
parte, ma posso dire, sicuramente riferendomi alla mia esperienza personale e
alle persone che ho conosciuto in Palestina, che questo quasi mai accade per dei
preconcetti, delle posizioni di principio o ideologiche, ma per l’esperienza e
la condivisione profonda delle vicende quotidiane della parte oppressa. Devo
dire che comunque questa vita un po’ “sradicata”, ma nel vivo dei
problemi, in generale piace alla maggior parte dei cooperanti che ho conosciuto.
Scherzando tra amici, una volta qualcuno ha detto che questo lavoro è un po’
come una droga. Sicuramente è vero che l’esperienza da cooperante lascia un
segno forte nella vita delle persone che, come me ad esempio, hanno deciso di
farlo anche solo per un periodo non troppo lungo.
Vedi Passaggio di Sicurezza
Per
lo più nel testo quando parlo degli espatriati mi riferisco ai cooperanti (vedi
Cooperanti), anche se in questa categoria alle volte ci si puòò riferire anche ai consolari, ai diplomatici, a tutto quel personale che
lavora presso gli organi istituzionali stranieri. La vita di questi ultimi la
conosco molto meno di quella dei cooperanti che sono stati e sono tuttora gli
amici con i quali ho vissuto la maggior parte del tempo in Palestina. Anche
perché le due comunità fanno poca vita comune.
Vedi Linea Verde
Hebron
è una città divisa. Per difendere la presenza dei 400 coloni che ne occupano
una porzione proprio nel cuore della parte vecchia, l’esercito israeliano ha
diviso nettamente la città in due parti: Hebron H1 ed Hebron H2. H1 è la parte
della città sotto completo controllo palestinese, anche se non viene definita
area A. H2 è la parte sotto completo controllo israeliano, anche se
propriamente non viene definita area C. L’insediamento ebraico ovviamente si
trova nella parte H2 e quando per ragioni di sicurezza l’esercito israeliano
ritiene opportuno intervenire con la mano pesante su quest’area viene imposto
il coprifuoco. In questo modo Hebron H2 diventa la prigione collettiva per
30.000 palestinesi, mentre i 400 coloni ebrei sono liberi di muoversi senza
restrizioni.
Il confine che separa la città divide a metà strade,
quartieri e addirittura case. Una volta con Maesa ho fatto visita ad un signore
che abita proprio di fronte all’insediamento ebraico. L’esercito Israeliano
ha espropriato metà della sua abitazione. Il confine è passato di l e metà della sua casa ora è sorvegliata dai soldati dell’Idf.
Fortunatamente è riuscito a preservare l’altra metà grazie ad un sistema
originale: ne ha fatto un museo. Nel corso degli anni ha raccolto tutto quanto
gli pareva interessante, per lo più cianfrusaglia, e ne ha riempito le stanze
di casa. Poi ha chiamato i giornalisti e ha aperto le porte ai turisti, pochi
per la verità, che visitano Hebron. A chiunque gli faccia visita mostra dalle
finestre della sua casa-museo l’insediamento, le due enormi cisterne
dell’acqua con la stella di David e il giardino dell’asilo per i bambini
ebrei circondato dalle grate di acciaio come un vero e proprio ghetto. Ha
attirato l’attenzione e gli israeliani non hanno più toccato casa sua. Per
ora si limitano a sorvegliarlo dal tetto della parte di casa confiscata.
Israeli
Defence Forces. In altre parole l’esercito israeliano. Solo qualche parola in
aggiunta a questa spiegazione. In Israele il servizio militare dura tre anni per
i maschi e due per le femmine. Finito il servizio di leva si viene richiamati
ogni anno per un mese all’anno fino allEtà di 40 anni. Poi si può rimanere in un corpo di riservisti richiamati in servizio solo in base alle
necessità dello Stato. Il servizio di leva è obbligatorio per tutti, tranne
che per i membri della comunità ebrea ultra-ortodossa e per gli arabi
israeliani, che ne sono esentati. Ma questa esenzione non è per nulla un
vantaggio in Israele. Solo chi ha fatto il militare ottiene prestiti dalle
banche, ottiene certi posti di lavoro e via di seguito con tutti i privilegi che
in un normale Stato democratico dovrebbero essere diritto di tutti. Se per gli
ultra ortodossi tuttavia l’esenzione dal militare è controbilanciata da una
serie di vantaggi e privilegi alternativi, così non è per gli arabi cittadini di Israele che di fatto
rimangono privati di alcuni diritti garantiti invece ai cittadini israeliani
ebrei che prestano servizio nell’Idf.
Ancora due parole a proposito del servizio civile o
servizio alternativo al militare: non esiste. Quei pochi obiettori di coscienza
che si arrischiano a non presentarsi alla chiamata alle armi sono considerati
disertori e dunque imprigionati. Durante questa seconda Intifada alcuni soldati
si sono rifiutati di prestare servizio nei Territori: sono finiti in galera.
Gli
internazionali (internationals nell’inglese imbastardito che si parla
qui), sono gli stranieri e nello specifico gli stranieri che qui lavorano. In
buona sostanza questo è un termine molto simile a “espatriati” (vedi
Espatriati). E’ importante riportare questa definizione perché nel testo
viene usata molto spesso e perché di internazionali ce ne sono davvero tanti,
forse troppi.
Il
termine Intifada è stato usato nelle cronache della stampa internazionale per
indicare l’insurrezione popolare avvenuta dal 1987 al 1992 nei Territori
palestinesi contro l’occupazione militare israeliana; a quegli avvenimenti
questo termine è rimasto indissolubilmente legato, soprattutto nel linguaggio
dei media internazionali.
Letteralmente pero’ la parola, che in arabo significa
insurrezione, non ha un legame specifico con gli avvenimenti del 1987 e
dunque puòò essere usata per indicare qualsiasi insurrezione o sollevazione. La
sollevazione di settembre 2000 è stata chiamata Intifada al-Aqsa dalla moschea
dell’al-Aqsa (vedi al-Aqsa), dove tutto è iniziato, con la passeggiata
provocatoria di Ariel Sharon il 27 settembre 2000.
La
Linea Verde o Green Line è quel confine immaginario che venne tracciato con
l’armistizio conseguente alla guerra del 1948 tra Israele e gli Stati arabi
confinanti. A quel tempo si stabilì che l’attuale Cisgiordania, allora chiamata
Transgiordania, sarebbe rimasta sotto il governo del Regno giordano, mentre la
Striscia di Gaza sotto quello della Repubblica egiziana. Con il tempo quel
confine è diventato sempre più immaginario, fino a quando Israele nel 1967,
con la guerra dei Sei Giorni ha occupato la Cisgiordania e Gaza, vi ha
impiantato le sue colonie, ha imposto la sua presenza militare e ha sottomesso
gli abitanti di quelle aree alle sue leggi militari. Per questo motivo i
Territori palestinesi sono chiamati Territori occupati.
La Linea Verde, come tutti i confini determinati da un
conflitto, passava per le zone più assurde, dividendo a metà Gerusalemme, così
come i campi coltivati e alcuni villaggi palestinesi.
La divisione a metà di Gerusalemme era ed è forse quella più assurda e al
contempo meno reale. Nelle vicinanze dell’American Colony, uno degli alberghi
più belli della città che si trova nella parte palestinese, si può ancora vedere una vecchia costruzione che serviva per passare da una parte
all’altra del confine dell’armistizio. Oggi in quell’edificio ci sono
alcuni uffici dell’Unrwa e la strada che separava la parte est dalla parte
ovest della città è diventata uno stradone a sei corsie.
Ancora oggi passare da una parte all’altra di Nablus
Road è come passare da una città ad un’altra, per quanto è chiaro chi sia a
comandare. Un esempio per tutti: il quartier generale della polizia israeliana
si trova a est di Nablus Road, ossia nella parte palestinese. Se sulla città di
fatto governano solo gli israeliani, è anche vero che i palestinesi hanno
qualche autonomia nella gestione di alcuni servizi, soprattutto sociali. Ma ciò spesso
equivale a dire che si devono sobbarcare i costi di servizi per cui invece
pagano le tasse allo Stato di Israele. E’ ovvio dunque che ci sia una gran
differenza tra i servizi della città est e quelli della parte ovest.
I palestinesi che abitano a est di Nablus Road e dentro
le mura della città vecchia sono a tutti gli effetti cittadini differenti.
Differenti dagli israeliani e differenti dagli stessi palestinesi. Non hanno
alcun passaporto ma solo un lasciapassare israeliano. Nell’accesso a
Gerusalemme questo è un vantaggio, ma per viaggiare in Israele o all’estero i
palestinesi di al-Quds (ossia Gerusalemme secondo il nome arabo) devono ottenere
un permesso speciale. Ad ogni modo lo status garantito dalla carta d’identità
di Gerusalemme non è un certezza assoluta per i palestinesi che hanno
l’ambigua fortuna di goderne. Fin dal 1967 infatti il governo israeliano
applica una politica di confisca delle carte d’identità dei palestinesi che
mira a “giudaizzare” la città. Ad esempio chi vuole viaggiare all’estero
e ottiene il permesso speciale di cui si diceva sopra, per rientrare in Israele
deve ottenere un visto di rientro che alle volte viene negato. Il palestinese
che invece pensa di ottenere la residenza o la cittadinanza di un altro paese
perde ogni diritto a vivere a Gerusalemme. Se un palestinese rimane all’estero
per più di sette anni automaticamente non puòò più tornare a Gerusalemme. Se un palestinese si sposa con una donna che
non è residente a Gerusalemme spesso non ottiene il permesso di riunificazione
familiare, così come
se per sbaglio perde la sua carta d’identità non potrà più ottenere la
residenza per i figli. Dal 1967 a febbraio 2000 lo Stato di Israele ha
confiscato ai palestinesi di Gerusalemme 6.213 carte d’identità.
Vedi Community activator
In
Palestina, come in molti paesi del “Terzo mondo” si viaggia con i taxi
collettivi. Qui per lo più sono furgoncini Ford a otto posti, che si fermano al
cenno della mano ovunque e ti portano praticamente ovunque, a scanso di chiusure
ovviamente. I services, come vengono chiamati questi taxi collettivi,
sono il mezzo di trasporto più diffuso tra i palestinesi, anche se non sono
propriamente mezzi pubblici. Di autobus pubblici ce ne sono davvero pochi. A
Gerusalemme ad esempio, nella parte palestinese della città, quella a est,
l’amministrazione comunale israeliana ha ritenuto superfluo far circolare i
propri autobus come nella parte ovest, quella abitata dagli israeliani.
E la distinzione tra parte israeliana e palestinese è
evidente anche nelle differenti targhe delle auto. Le auto dei cittadini
israeliani hanno la targa gialla, quelle dei palestinesi che abitano nelle aree
A e B una targa verde. Ovviamente i coloni che vivono su aree la cui
amministrazione civile dovrebbe spettare all’Autorità palestinese hanno la
targa... gialla.
Vedi Ong
Organizzazioni
non governative. In Italia il termine è abbastanza sconosciuto tra la gente
comune, mentre in Palestina tutti sanno che cosa sia una Ong. Il fatto è che
durante il periodo che ha preceduto l’arrivo dell’Autorità palestinese, le
Ong erano il nerbo della società civile palestinese. Fornivano servizi di ogni
genere rappresentando un esempio di democrazia civile reale. Poi è arrivata
l’Autorità e le Ong hanno voluto e dovuto farsi indietro. Non sono scomparse
però, hanno continuato e continuano tuttora a fornire quei
servizi che comunque la nuova Autorità non è in grado, non vuole o non può fornire. Ad esempio la Palestinian Red Crescent Society (Prcs), che era il
partner con il quale ho portato avanti il progetto di al-Fawwar, gestisce due
ospedali, centri di riabilitazione, asili, un servizio di ambulanze e svariati
altri servizi afferenti alla sanità.. E la gamma di servizi di cui le Ong
palestinesi sono responsabili è vastissima: servizi sanitari, educativi,
sociali, monitoraggio dei diritti umani, interventi nell’agricoltura e nella
gestione delle risorse, servizi alle piccole e medie imprese; le Ong palestinesi
praticamente hanno fatto e continuano a fare di tutto. L’Autorità nel 1999 ha
istituito un ministero per le Ong, che già nella definizione risultava
abbastanza contraddittorio. Da subito nel mondo delle Ong si è levata la
protesta contro questa pretesa di controllo.
Ma veniamo alle Ong internazionali e in particolar modo
a quelle italiane. Per lo più le Organizzazioni non governative italiane si
occupano di progetti di cooperazione internazionale. Non c’è una
specializzazione così caratterizzante come quella delle Ong palestinesi,
anche se non tutte fanno progetti dello stesso tipo. Purtroppo la loro attività
è orientata dai finanziamenti che riescono ad ottenere e dunque dalle politiche
che li regolano, piuttosto che da un mandato reale della società civile di cui
dovrebbero essere l’emanazione. In effetti le Ong italiane hanno sempre fatto
poca attività nel paese di provenienza, anche se a onor del vero negli ultimi
anni le cose sono un po’ cambiate. Di recente esse hanno assunto un ruolo più
attivo sul territorio soprattutto con interventi di educazione allo sviluppo,
anche se, quanto a impegno nella società civile, l’esperienza associativa in
Italia è ancora di gran lunga più forte.
E’
inutile provare a sintetizzare ciò che
significa Oslo. Quando si dice Oslo solitamente si intendono i trattati che là
sono stati firmati e che secondo l’uso corrente dei termini hanno dato avvio
al processo di pace. Oslo I, Oslo II, sono tutti modi di dire per indicare i
trattati di pace con i quali Israele e Olp hanno iniziato a dialogare. Siccome
mi sono impegnato a non dare ragioni del perché le cose siano così come sono, ma solo spiegazioni dei termini, mi fermo
qui.
Il
Passaggio di sicurezza, o Safety Passage, dovrebbe essere quella strada che
collega la Cisgiordania a Gaza, passando per Israele, e viceversa. Secondo gli
accordi di Sharm el-Sheik del 1999, le strade dovrebbero essere due, una a nord
e una a sud, ma in realtà ce n’è una sola. Per spiegare che cosa sia il
passaggio di sicurezza, provo a raccontare una storia che ho vissuto di persona
prima di settembre 2000, ossia in un periodo ancora “calmo”.
A maggio scorso decido di andare a Gaza con Maesa, la
mia collega palestinese di allora, per incontrare il responsabile di
un’organizzazione che avrebbe potuto collaborare con la mia nel progetto di
al-Fawwar. L’apertura del passaggio di sicurezza ci aveva convinti che fosse
possibile cominciare a scambiare esperienze di lavoro tra Cisgiordania e Gaza.
Maesa ed io decidiamo di sperimentare in prima persona questo passaggio di
sicurezza. In quei giorni alla mia collega era stato riconosciuto il diritto
alla carta magnetica. Secondo gli accordi di Sharm el-Sheik del 1999, tutti i
palestinesi senza carichi penali avrebbero dovuto venire in possesso di questo
lasciapassare permanente per transitare liberamente dalla Cisgiordania a Gaza e
viceversa. Con questa carta dunque niente più permessi speciali. Quel giorno
Maesa mi aveva detto che si sentiva fortunata. Le era costato un po’
ottenerla, ma da un giorno all’altro poteva decidere di andare a Gaza senza
dover più richiedere il permesso speciale con una settimana di anticipo. Mentre
ci avviamo a Tarqumia le chiedo che significhi che le è costato un po’
ottenere la carta e lei mi racconta che anche per quel documento è necessaria
una lunga trafila. Innanzitutto bisogna far richiesta all’ufficio di
competenza dell’Autorità nazionale palestinese, che quindi passa la pratica
al servizio di sicurezza israeliano, che dopo aver controllato l’affidabilità
della persona, accorda all’Autorità palestinese il permesso di vendere la
carta. Anzi la carta, mi dice Maesa, viene venduta dalle autorità israeliane a
quelle palestinesi ad un costo di 20 sheqel, ossia più o meno
l’equivalente di 10.000 lire. L’ufficio palestinese, una volta ottenuto il
benestare israeliano, rivende la carta a 40 sheqel, ossia all’incirca
20.000 lire. Da che cosa sia giustificato il costo della carta, Maesa non ha
saputo dirmelo. Il tutto le aveva richiesto quasi dieci giorni, senza comunque
essere certa di ottenere automaticamente la carta. Alcuni suoi amici non
l’hanno mai ottenuta, pur non avendo avuto mai alcun problema con la
giustizia, palestinese o israeliana.
Alla fine della storia arriviamo al posto di blocco di
Tarqumia. La strada è presidiata dai militari che stazionano nelle solite
cabine, molto simili a quelle dei confini tra uno Stato e l’altro. E in
effetti questo è il confine, il confine tra Israele e l’area di Tarqumia,
zona B dei territori palestinesi. A lato della strada, proprio prima del posto
di blocco c’è un grosso segnale che indica una deviazione per il Safety
passage. Il cartello è scritto in tre lingue: inglese, arabo ed ebraico.
Imbocchiamo la deviazione, ma dopo dieci metri ci
troviamo di fronte ad una cancellata di metallo. Non si può procedere oltre con l’auto. Al cancello
una lunga fila di persone. Aspettano che un soldato israeliano li lasci entrare,
uno ad uno, dentro ad una specie di hangar prefabbricato di metallo. Parcheggio
l’auto e scendo insieme a Maesa per vedere che cosa sia necessario fare. Il
soldato le dice che si deve mettere in coda, aspettare il suo turno e poi
entrare. Basta, non le spiega altro. Chiedo se posso entrare con lei, o se possa
farmi passare con la mia auto. “L’auto – fa quello – se ha la targa
gialla, ossia se è israeliana, deve passare per la strada normale e tu con
lei”. E Maesa? “Lei deve fare la coda e aspettare”.
Ci arrendiamo alla procedura imposta dalle poche
spiegazioni del soldato e aspettiamo. Dopo circa mezz’ora finalmente viene il
turno di Maesa che entra e si avvia sotto l’hangar. Il soldato dice che io me
ne devo andare. Gli spiego che andrò ad aspettare la mia collega dall’altra parte, all’uscita che dà sulla
strada per Gaza. Il soldato mi dice che me lo posso scordare: Maesa da l puòò uscire sul Safety Passage solo su un mezzo
palestinese autorizzato che la porterà direttamente a Eretz Check Point, ossia
all’unico punto di accesso alla Striscia di Gaza per i palestinesi. “Ma non
avrebbe potuto dirmelo prima?” E quello zitto. Incomincio un po’ a
spazientirmi e gli chiedo di parlare con un suo superiore. Dopo un po’ di
discussioni finalmente arriva un soldato di grado superiore, o per lo meno così
io immagino. Parliamo per una decina di minuti, gli
faccio vedere il passaporto, gli dico che Maesa è una mia collega, che lavora
con me, come prova la lettera che provvidenzialmente le avevo fatto prima di
partire, e che deve assolutamente venire insieme a me a Gaza. Pretendo portarla
in macchina con me perché, in quanto mia dipendente, è sotto la mia
responsabilità personale e poi quello è un viaggio di lavoro. Ovviamente
bluffo un po’, ma a forza di discutere il soldato si convince e dice che posso
aspettarla dall’altra uscita.
Prendo l’auto e passo il posto di blocco normale,
dove passano anche le auto palestinesi i cui passeggeri hanno il permesso
speciale e non la carta magnetica. Dall’altra parte parcheggio accanto al
cancello di metallo sul retro dell’hangar e mi metto ad aspettare. Passano
dieci minuti e Maesa non esce, passa una mezz’ora e ancora niente. Nel mentre
dunque sbircio dentro alla recinzione. I palestinesi che sono entrati
dall’altra cancellata stanno tutti incolonnati dietro ad una finestrella dove
devono far passare la loro carta magnetica. Un soldato israeliano la prende e
poi dopo un po’ gliela restituisce. Altri soldati raccolgono tutti i bagagli
della gente in coda e li ispezionano con la macchina ai raggi X; alcuni vengono
aperti. Sullo spiazzo di lato all’hangar sono parcheggiati alcuni taxi
collettivi con la targa verde, ossia quella palestinese. A mano a mano che la
gente finisce il controllo delle carte magnetiche, va a riprendere i bagagli e
quindi sale sui taxi collettivi che aspettano. Quando due o tre di questi
furgoncini sono pieni, un soldato ordina di aprire il cancello e i furgoncini si
avviano sulla strada che porta a Gaza. Nello spiazzo ci sono anche due jeep
militari che, ho scoperto dopo, servono a scortare fino a Gaza i pullman più
grossi.
Finalmente, dopo quasi tre quarti d’ora, vedo Maesa
avviarsi al cancello. Il soldato con il quale avevo parlato prima fa un cenno a
quello del cancello che la lascia uscire. In macchina Maesa sbuffa e mi dice: è
stato peggio che richiedere il permesso speciale. Ad ogni modo la trafila è
finita e dunque ci avviamo tra le colline di Tarqumia verso Gaza. Quella è la
zona più verde e rigogliosa del sud del paese. Davvero un bel paesaggio
naturale. La strada è una normale strada, c’è sempre stata e sempre è stata
utilizzata dai palestinesi in possesso del permesso speciale.
Comunque ora siamo in Israele. Un’ora di guida e
arriviamo a Eretz Check Point. Anche qui, poco prima dell’entrata al posto di
blocco più rigido di tutti i Territori, c’è una grossa insegna che indica il
Safety passage. Si deve parcheggiare fuori Gaza e passare a piedi, ma almeno
questa volta la trafila è molto più semplice: ad una casetta nel mezzo dello
spiazzo gigante che precede la terra di nessuno, Maesa consegna la sua carta, il
soldato la fa passare dentro ad una macchinetta, le consegna un biglietto e ci
lascia andare insieme. Più avanti passiamo la sbarra dove Maesa deve consegnare
il suo biglietto da palestinese privilegiata e io il mio da vip. Tutti gli
stranieri che entrano a Gaza sono vip e non devono passare sotto alla tettoia
metallica di due chilometri da dove passano invece i palestinesi. Vista dallo
spiazzo deserto che attraversiamo a piedi, quella specie di galleria di metallo,
recintata con fitte grate e filo spinato, sembra un recinto per le bestie.
Passata la sbarra e quel chilometro di terra di nessuno sotto il sole dell’una
ormai, arriviamo dalla parte palestinese. L c’è
il posto di controllo militare palestinese. Sembra messo l più che altro per emulazione. Il soldato palestinese
scrive a penna il mio nome su un librone sgualcito e mi dice “Welcome in
Palestine”!
Finalmente saliamo sul taxi che ci porta a Gaza City,
nel mezzo della striscia di terra più popolata al mondo.
Verso le tre, finiti gli incontri di lavoro, decidiamo
di rientrare ad Hebron. Il taxi ci riporta al posto di controllo militare
palestinese, poi di nuovo il chilometro di terra di nessuno da fare a piedi, la
sbarra e….. Il soldato israeliano controlla il mio passaporto, ma non accetta
la tessera magnetica di Maesa. “Perché?”, chiede Maesa. “Troppo tardi”.
“Troppo tardi per cosa?”. “ Sono le quattro meno un quarto e per passare
il Safety Passage bisogna uscire da Gaza entro le tre. Tornate domani”.
“Come tornate domani? Dobbiamo rientrare ora!”. Il soldato israeliano dice
che io posso pure uscire, ma Maesa no. “E come fa?”. “Dormirà a Gaza e
domani potrà uscire dalle sette e trenta in poi”. “ Ma è una follia, come
è possibile che non possa uscire!”. “ No, non puòò: ormai è partito l’ultimo furgoncino che porta i palestinesi che hanno
la carta magnetica a Tarqumia”. Cerco di convincerlo dicendogli che ho
l’auto, che all’andata ci hanno permesso di viaggiare insieme e dunque non
vedo perché ora non possano fare altrettanto. Il soldato sembra quasi
convincersi, ma arriva un suo superiore, probabilmente incuriosito dalla
discussione animata di un vip che viaggia assieme ad una donna velata. Ci chiede
subito se siamo marito e moglie. Maesa risponde di no, che semplicemente
lavoriamo assieme e che non sapevamo di questa regola dell’orario di uscita.
Il soldato, che giocherella con un rosario musulmano e ha davvero un
atteggiamento da sbruffone, dice che è impossibile che Maesa esca con me a meno
che non sia mia moglie. Io e Maesa insistiamo e altri soldati si fanno attorno.
Dall’altra parte delle grate intanto centinaia di palestinesi stanno
rientrando nella Striscia di Gaza, camminano sotto ai due chilometri di tettoia
recintata, ammassati come bestiame.
Finalmente il soldato sbruffone lascia il campo al
primo soldato che ci aveva fermati. Forse ha finito di divertirsi. Quest’altro
sembra più disponibile a trovare un compromesso anche se la soluzione che ci
prospetta mi pare davvero un’assurdità. Chiama un taxi privato palestinese,
di quelli autorizzati a viaggiare in Israele e dice che Maesa dovrà viaggiare
su quello e io potrò seguirla con la mia auto. Ancora una volta insistiamo: ci pare un’idea
troppo balzana! Quello insiste con la sua soluzione e intanto arriva il taxista
chiamato per “traghettare” Maesa sul Safety Passage. Il soldato sembra
irremovibile. Più si va avanti a discutere e più sembra che le cose possano
mettersi male: magari decidono di non lasciar passare Maesa per nulla. Allora io
chiedo al soldato chi pagherà il taxista. “Tu”. “Come io? Il taxi
l’avete chiamato voi, fosse per me io porterei la mia collega con l’auto”.
“Allora lei”. “Ma lei non può perché questo è un viaggio di lavoro e
quindi deve pagare la mia organizzazione, che infatti ha messo a disposizione
l’auto che abbiamo parcheggiata qui fuori. Non c’è soluzione!”. E il
taxista ci guarda perplesso. A quel punto penso di bluffare un’altra volta.
“Pagheròò io, ma solo se il taxista potrà farmi una fattura regolare”. Sono sicuro
che non è possibile. E il taxista infatti scuote la testa. Allora propongo di
pagare con la carta di credito, perché solo così posso provare che le spese di viaggio sono state pagate
con i soldi dell’organizzazione. Per il soldato ovviamente va bene e io metto
la mia Visa sul cofano del taxi. Il taxista mi guarda perplesso e non capisce.
Il soldato gli dice di prenderla, che lo sto pagando. Ma quello dice che non può essere pagato con la carta di credito, mica ha la
macchinetta!! Il soldato a quel punto forse si è esasperato a sufficienza. Non
ha più voglia di discutere e decide di averci tormentati quanto basta. Conclude
così :
“Provo a fare una telefonata al passaggio di Tarqumia per avvertire che la tua
collega viaggia con te. Se concordano lei potrà passare, altrimenti ritornerà
qui domattina”. Prende su la radio e dopo aver discusso in ebraico con il
collega dice che possiamo andare.
Finalmente siamo fuori! In macchina, Maesa dopo aver
spergiurato di non usare mai più quella maledetta carta magnetica, incomincia a
scherzare: forse quando parlano di carta magnetica gli israeliani intendono la
carta di credito.
Sulla strada di Tarqumia, decidiamo di fermarci a
prendere un caffè in un autogrill. Sono le quattro e mezza e manca meno di
un’ora per arrivare a Tarqumia. Riusciremo ad arrivare ancora col chiaro,
anche se ci fermiamo una mezz’ora. Dopo il caffè ripartiamo. Verso le cinque
e mezzo siamo a Tarqumia. Arriviamo al normale posto di blocco; da questa parte
non ci sono deviazioni per coloro che provengono dal Safety Passage, ossia per
coloro che hanno la carta magnetica. Rallento per vedere se i soldati ci
fermano, nessuno ci blocca e dunque passiamo nei territori . Dopo nemmeno un
chilometro mi torna in mente che il soldato di Gaza aveva telefonato a quelli di
Tarqumia e quindi magari avremmo dovuto comunicare che stavamo passando. Maesa
concorda con me: se per caso dovesse esserci qualche irregolarità le potrebbero
creare problemi in futuro. Torniamo al posto di blocco. Andiamo insieme dai
soldati e Maesa racconta tutta la storia, dicendo loro che dovrebbero essere
informati del suo passaggio. I soldati sanno del nostro passaggio, ma guardano
l’orologio e dicono: “e’ troppo tardi”. Troppo tardi per cosa? “Troppo
tardi per passare di qui. Il Safety Passage chiude alle cinque”. Io non so se
ridere o mettermi ad urlare. Maesa, che è più abituata di me a queste
vessazioni, spiega di nuovo tutta la storia. Quelli dicono di capire, ma dicono
anche c’è una procedura ben precisa: dopo le cinque di pomeriggio nessun
palestinese con la carta magnetica ha l’autorizzazione a passare da l ; loro chiudono i computer e non possono più
registrare i passaggi. Maesa deve tornare a Gaza! La situazione sta diventando
paradossale. Faccio notare al soldato che se Maesa torna a Gaza là non la
faranno più entrare perché sarebbe ancora più tardi: almeno un’altra ora di
macchina. E poi ormai eravamo passati, se hanno fatto un’eccezione a Gaza non
vedo perché non possano farla anche a Tarqumia. Altra telefonata, altre
confabulazioni in ebraico e poi con aria di compassione ci dicono che per questa
volta possiamo andare, ma la prossima volta dobbiamo rispettare gli orari di
entrata e di uscita. Arriviamo a Hebron che sta imbrunendo. Maesa, prima di
scendere dalla macchina per avviarsi a casa, dice che non mi accompagnerà più
a Gaza.
Di certo se la mia collega non avesse viaggiato con un
vip le cose non sarebbero andate alla stessa maniera.
Vedi Autorità nazionale palestinese
Settlers, coloni,
insediamenti
Secondo dati palestinesi dello scorso anno nei 194
insediamenti abusivi israeliani in territorio palestinese abitano più di
200.000 settlers, o coloni, di questi 6.500 vivono a Gaza. Le fonti ufficiali
israeliane ne contano poco meno di 200.000 distribuiti in 152 colonie. A questi
dati si devono aggiungere quelli che riguardano gli insediamenti di Gerusalemme
est che contano più di 180.000 abitanti. Questi insediamenti corrispondono a
veri e propri quartieri, come il famigerato Gilo, o a singole abitazioni
espropriate ai proprietari palestinesi. Sharon possiede una di queste case
espropriate proprio nel mezzo del quartiere palestinese della città vecchia.
A voler essere generici si può dire che i coloni abbiano sostanzialmente
due tipi di provenienza: o sono dei fanatici sionisti o semplicemente dei
poveracci che hanno trovato nell’insediamento una sistemazione abitativa
conveniente dal punto di vista economico. Molto spesso questa scelta, pur
deprecabile, non è di comodo: in moltissimi casi è lo Stato a decidere che i
nuovi cittadini di Israele, soprattutto i meno abbienti, vadano ad abitare negli
insediamenti. I nuovi immigrati sostanzialmente vengono sbattuti là dove è
necessario rinforzare la presenza ebrea in territorio palestinese. La promessa
di case a buon prezzo, di servizi gratuiti e di agevolazioni fiscali rappresenta
per i nuovi immigrati, soprattutto quelli poveri e provenienti dai paesi
dell’Est, l’unica alternativa plausibile e sostenibile per poter vivere in
un paese come Israele dove la vita è carissima e una casa in media può costare l’equivalente di 400 milioni di lire. Lo sforzo
istituzionalizzato di conquista della terra e di presenza sul territorio si
deduce anche dai dati che riguardano gli investimenti statali. Il 13% delle
costruzioni degli insediamenti sono finanziate con fondi statali. A Tel Aviv o a
Gerusalemme lo Stato di Israele investe per le costruzioni un terzo di quanto
non spenda negli insediamenti. E questo sforzo non è mai diminuito nel tempo,
anzi è aumentato. Nel periodo del cosiddetto processo di pace la popolazione
delle colonie illegali è duplicata. Oggi il tasso di crescita della popolazione
che abita in Israele è del 2,4%, mentre nelle colonie la crescita arriva al
7,5%. Questa politica di colonizzazione è appartenuta da sempre alla destra
come alla sinistra, con la cosiddetta scusa degli stati di fatto, facts on
the grounds come si dice con le parole dei trattati di pace. Da quando Barak
è stato eletto a maggio 1999 fino alla fine della sua carriera come Primo
ministro a febbraio 2001, il numero dei coloni è aumentato del 7,5%, ossia
almeno 13.600 coloni in più.
Comunque, che si tratti di fanatici sionisti o di
“disgraziati” catapultati in Israele da qualche paese povero, rimane il
fatto che i coloni vivono su un territorio internazionalmente riconosciuto come
illegalmente occupato. Al proposito ci sono almeno quattro risoluzioni
dell’Onu che dovrebbero imporre a Israele lo smantellamento delle colonie: la
242 (del 1967), la 446 (del 1979), la 452 (sempre del 1979), la 465 (del 1980).
Senza voler contare quanto affermano gli articoli 47 e 49 della IV Convenzione
di Ginevra. La conseguenza più ovvia, per lo Stato di Israele, invece di
evacuare le colonie, è stata quella di garantire a tutti i settlers protezione
e status speciale. Ogni insediamento sembra un villaggio tirolese fortificato:
presidi militari, filo spinato, cancellate elettriche e recinzioni che
circondano villette dai tetti rossi spioventi, ovviamente attorniate da
verdissimi prati all’inglese. Le colonie possono essere nuclei piccolissimi,
alle volte abitati solo da una o due famiglie, oppure vere e proprie città,
come Maale Adumin, alla periferia di Gerusalemme, che conta più di 25.000
abitanti. Anche gli insediamenti che potrebbero parere più integrati nel
contesto circostante sono comunque delle entità aliene rispetto all’intorno.
Alcune colonie stanno appena a poche centinaia di metri da villaggi o città
palestinesi, ma si tratta di mondi differenti. Un colono ad esempio ha a
disposizione 350 litri di acqua al giorno per i servizi di cui usufruisce e per
l’uso domestico, un palestinese per gli stessi usi e servizi ne ha solo 70.
Nella zona di Hebron, dove si trova l’insediamento di Kyriat Arba, i
palestinesi raggiungono a malapena i 46 litri di acqua al giorno;
l’Organizzazione mondiale della sanità stabilisce che la quantità minima di
acqua per servizi e uso domestico dovrebbe ammontare a 100 litri pro capite.
Ancora un esempio: i coloni che abitano negli insediamenti, anche quelli più
vicini alle aree popolate palestinesi, hanno a disposizione un’estesa rete
stradale grazie alla quale i palestinesi non devono nemmeno vederli. Si tratta
delle cosiddette by-pass road, che secondo gli accordi di Oslo
sono e saranno sotto il completo controllo israeliano anche là dove
attraversano le aree A, ossia quelle sotto completo controllo palestinese: un
ulteriore fattore di frazionamento del territorio palestinese. Comunque, mentre
ogni israeliano è libero di entrare in territorio palestinese, a nessun
palestinese è concesso di entrare negli insediamenti, a meno che ovviamente non
sia qualche “caporale” israeliano ad accompagnarlo, giusto per risparmiare
sulla manodopera israeliana. Nei giorni che hanno preceduto il settembre 2000
ricordo che alle volte si scherzava con gli amici palestinesi, mentre si passava
in auto vicino agli insediamenti: ciascuno sceglieva la casa dove avrebbe voluto
abitare una volta che si fosse fatta la pace e gli israeliani se ne fossero
andati dalle colonie. Dopo settembre i miei amici palestinesi hanno smesso di
fare questa lotteria delle case.
Per completezza d’informazione è bene aggiungere che
ogni settler ha diritto a girare armato, ovunque, Territori palestinesi o
Israele, supermercato o cinema; e sono pochi coloro che non si avvalgono di
questo “diritto” e anzi molti fanno un uso indiscriminato delle armi.
Soprattutto in questa seconda Intifada i coloni hanno attaccato, ucciso, ferito,
brutalizzato e alle volte anche torturato numerosi civili palestinesi disarmati.
L’esercito israeliano non è quasi mai intervenuto e anzi spesso ha protetto e
sostenuto gli attacchi dei coloni ai danni dei palestinesi. Storicamente è
riconosciuto come un fatto acquisito che le corti israeliane non condannano i
coloni, quand’anche questi vengano riconosciuti colpevoli di delitti
perseguibili penalmente. A gennaio 2001 un colono riconosciuto colpevole da un
giudice israeliano della morte di un bambino palestinese, è stato condannato a
sei mesi di lavori socialmente utili.
Pur essendo vero che all’interno della società
israeliana questo status speciale garantito ai coloni ha generato e genera delle
fratture, tuttavia non esiste un vero e proprio movimento civile di opposizione
alla politica degli insediamenti. E così per una
delle mille storture della concezione democratica di Israele, una minoranza
piccolissima di cittadini fa scontare alla maggioranza costi sociali ed
economici altissimi.
Vedi Passaggio di sicurezza
Shebab è
la parola araba per dire ragazzo, giovane. Gli shebab sono stati spesso al
centro delle cronache per il loro coinvolgimento nei fatti dell’Intifada.
I
tanzim, che i giornali di mezzo mondo hanno indicato come la milizia
armata palestinese più attiva durante l’Intifada al-Aqsa, sono un gruppo di
esponenti del movimento di protesta e insurrezione contro l’occupazione
israeliana, composto per lo più da membri del partito politico di al-Fatah, il
partito di maggioranza, nonché partito di Arafat. La milizia dei tanzim non è
una forza di sicurezza riconosciuta dalla Pna, ma un movimento di base,
riconosciuto come tale.
Con
queste formule si intendono le aree A, B e C di cui si è detto sopra (vedi Aree
A, B, C). Sostanzialmente i Territori palestinesi corrispondono a tutta la
Cisgiordania e a tutta la Striscia di Gaza, secondo i confini del 1948, ossia
secondo quanto veniva definito dalla Linea Verde.
Tiph
A Hebron il 25 febbraio 1994, nel giorno del Purim
ebraico, Baruch Goldstein, un colono dell’insediamento di Kyriat Arba, entra
nella Moschea di Ibrahim/Tomba dei Patriarchi, e spara sui fedeli musulmani in
preghiera. Muoiono 29 palestinesi. Goldstein viene ucciso dalla folla. L’Olp
dichiara di volersi ritirare da tutti i tavoli di discussione con Israele, a
meno che non venga imposta una forza di protezione per i palestinesi della città.
Questa è l’origine della Tiph, la Temporary
International Presence in Hebron, ossia la presenza temporanea internazionale in
Hebron della quale fanno parte anche i carabinieri italiani.
Non è necessario seguire passo passo la storia della
Tiph. Dal 1994 le vicende di questa missione internazionale sono state alterne.
Il 21 Gennaio 1997 è stato firmato l’ultimo accordo tra Italia, Danimarca,
Norvegia, Svezia, Svizzera e Turchia, in forza del quale Israele e Autorità
palestinese approvavano la presenza della Tiph a Hebron per tre mesi. Da allora
la Tiph ha rinnovato di tre mesi in tre mesi la sua presenza nella città più
sofferta di tutta la Palestina. I 400 fanatici coloni ebrei dell’insediamento
che si trova nel centro della città palestinese rappresentano una costante
provocazione e impongono una continua tensione che, secondo le parole di
presentazione del sito internet della Tiph, la presenza internazionale dovrebbe
smorzare, promuovendo al contempo il senso di sicurezza per tutti i suoi
abitanti.
Gli oltre 85 membri della Tiph sono disarmati, ovvero
possono avere delle armi leggere solo per la loro difesa personale. Possiedono
invece macchine fotografiche, block notes e telecamere che utilizzano in ogni
situazione di conflitto. Quando ad Hebron accade qualche disordine arriva
l’auto della squadra della Tiph, in quattro o cinque scendono, prendono
appunti, scattano foto e filmano, tutto a distanza di sicurezza. Poi tornano al
loro quartier generale e redigono un rapporto che viene sottoposto alle autorità
israeliane e a quelle palestinesi. Tutta qui la loro attività.
Ma ci sono alcune cose che non tornano. Innanzitutto il
fatto di non essere armati è una condizione a dir poco strana per una forza che
pretende di intervenire in una situazione conflittuale come quella di Hebron. A
questo proposito si potrebbe argomentare che la Tiph per mandato non deve
intervenire, ma solo presenziare. Ma ad ogni modo la presenza della Tiph non è
garantita da un soggetto esterno al conflitto. La sua permanenza a Hebron
dipende dall’accordo tra israeliani e palestinesi. E non bisogna farsi
ingannare dal fatto che dal 1994 fino ad oggi la Tiph sia rimasto l dov’è..
Questa lunga presenza potrebbe indurre a pensare che dal 1994 ad oggi
palestinesi e israeliani siano andati d’amore e d’accordo. Così non è stato. Semplicemente la Tiph non dà fastidio
agli israeliani e se l’Autorità palestinese ci rinunciasse equivarrebbe ad
ammettere che a Hebron è tutto normale.
Chi sa a che cosa davvero valga la presenza della Tiph
è la gente che vive ad Hebron. Non ho mai incontrato un palestinese di Hebron
che ne parlasse bene. “A che cosa servono ancora foto, filmati e rapporti?”,
mi ha detto una volta Maesa, la mia amica di Hebron . Tutti sanno e vedono da più
di cinquant’anni, eppure si è pensato bene che ci fosse bisogno di mandare
altre 85 persone a documentare a distanza di sicurezza. “e’
una duplice noia per noi, continua Maesa, che subiamo l’occupazione
dell’esercito israeliano e dei coloni ebrei e che alle volte dobbiamo pure
sottostare agli interrogatori della Tiph”. Una volta un ragazzino
dell’insediamento ebraico di Hebron ha tirato i capelli a sua sorella. Wajda
si è girata e gli ha mollato uno schiaffone. Subito è arrivato l’esercito
che l’ha fermata per interrogarla. Una volta finito con gli israeliani è
giunta la squadra della Tiph che l’ha sottoposta ad un nuovo interrogatorio,
le ha fatto compilare un questionario e dopo circa tre ore l’ha lasciata
andare. “Bel guadagno” dice Maesa. Chi ci guadagna davvero sono loro, quelli
della Tiph, che a quanto pare hanno una paga media mensile di 8.500 dollari, a
seconda del paese da dove provengono. Gli svizzeri arrivano a guadagnare anche
10.000 dollari, mentre i turchi al massimo 7.000. Lavorano a turni e hanno una
settimana di riposo al mese. Ovviamente tutte le spese di vitto e alloggio sono
pagate. A Hebron almeno un terzo della popolazione palestinese vive al di sotto
della soglia di povertà ossia con meno di 2,1 dollari al giorno.
Nella
guida di Betlemme del Touring Club Italiano uscita in occasione delle
celebrazioni di Betlemme 2000 a pagina 73 c’è una fotografia la cui
didascalia recita: La Tomba di Rachele, meta di pellegrinaggio di giovani
coppie. La foto mostra un basso edificio in pietra con una cupola intonacata
di bianco, molto simile a quelle delle vecchie case arabe. Le giovani coppie che
oggi dovessero decidere di fare l un
pellegrinaggio rimarrebbero alquanto deluse. Sulla strada che da Gerusalemme
porta a Betlemme la Tomba di Rachele è scomparsa. Da anni. Al suo posto si sono
susseguite le fortificazioni israeliane, dietro alle quali forse c’è ancora
la tomba così come
rappresentata dalla foto del Touring. Dico forse perché da quando nel 1967 gli
israeliani si sono appropriati di questo monumento, fino ad allora amministrato
dal Waqf e accessibile a tutti (come a onor del vero riconosce anche il
Touring), alla Tomba di Rachele non si può più andare. Solo i fedeli ebrei vi hanno accesso e sotto la stretta
sorveglianza dei soldati dell’Idf. Da più di un anno la fortificazione della
Tomba di Rachele è diventata così inaccessibile
che non si riesce neanche più a vedere la porta dalla quale entrano i pochi
ebrei ammessi in quel luogo. Ai quattro angoli della nuova fortificazione ci
sono quattro alte torrette di controllo, protette da vetri antiproiettile e
guarnite di soldati armati di M16. Uno di loro, nei giorni della recente
Intifada ha creduto che un bambino palestinese che tornava da scuola con il suo
zainetto in spalla potesse costituire una minaccia per la sua vita e gli ha
sparato alla testa.
Proprio davanti alla cosiddetta Tomba, che si trova nel
bel mezzo di un’area A, c’è un benzinaio palestinese, ma dietro ancora un
campo militare israeliano. Durante l’Intifada al-Aqsa i soldati israeliani
hanno chiuso con un muro di cemento la strada che da Gerusalemme porta a
Betlemme in corrispondenza della Tomba. Le stradine laterali, che rasentavano il
campo militare israeliano, sono state sigillate e tutto intorno alla base
dell’Idf è stato eretto un alto muro di cemento. Agli ebrei è stato vietato
di recarsi in pellegrinaggio in questo luogo santo e spesso al check point
israeliano alle porte di Betlemme si incontrano gruppi di ortodossi ebrei che
cantano e ballano per protestare contro questo divieto. Da settembre 2000 a
gennaio 2001, di palestinesi che protestavano per la presenza dei soldati
israeliani proprio nel mezzo di un’area da loro amministrata ne sono morti a
decine,
United
Nation Relief and Work Agency for the Middle East. Quando nel 1950 le Nazioni
Unite crearono questa Agenzia deputata alla cura dei profughi palestinesi,
probabilmente non si pensava che la sua vita sarebbe durata così
a lungo. l’Unrwa è tuttora l’istituzione
responsabile per tutto ciò
che riguarda i rifugiati della guerra del 1948 e i loro discendenti. Coloro che
scapparono nel 1967 non vengono considerati profughi dall’Unrwa, a meno che
non fossero già registrati come tali al tempo della seconda occupazione
israeliana. L’Unrwa dunque stabilisce e registra chi ha il diritto di
“godere” dello status di profugo e al contempo si occupa dei servizi
destinati a queste persone. Per la gestione dei servizi impiega direttamente gli
stessi profughi, che compongono circa la maggioranza del suo organico.
L’Unrwa
principalmente interviene nella gestione dei campi profughi, anche se si possono
trovare scuole e cliniche Unrwa fuori dai campi. Nei campi l’Unrwa è
responsabile per tutti i servizi di base: scuole, cliniche, raccolta dei
rifiuti, gestione delle infrastrutture e dei Centri di aggregazione (vedi Centro
donne, Centro giovani, Centro per la riabilitazione) ecc. I profughi beneficiano
di tutti i servizi gratuitamente, e con il tempo questo ha determinato grosse
difficoltà per la loro gestione economica. Con gli anni in effetti i servizi
sono diminuiti. Abu Hiad ricorda ancora quando a tutte le famiglie di profughi
l’Unrwa distribuiva generi alimentari di prima necessità. Ora questo non
accade più.. Ci sono gli Hardship Cases, continua Abu Hiad, ossia quelle
famiglie che l’Unrwa riconosce come particolarmente povere e alle quali ancora
distribuisce, saltuariamente, cibo e talora, ma molto raramente, soldi. Ma Abu
Hiad ha le sue idee a proposito del “buco” finanziario dell’Unrwa. Non si
tratta dell’elevato numero di profughi o dei servizi gratuiti, ma degli Stati
membri dell’Onu che non pagano le quote di finanziamento stabilite dalle
Nazioni Unite stesse. Gli Stati Uniti i principali morosi. E questo forse non
accade a caso. Abu Hiad mi assicura che gli Stati Uniti, così come
gli altri membri dell’Onu che non pagano le quote dovute all’Unrwa, hanno
delle ragioni politiche. E’ vero l’Unrwa non prende posizioni politiche, ma
chi non ne paga il sostegno come dovuto lo fa come misura di pressione
indiretta: il bilancio in deficit dell’Unrwa equivale a meno servizi, il che
induce i profughi a cercare soluzioni di vita autonome e alternative e dunque
lasciare i campi. Il risultato desiderato dovrebbe essere: il problema dei
profughi palestinesi piano piano scompare, nessuno reclama più il diritto al
ritorno. Quando ad al-Fawwar ho discusso di questa questione ho finito per
trovarmi sempre in una ridda di problemi da cui è difficile uscire. Da un lato
è vero che le pressioni per sottrarre importanza all’Unrwa hanno una valenza
politica intesa a ridurre le pretese e soprattutto i costi di una soluzione
giusta del problema dei profughi palestinesi. Dall’altro pero’ è vero che
l’assistenza gratuita dell’Unrwa in questi cinquant’anni ha indotto nei
profughi una mentalità assistenzialistica secondo la quale tutto è loro dovuto
e gratis. E questo è anche un fattore di forte spaccatura tra i palestinesi
delle città e dei villaggi e quelli dei campi. I primi rimproverano spesso ai
secondi di essere quasi dei mantenuti. I profughi indicano nella completa
spoliazione delle loro proprietà il tratto distintivo che chi non è profugo
non puòò comprendere. Ma non sarebbe possibile rivendicare una soluzione giusta del
problema dei profughi in altre maniere che non la dipendenza dall’Unrwa? Che
il problema dei rifugiati trovi una soluzione o meno, i palestinesi che ora
vivono nei campi prima o poi ne usciranno, si inseriranno in un contesto che
sicuramente sarà molto meno dipendente dall’assistenza delle Nazioni Unite.
Più volte i miei amici di al-Fawwar mi hanno risposto: finché non ci sarà una
soluzione giusta noi resteremo nel campo. E in effetti a ben guardare le
famiglie di al-Fawwar investono moltissime risorse ed energie per le loro case
dentro il campo. Quasi che il campo non fosse una soluzione transitoria in
attesa del ritorno. Sembra che in qualche modo ci sia una perplessità
“sottintesa” tra i profughi sulla reale possibilità di ritornare alle case
e alle terre di origine in quello che ora è Israele. Questa considerazione mi
ha sempre lasciato perplesso. Il mio stesso lavoro spesso mi è parso
contraddittorio: perché lavorare per promuovere le condizioni di sviluppo di
una comunità profuga, quando la priorità dovrebbe essere lo scioglimento di
quella stessa comunità o per lo meno il dissolvimento della sua condizione di
esilio?
Israele dal canto suo nega la possibilità
del ritorno dei profughi palestinesi con ragioni “etniche” che nella comunità
internazionale sarebbero ritenute inaccettabili per qualsiasi altro Stato del
mondo. Il ragionamento di gran parte degli israeliani, anche di colombe
“illuminate” quali Yeoshoua e Oz, è questo: se tutti i più di tre milioni
di palestinesi profughi dovessero mai tornare ai loro luoghi di origine e dunque
divenire cittadini di Israele, ben presto l’ebraicità dello Stato andrebbe
perduta e così decadrebbe
il motivo stesso per cui Israele è stata creata. Naturalmente, una volta
accettate queste premesse, alla gran parte dei democratici israeliani non
risulta strano che nel loro Stato esista proprio una legge cosiddetta “del
ritorno” che garantisce cittadinanza e passaporto israeliano a chiunque possa
provare la propria origine ebraica.* (chi vuole conoscere esattamente il dettato
della legge puòò consultare il sito http://www.mfa.gov.il/mfa/go.asp?MFAH00kp0).
In questa maniera alla gran parte degli israeliani risulta del tutto accettabile
che un qualsiasi ebreo americano, che non sa nemmeno da che parte del mondo sia
Israele, abbia diritto a ‘tornare là dove un palestinese che da centinaia di
anni aveva case e terreni non ha diritto a tornare
Letteralmente
la parola significa donazione o dote, e il suo significato è molto più
complesso di quanto non si possa qui illustrare. A Gerusalemme il Waqf è grosso
modo l’equivalente musulmano della Custodia della Terra Santa dei Francescani
cattolici. In sostanza, quando nel testo che segue ho usato questo termine, mi
sono riferito all’istituzione religiosa musulmana di Gerusalemme delegata a
preservare i luoghi del culto islamico, la cui autorità si applica
principalmente alla Spianata delle Moschee. Il Concilio del Waqf di Gerusalemme
si costituì nel 1967, in conseguenza dell’occupazione israeliana
della città, allo scopo di sostituire il Concilio giordano che aveva sede ad
Amman. Sotto la sua autorità religiosa ricade non solo l’amministrazione dei
luoghi sacri all’Islam in Palestina, ma anche l’amministrazione della legge
religiosa musulmana, o shari’ah.