Grotte lattaie in Italia

di Enrico Gleria (Club Speleologico Proteo , Vicenza)

 

Riassunto - Vengono segnalate alcune tradizioni riguardanti l'impiego dell'acqua in certe grotte italiane a scopo galattologico. Sono stati riconosciuti alcuni motivi ricorrenti che possono permettere il riconoscimento della tradizione specifica anche dove essa è perduta.

Abstract - We wish to point out some traditions regarding the use of water in certain italian caves on a galactogogic purpose. Some recurrent features have been noticied, wich allow the discovery of tradition even where it is lost.

 

1. Premessa. Lo stillicidio di acque sature in un ambiente riparato parzialmente illuminato porta alla formazione di concrezioni stalattitiche particolari che si accrescono per incrostazione successiva di muschi e altri organismi vegetali a costituire una massa spugnosa rotondeggiante. Queste concrezioni richiamano nell'aspetto la morfologia delle mammelle infatti al posto del capezzolo lo stillicidio mantiene sulla sommità di queste un tubicino non ancora incrostato sempre ripieno d'acqua lattescente. In Toscana le chiamano "pocce lattaie", in Puglia l'acqua dall'aspetto lattescente è chiamata "latte di grotta" e in generale il fenomeno ha colpito la fantasia popolare per i suoi naturali richiami, dando il via ai miti relativi (Corrain, Rittatore, Zampini, 1967).

Come è messo in evidenza da Chevalier e Gheerbrant (1986) il latte compare in numerosi miti: l'Ercole romano corrispondente all'Eracle greco viene allattato dal seno di Era divenendo così immortale, allo stesso modo la missione sovrana del faraone è garantita dal fatto che viene nutrito con il latte di una dea condividendo la sua stessa natura divina. Anche nel mondo cristiano non mancano esempi in questo senso: San Bernardo, allattato dalla Vergine, diviene in questo modo fratello adottivo di Cristo. La Pietra filosofale è chiamata talvolta il Latte della Vergine: il latte rappresenta ancora il nutrimento d'immortalità. Anche presso i Celti il latte assume lo stesso significato e Drostan, un druido picto, per guarire i soldati feriti dalle frecce avvelenate dei Bretoni, ordina di raccogliere il latte di centoquaranta vacche bianche in una fossa scavata nel mezzo al campo di battaglia. Quelli che vi saranno immersi guariranno (Leroux, 1961).

2. Veneto. All'inizio del secolo, lo studioso vicentino Ramiro Fabiani, descrivendo alcune grotte dei Berici cita espressamente due cògoli per tradizione chiamati "delle Tette" (Fabiani, 1902). Del primo, situato nei pressi di Mossano, scrive: "Così detto per la forma mammellonare delle sue stalattiti. L'acqua dello stillicidio, che si raccoglie in una pozzetta a tal uopo scavata, è ritenuta dalle donne dei paesi vicini come efficace galatogeno. Questo cògolo non deve poi confondersi con quello dello stesso nome che si trova a Monticello di Lonigo." La prima grotta è descritta anche da Allegranzi (1992) che conferma il radicamento di questa tradizione fino a tempi relativamente recenti. Una terza grotta a Fimon, sempre sui Colli Berici, è ugualmente dedicata alle "tette" e anche qui appare significativa una grande vasca concrezionale di cui però non si hanno notizie che riferiscano specifiche tradizioni.

Presso Crocetta del Montello, si apre un'altra caverna, nota in tutto il Veneto per essere fonte d'acqua purissima "che ha la straordinaria virtù di ridare il latte alle madri sfinite da un allattamento troppo faticoso e prolungato" (Caccianiga, 1874; Serena, 1923; Saccardo, 1923; Dolce, 1928; Dall'Anese & Martorel, 1980); alcuni versi di un poemetto del XVII secolo fanno riferimento alla stessa tradizione:

 

89. Quivi poco lontan dal piè del monte,

Vi era e vi è una grotta detta del Buoro,

Nel più sassoso e dirupato foro

Risiede vago un cristallino fonte

 

90. Di limpid'onda che feconda il seno

se alle madri mancare il latte viene,

Del qual è fama che tornasser piene

Fin d'allor che regea Fetonte il freno.

 

93. E tal virtù in sè queste onde hanno

Che se alle madri meno il latte viene,

se colte sono come si conviene,

tornar fecondi i loro petti fanno

 

94. Nutrici asciutte per incanto fatte,

s'andar non ponno a quella fonte cara,

Mandano a prender di quell'acqua chiara,

che lor fa tosto ritornar il latte.

 

95. Nel duro sasso ha qui madre natura

fatte apparir a guisa di mammelle

Certe gonfiezze, e l'acqua che da quelle

Stilla, raccolta vien per tal fattura.

 

Questa grotta, chiamata Buoro del Ciano o anche Fontana del Boro, sembra sia stata associata alla ninfa Ciane e sia stata oggetto di culto fin dall'epoca romana. Sia nella mitologia greca che in quella romana le ninfe rappresentano divinità secondarie che incarnano specialmente il principio umido delle forze elementari della natura. La tradizione le raffigura come vergini fiorenti di bellezza, per lo più benevole con i mortali, che si riunivano presso le sorgenti per cantantare e danzare. Vivevano dunque nei laghi, lungo i ruscelli e nelle fonti (Naiadi), oppure venivano associate ai monti e alle grotte (Oreadi). I Romani identificarono le ninfe con le loro originarie divinità delle sorgenti ed in genere con l'elemento liquido associato alla fertilità. La storia di Ciane, la ninfa che ci interessa più da vicino, è legata al seguente mito ricordato nell'antica Grecia: Ciane è mutata in una fonte per essersi opposta al ratto di Persefone perpetrato da Ades, re degli inferi. Il culto delle ninfe era solitamente celebrato in luoghi aperti, che venivano scelti per la loro amenità e dove si immaginava esse risiedessero.

Durante il Medioevo al culto della ninfa Ciane viene sovrapposto quello verso San Mama, quest'ultimo compare infatti come toponimo nella vicina contrada sulle sponda del Piave e al santo è dedicata una chiesa, di chiaro significato esaugurale, ubicata proprio all'imbocco della strada che conduce alla Fontana del Boro. Di Mama, vissuto in Cesarea intorno alla seconda metà del III° secolo, si hanno scarse notizie attendibili l'unica cosa sicura è che il suo culto si estese dall'Anatolia verso l'Europa, alla fine dell'VIII° secolo, divenendo popolare anche in Italia, soprattutto nel Veneto e in Toscana. Della vita di Mama è particolarmente significativa la scelta eremitica quando, ubbidendo ad una voce soprannaturale, si ritira a vivere per oltre cinque anni su una caverna per predicare il Vangelo alle bestie della foresta. Suo cibo è il miele dei favi e il latte delle fiere, che si lasciano mungere ubbidendo mansuete, ed abbeverandosi ad una sorgente fatta miracolosamente sgorgare dalle rocce.

A questo proposito sarà opportuno ricordare che Hadjinicolaou-Marava (1953) avanza la tesi che Mama non sarebbe altro che la metamorfosi cristiana della divinità anatolica Ma, la gran madre degli dèi Kybele. Il giovane martire Mama, emulo di Orfeo e protettore delle bestie, avrebbe ereditato parecchi attributi della dea e del suo amante Men o Attis. Kybele era già entrata nell'Olimpo delle divinità romane fin dal 204 a.C., col nome di Magna Mater, ma il suo culto era rimasto in parte segreto per il carattere licenzioso di certi suoi riti, celebrati esclusivamente da sacerdoti asiatici. All'epoca dell'imperatore Claudio (41-54 d.C) i "Misteri di Kybele ed Attis", importati dall'Asia Minore, divennero invece una vera e propria religione: abolite le restrizioni divenne pubblica la festa primaverile della Dea che manteneva un carattere eminentemente orgiastico. Le due feste annuali di Mama, quella del 2 settembre e quella della "nuova domenica" (prima domenica dopo Pasqua o domenica in albis ) avrebbero rimpiazzato le due feste di Ma e di Men, in autunno e primavera. Uno dei primi documenti relativi a Mama compare in un'omelia di San Gregorio Naziazeno (ca. 330-390) in esso viene ricordato il tema delle cerve che si lasciano mungere motivo che rieccheggia il mito di Orfeo (Cignitti, 1967).

3. Lombardia. Anche una grotta, non ancora localizzata, posta sopra Plesio (Como), sarebbe dedicata a San Mama o Mamete, che qui è invocato, oltre che per garantire alle donne sufficiente latte per i propri bambini, in caso di siccità prolungate. La leggenda dello stesso santo è probabilmente confusa nella tradizione che ritroviamo in un'altra grotta del Comasco (Grotta sopra Versasio, 3650 Lo Co): un certo frate Agnolo che viveva qui come eremita, durante la peste del XV secolo, sarebbe stato sfamato dal latte di una cerva inviatagli da Dio (Banti, 1984).

4. Toscana. La Buca o Tomba Lattaia (574 T Si), in comune di Cetona, è una cavità che si sviluppa per un centinaio di metri. Il nome della grotta è derivato dal fatto che alle acque sgocciolanti dalle sue pareti sono sempre state attribuite virtù galattofore provocano cioè, se bevute dalle madri durante l'allattamento, l'abbondanza della secrezione del latte. Gli scavi archeologici hanno rilevato in superficie o a poca profondità numerose tracce dell'epoca romana (I° secolo) consistenti principalmente in una stipe votiva alla divinità delle acque lattaie, con numerosi ex voti in terracotta - vasetti minuscoli, pupi fasciati frammentari, figurazioni di mammelle ecc. - e monete di bronzo, che fanno risalire almeno a quell'epoca la credenza di cui abbiamo accennato (Santi, 1798; Calzoni, 1940; 1941, Corrain e al., 1967). La Buca delle Pocce Lattaie (524 T Si) che si apre nella vallata del torrente Gupo, in comune di Pienza, è un'altra grotta galattofora (Gamurrini, 1892; Pinza, 1902). Vicino alla cavità principale, lunga una quindicina di metri, se ne aprono altre ugualmente oggetto di questo antichissimo culto: lo stesso Secchi Taruggi (1961) constatò in una di queste grotte che esso sopravvive ancora trovando offerte di pane e fagioli. Un'altra grotta, legata alla stessa tradizione, viene segnalata sul monte presso l'eremo di Rupecavo (Lucca) dove, ancora nel secolo scorso, l'acqua stillante dalla roccia veniva bevuta con fanatismo religioso (Pellegrini, 1894). Una cavità che si apre alle spalle della cappella è detta ancora della "gocciola" perchè una credenza popolare attribuisce agli stillicidi della grotta effetti miracolosi contro il mal di testa (Becucci, 1934).

5. Lazio. Nella Grotta di S. Angelo a Marolo, in provincia di Frosinone, nella quale è inserita una chiesa rupestre, fino all'inizio di questo secolo le madri andavano a pregare, per ottenere abbondanza di latte per svezzare i propri figli (Biondi, 1981; Zaccheo, 1980; 1985; Felici & Cappa, 1993). Nella chiesa rupestre della Grotta di Santa Romana (49 La), in comune di S. Oreste (Roma), vicino l'altare si trova una piccola vasca di marmo e l'acqua gocciola sopra di essa dalla roccia. Quest'acqua viene presa e bevuta per devozione dalle donne prive di latte dei paesi vicini: si raccontano prodigi miracolosi avvenuti anche di recente (De Carolis, 1950; Corrain e al., 1967; Innamorati, 1993). Il culto di San Michele Arcangelo nel Lazio si trova spesso congiunto con quello della Madonna, che qui assume il ruolo particolare di protettrice delle partorienti: altri esempi sono noti nel Viterbese ad esempio presso il Santuario ipogeo della Madonna del Parto a Sutri (Raspi Serra, 1976).

6. Abruzzo. All'imbocco del Fucino nella Marsica si trova la Grotta del Santo Padre dalle cui pareti scaturiva un'acqua miracolosa che secondo una leggenda serviva a far scendere il latte alle mammelle (Febonio, 1678, Corrain e al., 1967)

7. Campania. Secondo notizie raccolte da Alfonso Piciocchi nella Grotta di S. Michele, in comune di Liberi (Caserta), durante le manifestazioni in onore del patrono, numerose gestanti dei vicini paesi (Liberi, Dragoni e Roccaromana) si recherebbero processionalmente nella grotta. Queste donne sono solite strofinare le mammelle su due stalattiti gocciolanti, molto simili al loro seno al fine di propiziarsi il latte del nascituro. Tradizioni simili sopravvivono alla Fontana delle Menne a San Lorenzello (Benevento) e nella Grotta delle Zizze, a Vulturara (Avellino); in entrambi i casi i toponimi, che riprendono i dialetti locali, fanno esplicito riferimento alle mammelle femminili. A Mignano (Caserta) alla mezzanotte del giorno di Pentecoste parte un pellegrinaggio che percorre diciotto chilometri fino al Santuario dei Lattani. Le donne spesso procedono a piedi nudi caricandosi i loro bimbi, ancora in culla, sulla testa perchè la tradizione popolare vuole la Madonna venerata nel santuario, protettrice delle mamme che non hanno latte per i loro neonati. Alla base di questo culto ci sarebbe una leggenda che viene raccontata con non lievi varianti in tutto il circondario; quella raccolta a Teano vuole che un pastorello dei monti Lattani avesse notato una pecora ricongiungersi al gregge tutte le sere con le mammelle vuote di latte. Incuriosito di questo fatto l'indomani volle seguirla per rendersi conto di ciò che accadeva: la vide così entrare in una grotta dove si diresse egli stesso, ma un serpente gli sbarrò la strada. Dovette lottare per uccidere il rettile ed impadronirsi della chiave che teneva stretta fra i denti. Una volta entrato scorse la sua pecorella allattare il Bambino della Madonna. Oggi sui Lattani la statua di quella Madonna scolpita nel basalto, è ancora oggetto della venerazione popolare (Soricillo, 1962; Robertella, 1974).

8. Conlusioni. Sembra che gli esempi citati siano le emergenze di un culto antichissimo la cui origine si perde nella preistoria che interessava molte grotte italiane. Sarà senzaltro capitato agli speleologi più attenti trovare riferimenti più o meno espliciti a queste tradizioni che, se oggi hanno ormai perso ogni importanza pratica, certamente mantengono ancora un grande interesse culturale. Per concludere, è importante riassumere quegli elementi che possono far intuire la persistenza fino ad epoca recente di questi culti: oltre ai toponimi locali, più o meno espliciti, che è sempre opportuno recuperare e conservare, la presenza di stalattiti mamellonari, vasche d'acqua (che peraltro potrebbero avere anche un'utilizzo più profano), stillicidi, in grotte-santuario dedicate a sante femminili, con specifici riferimenti agiografici (Madonna del Latte, Madonna del Parto, S. Romana, ecc.) o a S. Mama il cui carattere androgino d'altra parte è già stato messo in evidenza da vari autori (Hadjinicolaou-Marava, 1953; Lionetti, 1984).

 

9. Bibliografia

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Grotte, latte e fertilità:

sopravvivenze, intrecci, miti

di Enrico Gleria

 

1. Il referente

All'inizio del secolo, lo studioso vicentino Ramiro Fabiani, descrivendo alcune grotte dei Berici cita espressamente due cògoli per tradizione chiamati "delle Tette". Del primo, situato nei pressi di Mossano, scrive (Fabiani, 1902): "Così detto per la forma mammellonare delle sue stalattiti. L'acqua dello stillicidio, che si raccoglie in una pozzetta a tal uopo scavata, è ritenuta dalle donne dei paesi vicini come efficace galatogeno. Questo cògolo non deve poi confondersi con quello dello stesso nome che si trova a Monticello di Lonigo." La prima grotta è descritta anche da Allegranzi (1992) che conferma il radicamento di questa tradizione fino a tempi relativamente recenti.

Lo stillicidio di acque sature in un ambiente riparato parzialmente illuminato porta alla formazione di concrezioni stalattitiche particolari che si accrescono per incrostazione successiva di muschi e altri organismi vegetali a costituire una massa spugnosa rotondeggiante. Queste concrezioni richiamano nell'aspetto la morfologia delle mammelle, al posto del capezzolo lo stillicidio mantiene sulla sommità di queste un tubicino non ancora incrostato sempre ripieno d'acqua lattescente. In Toscana le chiamano "pocce lattaie", in Puglia l'acqua dall'aspetto lattescente è chiamata "latte di grotta" e in generale il fenomeno ha colpito la fantasia popolare per i suoi naturali richiami, dando il via ai miti relativi (Corrain, Rittatore, Zampini, 1967).

Presso Crocetta del Montello, si apre un'altra caverna, nota in tutto il Veneto per essere fonte d'acqua purissima "che ha la straordinaria virtù di ridare il latte alle madri sfinite da un allattamento troppo faticoso e prolungato" (Caccianiga, 1874; Serena, 1923; Saccardo, 1923; Dolce, 1928; Dall'Anese & Martorel, 1980). Questa grotta, chiamata Buoro del Ciano o anche Fontana del Boro, sembra sia stata associata alla ninfa Ciane e sia stata oggetto di culto fin dall'epoca romana. Nella mitologia romana e, prima ancora, in quella greca le ninfe rappresentano divinità secondarie che incarnano specialmente il principio umido delle forze elementari della natura. La tradizione le raffigura come vergini fiorenti di bellezza, per lo più benevole con i mortali, che si riunivano presso le sorgenti per cantantare e danzare. Vivevano dunque nei laghi, lungo i ruscelli e nelle fonti (Naiadi), oppure venivano associate ai monti e alle grotte (Oreadi). I Romani identificarono le ninfe con le loro originarie divinità delle sorgenti ed in genere con l'elemento liquido associato alla fertilità. La storia di Ciane, la ninfa che ci interessa più da vicino, è legata al seguente mito ricordato nell'antica Grecia: Ciane è mutata in una fonte per essersi opposta al ratto di Persefone perpetrato da Ades, re degli inferi. Il culto delle ninfe era solitamente celebrato in luoghi aperti, che venivano scelti per la loro amenità e dove si immaginava esse risiedessero.

Durante il Medioevo al culto della ninfa Ciane viene sovrapposto quello verso San Mama, quest'ultimo compare infatti come toponimo nella vicina contrada sulle sponda del Piave e al Santo è dedicata una chiesa, di chiaro significato esaugurale, ubicata proprio all'imbocco della strada che conduce alla Fontana del Boro. Di Mama, vissuto in Cesarea intorno alla seconda metà del III° secolo, si hanno scarse notizie attendibili l'unica cosa sicura è che il suo culto si estese dall'Anatolia verso l'Europa, alla fine dell'VIII° secolo, divenendo popolare anche in Italia, soprattutto nel Veneto e in Toscana. Della vita di Mama è particolarmente significativa la scelta eremitica quando, ubbidendo ad una voce soprannaturale, si ritira a vivere per oltre cinque anni su una caverna per predicare il Vangelo alle bestie della foresta. Suo cibo è il miele dei favi e il latte delle fiere, che si lasciano mungere ubbidendo mansuete, ed abbeverandosi ad una sorgente fatta miracolosamente sgorgare dalle rocce.

A questo proposito sarà opportuno ricordare che Hadjinicolaou-Marava (1953) avanza la tesi che Mama non sarebbe altro che la metamorfosi cristiana della divinità anatolica Ma, la gran madre degli dèi Kybele. Il giovane martire Mama, emulo di Orfeo e protettore delle bestie, avrebbe ereditato parecchi attributi della dea e del suo amante Men o Attis. Kybele era già entrata nell'Olimpo delle divinità romane fin dal 204 a.C., col nome di Magna Mater, ma il suo culto era rimasto in parte segreto per il carattere licenzioso di certi suoi riti, celebrati esclusivamente da sacerdoti asiatici. All'epoca dell'imperatore Claudio (41-54 d.C) i "Misteri di Kybele ed Attis", importati dall'Asia Minore, divennero invece una vera e propria religione: abolite le restrizioni divenne pubblica la festa primaverile della Dea che manteneva un carattere eminentemente orgiastico. Le due feste annuali di Mama, quella del 2 settembre e quella della "nuova domenica" (prima domenica dopo Pasqua o domenica in albis ) avrebbero rimpiazzato le due feste di Ma e di Men, in autunno e primavera. Uno dei primi documenti relativi a Mama compare in un'omelia di San Gregorio Naziazeno (ca. 330-390) in esso viene ricordato il tema delle cerve che si lasciano mungere motivo che rieccheggia il mito di Orfeo (Cignitti, 1967).

 

2. Miti e simbolismo del latte

Come è messo in evidenza da Chevalier e Gheerbrant (1986) il latte compare in numerosi miti: l'Ercole romano come l'Eracle greco succhia il latte dell'immortalità dal seno di Era, allo stesso modo il faraone allattato da una dea accede ad una nuova esistenza tutta divina dalla quale attingerà la forza per assicurare la sua missione sovrana. San Bernardo è allattato dalla Vergine e diviene in questo modo fratello adottivo di Cristo. La Pietra filosofale è chiamata talvolta il Latte della Vergine: il latte rappresenta ancora il nutrimento d'immortalità. Anche presso i celti il latte assume lo stesso significato e Drostan, un druido picto, per guarire i soldati feriti dalle frecce avvelenate dei Bretoni, ordina di raccogliere il latte di centoquaranta vacche bianche in una fossa scavata nel mezzo al campo di battaglia. Quelli che vi saranno immersi guariranno (Leroux, 1961).

L'esoterismo islamico riprende gli stessi temi, con l'acqua al posto del latte accentuandovi il carattere iniziatico. Nel Sura della Caverna il pesce, gettato alla confluenza dei due mari, resuscita. Si tratta di un tema che ritorna costantemente nella tradizione islamica e in special modo in quella iranica. Secondo un'altra leggenda Alessandro Magno, ossessionato dalla ricerca della fonte dell'eterna giovinezza, capisce di averla finalmente trovata quando vede rianimarsi un pesce salato lavato da un suo cuoco in una sorgente.

 

3. Inumazioni cimbre in caverne

Fra le popolazioni cimbre dell'Altipiano esiste un'antica credenza, secondo la quale il defunto continua a vivere, anche se diversamente dai vivi, all'interno del proprio sepolcro tanto da poterne uscire occasionalmente per molestare chi si trovi a passare nei paraggi. Questa tradizione sembra ricollegarsi al lancio dei cadaveri nelle cavità, consuetudine che veniva giustificata pensando di inviare i morti direttamente nel mondo degli inferi. Le cavità verticali dell'Altopiano, assai note fra le antiche popolazioni residenti, corrispondono quindi ad antichi luoghi di inumazione dove ci si sbarazzava in modo definitivo di quei defunti di cui si temeva il ritorno. Là sotto quest'ultimi venivano ricevuti da spiriti ostili, che si mostravano occasionalmente sotto forma di uccelli neri simili a cornacchie. Si trattava di esseri dotati di grande potenza: ad esempio gli veniva attribuita la capacità di di evocare i temporali. Nonostante queste pratiche di inumazione estrema, anche questi morti "scomodi" potevano qualche volta uscire dalle cavità, soprattutto quando non risultavano sufficientemente inacessibili, ma ciò avveniva per lo più per porre ad asciugare le assi delle bare o per sbarrare la strada ad imprudenti viandanti notturni.

Molte di queste credenze si ritrovano nella seguente leggenda di Roana. Il vecchio Belo era uno scellerato e si era reso responsabile di varie malefatte che avevano finito per creare tensione fra i montanari della zona: tra l'altro aveva divelto e spostato i pali confinari ed aveva rubato le merci degli ambulanti nascondendole nel forno. Quando, dopo averne combinate di tutti i colori, il vecchio morì era stato da tempo scomunicato. Si racconta che i becchini quando raggiunsero la contrada Putz sotto Roana, per trasportare la bara al cimitero, sentirono il cadavere agitarsi mostrando in quel modo di non voler essere sepolto in terra consacrata. Tuttavia i becchini non si lasciarono impressionare e, portatolo al cimitero, lo seppellirono. Il mattino seguente trovarono però la bara dissotterrata: da montanari testardi com'erano la seppellirono nuovamente ritrovandola però dissepolta l'indomani, così per tre giorni di seguito: il morto, evidentemente, non voleva saperne di quel camposanto. Allora il parroco di Roana, chiamati quattro uomini fece portar il morto giù all'incrocio presso l'immagine sacra della Sbarre, e qui, dopo aver rincuorato i quattro uomini spaventati, prese la stola ed esorcizzò il morto ordinandoli di uscire dalla bara e di scendere alla parete rossa del Küberle. Il morto non si fece ripeter l'ordine e levatosi scese alla roccia che da allora è chiamata la Parete Rossa (Rota Steela) del povero Belo alla cui base si apre una caverna ed ora tutti hanno paura di passare di là (Schweizer, 1984; 1987).

In passato a Camporovere era consuetudine abbastanza comune sbarazzarsi dei cadaveri "che non volevano rimanere in terra consacrata", noti anche come morti viventi, e li si gettava nel Tanzerloch, un pauroso abisso presso la bocca del quale si svolgevano delle danze. Si racconta che, caduto sul fondo il cadavere, si udiva un terrificante ululato. In tempi più tardi sembra essere stato soprattutto il clero locale ad utilizzare la cavità per sbarazzarsi delle spoglie di miscredenti e scomunicati spesso alimentando con "fantasie" l'ingenuità dei poveri montanari dell'Altopiano. E' forse dietro un preciso ordine del parroco che il becchino esumava nottetempo la bara per dimostrare l'indomani che il cadavere "non voleva" e poteva stare al cimitero (Schweizer, 1987). Benchè non abbia trovato nessun esplicito riferimento a luoghi dove fosse in uso precipitare vivi in voragini, lo Schweizer riconosce in queste descrizioni un possibile legame con l'antico uso indoeuropeo dell'uccisione dei vecchi.

L'idea di un rapporto che lega i vivi ai morti è espresso con particolare chiarezza nel racconto della Caverna della Vita di Roveda, nella Valle dei Mocheni, nella quale per ogni vivo brucia una lampada: la madrina seduta presso le lampade altro non è che la personificazione di Frau Perchta (Zingerle, 1891; Schweizer, 1984). La leggenda si svolge nel seguente modo: sotto il monte Hoawort c'è una gola dove si apre una grotta al cui interno ardono tanti lumi quanti sono gli abitanti di Roveda. Una pastorella si trova a passare con le pecore nella gola in occasione della festa di San Giovanni quando la bocca della caverna si spalanca. Essa incontra così la sua madrina morta che, invitatala dentro alla grotta, le mostra tutti i lumi spiegandole che ad ognuno corrisponde una vita che si spegne una volta esaurito l'olio della lampada. La ragazza chiede allora di poter vedere la sua. La madrina rifiuta a lungo convinta che la pastorella si rattristati nel conoscere il proprio destino ma alla fine cede e le mostra il lume in cui ormai rimane pochissimo olio. A questo punto risulta inutile la preghiera di versarne dell'altro: la madrina risponde di non poterlo fare e così la pastorella si allontana rassegnata e triste: muore poco dopo. Molti elementi del racconto hanno un'evidente valenza simbolica: gli inferi simboleggiati dalla caverna sono un'immagine riflessa del mondo dei vivi, la madrina incorruttibile rappresenta il destino, la porta degli inferi si apre al solstizio d'inverno quando la vita ha compiuto il suo ciclo.

 

4. La caverna e la nascita

Esiste quindi una precisa corrispondenza fra il mondo dei morti e quello dei vivi che si ripropone anche in altri miti; uno di questi riprende l'idea di rinascita germanica e vuole che dalle stesse caverne, in cui sono stati gettati i vecchi morti, rinasca la nuova vita: perciò si usa dire, quando si aspetta una nascita in famiglia, che si va al Tanzerloch di Roana a comperare un bambino. I maschi, ai quali la cultura contadina assegna ruoli più importanti, costano più delle femmine. Anche in una cantilena infantile, nella quale Schweizer riconosce la celebrazione del solstizio d'inverno, ricompare il salto nella caverna al quale segue però, l'anno dopo, il ritorno. Vi si dice:

 

L'arciere che lo rincorre

l'ha colpito.

Balza giù nel buco

e l'anno dopo torna qui.

 

Se a Roana si prendono i neonati al Tänzerloch di Camporovere a Luserna ci si rivolge a Frau Klafter o alla Frau Perchtega che ha la sua riserva di bambini in una caverna sul torrente Üasn. La tradizione vuole che li conservi in botti piene d'acqua e quando tuona il temporale si dice che è la Frau Perchtega intenta a risciacquarle. E' lei stessa che porta i piccoli nel Fürtac dalla caverna sotto il villaggio denominata "stanza della vecchia Orsola". A Carbonare si racconta che essa conservi i bambini in una botte di crauti facendoli uscire dalla "caverna del mago". Questo mago, è un gigante goffo, che appartiene a sua volta al mondo ctonio degli inferi. Anche a San Sebastiano si diceva che la vecchia, su alla Parete Rossa, aveva una botte di crauti e da là portava i bambini alle donne. La tradizione rappresenta la Frau Perchtega accompagnata da una schiera di bimbi e pertanto risulta facile identificarla con la Grau (Frau) Stana, anche lei con un seguito di piccoli esseri del suo genere: i Graunstanlein. La Grau Stana possiede su gli elementi atmosferici lo stesso potere dei maghi pertanto su questa figura convergono due concezioni connesse con gli inferi: la rinascita e il dominio sulla natura. A Palù la levatrice li estrae da una caverna nella "lavina" e a Giazza si suole dire "Questo bambino, l'ho trovato in una caverna!" Anche a Mezzaselva c'è una caverna detta Häusle von seligen Weiblein (Casetta delle beate donnette) dove si andavano a prendere bambini o bestiame (Schweizer, 1987).

Sorprende come, anche nell'alto Trevisano, esistano tradizioni simili: nella valle del Soligo si racconta infatti che i neonati si compravano nella Busa della Scalona, una caverna di Farrò. Chi entrava nella grotta senza essere accompagnato dalla "siora", la levatrice, e senza portare sufficiente denaro non avrebbe fatto più ritorno. Dentro la Busa c'era infatti una vecchia, che la tradizione vuole permalosa e prepotente; essa consegnava i bambini avvolti in foglie di zucca e là, nel buio della spelonca, non si poteva vedere se fossero belli o brutti, maschi o femmine; si pagava, si ritirava il fardello e si ripartiva. La strada era così lunga che al ritorno le donne erano sfinite e dovevano mettersi a letto per molti giorni prima di recuperare forze sufficienti per alzasi e camminare ancora (Dolce, 1928; Dall'Anese & Martorel, 1980). Si tratta forse di contaminazioni cimbre legate alla presenza cimbra in Alpago?

 

5. Grotte lattaie in Italia

Lombardia. Una grotta, non ancora localizzata, posta sopra Plesio (Como), sarebbe dedicata a San Mamete o Amate, personaggio che ha sempre colpito la tradizione popolare che lo invoca in caso di siccità prolungate e per garantire alle donne sufficiente latte per i propri bambini. La leggenda dello stesso santo è probabilmente confusa nella tradizione che ritroviamo in un'altra grotta del Comasco (Grotta sopra Versasio, 3650 Lo Co): un certo frate Agnolo che viveva qui come eremita, durante la peste del XV secolo, sarebbe stato sfamato dal latte di una cerva inviatagli da Dio (Banti, 1984).

Toscana. La Buca o Tomba Lattaia (574 T Si), in comune di Cetona, è una cavità che si sviluppa per un centinaio di metri. Il nome della grotta è derivato dal fatto che alle acque sgocciolanti dalle sue pareti sono sempre state attribuite virtù galattofore provocano cioè, se bevute dalle madri durante l'allattamento, l'abbondanza della secrezione del latte. Gli scavi archeologici hanno rilevato in superficie o a poca profondità numerose tracce dell'epoca romana (I° secolo) consistenti principalmente in una stipe votiva alla divinità delle acque lattaie, con numerosi ex voti in terracotta - vasetti minuscoli, pupi fasciati frammentari, figurazioni di mammelle ecc. - e monete di bronzo, che fanno risalire almeno a quell'epoca la credenza di cui abbiamo accennato (Santi, 1798; Calzoni, 1940; 1941, Corrain e al., 1967). La Buca delle Pocce Lattaie (524 T Si) che si apre nella vallata del torrente Gupo, in comune di Pienza, è un'altra grotta galattofora (Gamurrini, 1892; Pinza, 1902). Vicino alla cavità principale, lunga una quindicina di metri, se ne aprono altre ugualmente oggetto di questo antichissimo culto: lo stesso Secchi Taruggi (1961) constatò in una di queste grotte che esso sopravvive ancora trovando offerte di pane e fagioli. Un'altra grotta, legata alla stessa tradizione, viene segnalata sul monte presso l'eremo di Rupecavo (Lucca) dove, ancora nel secolo scorso, l'acqua stillante dalla roccia veniva bevuta con fanatismo religioso (Pellegrini, 1894). Una cavità che si apre alle spalle della cappella è detta ancora della "gocciola" perchè una credenza popolare attribuisce agli stillicidi della grotta effetti miracolosi contro il mal di testa (Becucci, 1934).

Lazio. Nella Grotta di S. Angelo a Marolo, in provincia di Frosinone, nella quale è inserita una chiesa rupestre, fino all'inizio di questo secolo le madri andavano a pregare, per ottenere abbondanza di latte per svezzare i propri figli (Biondi, 1981; Zaccheo, 1980; 1985; Felici & Cappa, 1993). Nella chiesa rupestre della Grotta di Santa Romana (49 La), in comune di S. Oreste (Roma), vicino l'altare si trova una piccola vasca di marmo e l'acqua gocciola sopra di essa dalla roccia. Quest'acqua viene presa e bevuta per devozione dalle donne prive di latte dei paesi vicini: si raccontano prodigi miracolosi avvenuti anche di recente (De Carolis, 1950; Corrain e al., 1967; Innamorati, 1993). Il culto di San Michele Arcangelo nel Lazio si trova spesso congiunto con quello della Madonna, che qui assume il ruolo particolare di protettrice delle partorienti: altri esempi sono noti nel Viterbese ad esempio presso il Santuario ipogeo della Madonna del Parto a Sutri (Raspi Serra, 1976).

Abruzzo. All'imbocco del Fucino nella Marsica si trova la Grotta del Santo Padre dalle cui pareti scaturiva un'acqua miracolosa che secondo una leggenda serviva a far scendere il latte alle mammelle (Febonio, 1678, Corrain e al., 1967)

Campania. Secondo notizie raccolte da Alfonso Piciocchi nella Grotta di S. Michele, in comune di Liberi (Caserta), durante le manifestazioni in onore del patrono, numerose gestanti dei vicini paesi (Liberi, Dragoni e Roccaromana) si recherebbero processionalmente nella grotta. Queste donne sono solite strofinare le mammelle su due stalattiti gocciolanti, molto simili al loro seno al fine di propiziarsi il latte del nascituro. Tradizioni simili sopravvivono alla Fontana delle Menne a San Lorenzello (Benevento) e nella Grotta delle Zizze, a Vulturara (Avellino); in entrambi i casi i toponimi, che riprendono i dialetti locali, fanno esplicito riferimento alle mammelle femminili. Anche le catacombe di S. Gaudioso nel quartiere di S. Vincenzo alla Sanità, uno dei più degradati di Napoli, vengono frequentate da gestanti ma qui si limitano a sedere sulla sedia episcopale in pietra del santo omonimo al fine di procurarsi un parto felice. Altre donne fanno lo stesso ma per propiziarsi una fertilità tanto desiderata e mai concessa. Ancora oggi, visitando le catacombe, si può trovare le gestanti sedute sullo scanno convinte che ciò porterà fortuna al nascituro e non è insolito trovare nei cunicoli intorno ad esso, accanto a fiori e a ceri accesi davanti agli scheletri, bambole e patate infilzate da spilli ed altri tipi di fatture (Piciocchi e al., 1985). A Mignano (Caserta) alla mezzanotte del giorno di Pentecoste parte un pellegrinaggio che percorre diciotto chilometri fino al Santuario dei Lattani. Le donne spesso procedono a piedi nudi caricandosi i loro bimbi, ancora in culla, sulla testa perchè la tradizione popolare vuole la Madonna venerata nel santuario, protettrice delle mamme che non hanno latte per i loro neonati. Alla base di questo culto ci sarebbe una leggenda che viene raccontata con non lievi varianti in tutto il circondario; quella raccolta a Teano vuole che un pastorello dei monti Lattani avesse notato una pecora ricongiungersi al gregge tutte le sere con le mammelle vuote di latte. Incuriosito di questo fatto l'indomani volle seguirla per rendersi conto di ciò che accadeva: la vide così entrare in una grotta dove si diresse egli stesso, ma un serpente gli sbarrò la strada. Dovette lottare per uccidere il rettile ed impadronirsi della chiave che teneva stretta fra i denti. Una volta entrato scorse la sua pecorella allattare il Bambino della Madonna. Oggi sui Lattani la statua di quella Madonna scolpita nel basalto, è ancora oggetto della venerazione popolare (Soricillo, 1962; Robertella, 1974).

 

6. Grotte lattaie in alcuni paesi d'Europa

Irlanda. In antichi documenti irlandesi compare un vescovo, abate di Armagh, di nome Nuadu (Noda, Nuadha; lat. Nuadatus). Gli annalisti lo descrivono come un santo anacoreta e lo associano a Loch Uama, che significa letteralmente "lago della caverna". Questo toponimo, che indica probabilmente il luogo del romitorio del santo, è stato identificato da qualcuno anche come luogo di nascita. Per indentificare Loch Uama sono stati fatti vari tentativi: Loch Nahoo, presso Drumleas, nella contea di Leatrim, Cavetown Loch, nella contea di Roscommon, ecc. In favore della prima ipotesi sta comunque il riferimento negli annali, all'anno 809, a Dísert Nuadháin (romitorio di Nuadu), luogo ora noto come Estersnow, presso Cavetown; non lontano di qui vi è inoltre un pozzo sacro chiamato Tobar Nuadháin, un tempo centro di culto (Grannell, 1967).

Francia. Alcune sporgenze a forma di mammelle nella Grotta di Sos, nelle Landes, dove scorre la fontana di Las pouppettes hanno probabilmente fatto si che si attribuisse all'acqua di quest'ultima la proprietà di restituire il latte alle nutrici che la bevono dopo aver dedicato un'offerta e una preghiera alla Madonna. Nell'acqua che gocciola da una una roccia dei dintorni della Réole (Gironda), che presenta concrezioni calcaree analoghe, si inzuppano i pannolini che vengono applicati sui seni per aumentare la secrezione lattea (Sébillot, 1904-1907). A Dignac, nel dipartimento della Charente, presso la chiesa di St. Sulpice-de-Cloulas esiste un convento con grotticelle e relativa fonte dalle acque galattogene. A Sers, ancora nella Charente, esiste una cappella dedicata a Nostra Signora di Bellevau con relativa fonte lattaia e fecondativa. La grotta nei pressi della sorgente è tuttora frequentata dalle donne il martedì di Pasqua (Leproux, 1957; Corrain e al., 1963). A Léon, vicino a Lesneven in Bretagna, si trova un pozzo sacro dedicato alla santa gallese Sennara (Azenora) visitato dalle madri il cui latte è insufficiente a nutrire i loro bambini (Le Grand, 1640; Doble, 1964).

Portogallo. Determinate analogie di aspetto hanno motivato il ricorso a parecchi scherzi della natura: le donne portoghesi che non hanno latte fanno per tre volte il giro intorno ad una roccia chiamata Pedra Leital e succhiando le protuberanze a forma di mammelle che si trovano su una delle sue facce (Leite de Vasconcellos, 1882).

Grecia. La Potnia, che incarna la Terra Madre, ha la sua dimora e il suo tempio primitivo in molte delle grotte che si affacciano nell'area mediterranea; quest'ultime risultano poi particolarmente frequenti nella Creta minoica dove il mito ha celebrato soprattutto quelle sacre a Rhea e a Ilithyia. Ad Amnisòs, nella grotta di Ilithyia, è ricordato il culto della dea omonima, protettrice dei parti e delle nascite. La frequentazione e il culto nella grotta è documentato a partire dall'epoca neolitica fino al V secolo a. C. e gli archeologi scavando i depositi della grotta hanno rinvenuto numerose statuette votive di donne in atto di partorire o di allattare. Un'altra caverna, legata probabilmente al culto della stessa dea, si apre presso Kamares. Questo culto passò poi a Roma dove Ilitihyia si confuse a poco a poco con Giunone Lucina. Nell'antro Dicteo, sempre a Creta, la dea Rhea partorì Zeus. ll culto che si dedicava a Rhea, da alcuni identificata con Kybele, era rumoroso ed orgiastico; i sacerdoti della Dea, chiamati Kureti, eseguivano danze armate particolarmente rumorose e rievocavano come Zeus era stato salvato e trasportato nell'antro Ideo, sull'altopiano di Nida e qui allattato da una capra. Entrambe le grotte hanno rivelato significativi reperti legati al culto.

Scrive Pestalozza che si è interessato al culto e al significato della Potnia in un suo saggio (1954): "La religione preellenica è la religione della Terra Madre veduta sotto la specie del Femminino eterno, di cui essa è il macrocosmo mirabile, mentre le singole donne ne sono altrettanti meravigliosi microcosmi, così tutte le vicende dell'intima vita muliebre si ripetono, immensamente ingrandite, nella immensa vita di Gaia: anche le pene e gli affanni della gravidanza ed i morsi lancinanti del parto. Perchè anche Gaia non conosce riposo, essa, la dea dagli uteri innumerevoli e dalle innumerevoli mammelle, dal vastissimo petto e dal profondissimo grembo, dentro cui opera perennemente il ritmo della vita che muore e rinasce."

Si perdono quindi nella lontana tradizione preellenica anche le feste orgiastiche celebrate nella caverna Coricia, sul monte Parnaso presso Delfi. La grotta era sacra alle ninfe e a Pan, dio delle selve ma anche delle greggi e dei pastori; fra i depositi della grotta sono state ritrovate centinaia di statuette votive, per lo più legate ai temi della fertilità, che testimoniano un culto millenario.

 

7. Miti di rinascita collegati alla caverna

Anatolia. Dalla regione anatolica proviene una leggenda che presenta interessanti paralleli con la tradizione biblica. Secondo quanto si tramanda, almeno a partire dal XIV secolo, ai confini con la Cina, sulla Montagna Nera, si aprirebbe una caverna con un incavo dalla forma umana. Un giorno le acque innondano la grotta e depositano dell'argilla che riempie la cavità: in capo a nove mesi, per effetto del calore solare, il modello di argilla prende vita: compare così Ay-Atam, il primo uomo della terra. Per quarant'anni esso vive solo poi una seconda innondazione forma un nuovo essere, ma questa volta la cottura è incompleta e viene generata una donna. Dalla unione dei due nascono quaranta figli che si sposano fra loro e generano moltiplicandosi su tutta la terra. Quando Ay-Atam e sua moglie muoiono il figlio maggiore torna a deporli nell'incavo-matrice, spera così di riportarli in vita (Roux, 1966).

Cina. In alcune tradizioni dell'Oriente la grotta è percepita come un microcosmo dove il pavimento corrisponde alla terra e la volta la cielo. Questo simbolismo ci permette di comprendere perchè l'antica casa cinese degli uomini, che era una grotta, conteneva un palo centrale che il sovrano doveva salire per poppare dalla volta le stalattiti. Si tratta cioè di un rituale iniziatico, per certi versi una vera e propria ascensione dell'anima, nel quale il sovrano dimostrava la sua filiazione celeste traendo nutrimento dal cielo (Chevalier & Gheerbrant, 1986).

Usa. Narra una leggenda cheyenne che, a causa del prolungarsi della siccità, la prateria fu ridotta a una distesa di polvere e i bisonti scomparvero dall'orizzonte. Uno sciamano rapì allora una donna e, dopo che da molti giorni camminava verso nord, le spiegò che erano diretti alla Montagna Sacra e che gli spiriti la volevano partecipe nella cerimonia che avrebbe ridato vita alla terra. Giunti a destinazione entrarono in una caverna dove, coperto di una pelliccia di bisonte li aspettava il Grande Spirito. Qui lo sciamano ricevette in regalo una cocolla di bisonte dal cui cappuccio pendevano due corna che al momento di eseguire i riti si sarebbero innalzate. Poi il Grande Spirito fece l'amore con la donna e subito la prateria tornò alla vita. Ogni anno alla Danza del Sole i Cheyenne alzano una tenda che rappresenta la Montagna e la Caverna dove un sacerdote avvolto in una pelle di bisonte e una donna consacrata rivivono l'antico rito della fertilità. In un altro mito la Signora degli animali e delle piante, rappresentati dal bisonte e dal mais, offre una vergine allo sciamano che si ripropone in questo modo di restituire alla terra la fertilità. Lo stregone deve sottoporsi alla solita marcia iniziatica prima di giungere ai piedi della Montagna e alla Caverna dove la Donna Bisonte convive con un Coyote briccone; i due non hanno difficoltà a concedere allo sciamano una fanciulla dai capelli d'oro ma pongono una condizione che difficilmente potrà essere rispettata: essa non dovrà soffrire assistendo allo strazio dei bisonti feriti durante le cacce.

Secondo Duerr, un autore tedesco che ha analizzato a fondo questi miti, la caverna nella quale avviene l'incontro con la Signora rappresenta l'utero del cosmo. Sono soprattutto le caverne preistoriche che esplicitano questo significato: sono spalmate d'ocra rossa perchè l'utero cosmico è imporporato di sangue, sono ornate di figure d'animali che la Signora genera e rigenera in risposta all'amore dello sciamano. Anche se spesso gli animali appaiono trafitti da lance o freccie, le loro sono ferite d'amore, vi è cioè la convinzione che la preda di caccia sia la vittima sacrificale di un disegno più grande, che consente alla natura di rinnovarsi e, in ultima analisi permetteva ai fanatici adoratori della vita, di cacciare ed uccidere (Duerr, 1984).

Messico. Nel Chicomoztoe, "luogo delle sette grotte" dell'antico Messico viene assimilato il regno dei morti a quello da dove vengono i bambini (Soustelle, 1940; Durand, 1963).

Australia. Passando in Australia vediamo come la caverna entri ancora come elemento significativo in numerosi miti della cultura autoctona. Per gli aborigeni ogni roccia, ogni sorgente, ogni caverna è sufficiente ad ispirare un timore reverenziale perchè rappresenta una traccia concreta di un dramma sacro prodotto nel mitico tempo del sogno (Spencer & Gillen, 1904). Fra gli Unambal, che vivono nell'Australia nord occidentale, sopravvive ad esempio il mito della creazione di Ungud (Lommel, 1952). Quest'ultimo, vera e propria divinità ctonia, vive sotto le spoglie di un serpente nascosto nelle viscere della terra, mentre in cielo un altro eroe mitico, Wallanganda, è la stessa Via Lattea. Ungud, avviando un processo di metamorfosi, è in grado di trasformarsi in tutti gli esseri che sogna. Wallaganda invece prima separa da sè una forza spirituale con la quale modella le immagini degli esseri che vuole generare proiettandole sui muri delle caverne, poi li crea in concreto e li invia per il mondo. Allo stesso modo, per gli Unambal, ogni essere umano è un germe di bambino e il padre prima lo trova in un sogno poi attraverso un altro sogno lo proietta dentro alla moglie. In altri termini l'aborigeno intende la riproduzione in un contesto completamente avulso dall'atto sessuale, il cui unico fine è il piacere.

In questo modo la caverna entra in maniera significativa a far parte della geografia mitica aborigena. Sulle rocce e le pareti delle caverne, assieme ai disegni di piante e animali, ci sono raffigurazioni antropomorfe, senza bocca, che vengono chiamate Wondjina. Esse impersonano la pioggia e, prima di esistere, vennero sognate da Ungud nel fondo delle acque. Per questo motivo ogni fiume, ogni lago o pozzo appartiene ad una precisa immagine di Wondjina situata nei pressi. Immediatamente dopo essere venuti in vita i Wondjina percorsero la terra portando le piogge e modificando il paesaggio facendo colline e pianure. Quando le pietre erano ancora bagnate i Wondjina si stesero sulle pietre bagnate e le loro impressioni produssero le prime pitture rupestri. I Woindjna penetrarono nella terra dove oggi si trovano le loro raffigurazioni; in seguito sono vissuti sotto terra nelle acque che appartengono alle pitture rupestri. Qui creano incessantemente nuovi "germi di bambini". Ogni essere umano comincia con l'essere un germe di bambino (jalalla) dove suo padre lo trova in un sogno e in un altro sogno lo proietta dentro a sua moglie. Il germe di bambino è dunque una particella di Woindjina che vive in un determinato punto d'acqua ma è anche un frammento di Ungud. Quando un jalalla assume forma umana viene chiamato "jajaru" e rappresenta la parte di Ungud che si trova in ciascun individuo ovvero quel frammento della sua anima che gli viene da Ungud di cui è discendente. Si dice che lo jajaru ha sede nei reni e al momento della morte torna al punto d'acqua e lì aspetta una nuova incarnazione.

Le pitture che ornano i ripari e le grotte del Kimberley settentrionale servono sia ad illustrare la mitologia della tribù che a perpetuare il contatto con il tempo del sogno. Ogni grotta contiene raffigurazioni di varie specie di animali e di almeno un essere antropomorfico chiamato Woidjina che può essere associato al cielo, alla pioggia, al Serpente Arcobaleno, agli spiriti-bambini e quindi, più genericamente, alla fertilità. Capell definisce i Wondjina esseri sovrumani delle grotte i quali possiedono il potere di dare la vita, potere per lo più legato all'acqua. Esiste una continuità strutturale fra queste figure mitologiche dimostrata dall'etimoltogia dei loro diversi nomi: Wondjina, Ungur e Ungud hanno le radici comuni wan, wun, win che significano acqua. Wondjina significa letteralmente vicino all'acqua, Ungud e Ungur appartenenti all'acqua.

La tradizione vuole che se una pittura rupestre viene toccata da un membro del clan essa evocherà la pioggia e gli spiriti bambini saranno pronti per una nuova incarnazione. Analogamente ridipingere le immagini di animali e piante ripetendo i gesti dell'atto creativo originale oppure cantando il mito raffigurato provoca la loro riproduzione e moltiplicazione. L'uomo che trova uno spirito bambino deve recarsi nella grotta e toccare l'immagine del serpente arcobaleno, o meglio dipingere una rappresentazione in modo che il serpente possa ricostruire la riserva di spiriti bambini.

Le donne aborigene che vogliono avere un figlio si ricoprono le braccia con ferite rituali, le stesse che avevano adornato la femmina ancestrale, e sostano nella Grotta della Donna (Woman Cave) di Uluru luogo ritenuto propizio per gli incontri con gli spiriti-bambini. Un antico mito racconta infatti che la femmina ancestrale era un uccello, giunta su un versante di Uluru, per generarvi molti figli; quest'ultimi sono identificati dagli aborigeni nei numerosi massi che circondano il monolite. Questi esseri-bambino di notte abitano le caverne, che si aprono alla base di Uluru, ma durante il giorno scivolavano per gioco sui ripidi versanti del monolite. Ma un giorno un cugino della donna-uccello uccise il fratello del temibile serpente maschio che abitava l'altro versante di Uluru. Liru, il serpente, si inerpicò allora sulla parete, dove ora sinuosa sale una nera fessura, e raggiunse il versante dove abitava la femmina-uccello che uccise. Gli spiriti-bambini che essa aveva generato rimasero così orfani per cui essi, sempre alla ricerca di una madre, si introducono nel corpo della donna che ritengono adatta e in questo modo perpetuano le tribù aborigene della zona.

Molte sono le figure della mitologia australiana che troviamo legate alla Terra e alla fertilità: le Mungamunga, ad esempio, sono una sorta di fate che la tradizione vuole molto avvenenti. Esse intervengono nelle cerimonie d'iniziazione femminili e possiedano poteri soprannaturali perchè sono in grado di spostarsi sottoterra e di camminare in cielo tra le nubi tanto che alcune donne le associano alla pioggia e al Serpente Arcobaleno (Berndt, 1950).

Per concludere questa breve rassegna di miti australiani, che apre interessanti paralleli con l'immaginario di altre culture, riferisco del mito dei fratelli Bagadjimbiri che ci ricollega al tema di partenza, quello del latte. Il mito è presente fra la tribù dei Karadjeri. Questi aborigeni sostengono che prima della comparsa dei due fratelli non esisteva nulla, poi i Bagadjimbiri uscirono dalla terra sotto forma di dingo ma divennero in seguito due giganti le cui teste toccavano il cielo. Secondo uno schema mitico, ben noto in diverse parti dell'Australia, dopo la comparsa dei due eroi culturali vengono ricordate le loro peregrinazioni e l'opera civilizzatrice fino alla scomparsa finale che avviene nel seguente modo: un uomo uccise i fratelli con un colpo di lancia ma Dilga, la loro madre, che si trovava distante, sentì l'odore dei cadaveri portato dal vento. Del latte sgorgò dai suoi seni e scorse sottoterra fino al punto in cui i due fratelli giacevano morti. Qui sprizzò fuori come un torrente impetuoso facendo annegare l'assassino e riportando in vita i due fratelli. In seguito i Bagandjimbiri si trasformano in serpenti d'acqua mentre i loro spiriti divennero le Nubi di Magellano (Piddington, 1932-1933). Ancora una volta quindi ritroviamo il latte come elemento di rigenerazione e fertilità, archetipo che parla un linguaggio universale dall'Europa all'Australia.

 

8. Bibliografia

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