Leggende nelle grotte italiane
a cura di Enrico Gleria

 

1.1 Friuli: L'assedio di S. Giovanni d'Antro (Ostermann, 1891)

1.2 Friuli: La Buse di Pasche (Baldissera, 1895)

2.1 Veneto: Il Buso dei Ladri del monte Cinto (Sellida, 1941)

2.2 Veneto: Il trombettiere della Spaluga (Candiago, 1958)

2.3 Veneto: Il Buso di Semblen (Baragiola, 1893)

3.1 Trentino Alto-Adige: Il buco del danaro (Bacher, 1905)

3.2 Trentino Alto-Adige: La ragazza condannata nella caverna (Bacher, 1905)

3.3 Trentino Alto-Adige: Grimm il gigante degli Oclini

4.1 Lombardia: La Buca dei Pagani (Marchesi, 1897)

5.1 Liguria: La leggenda della Grotta del Drago (Lamorati, 1665)

6.1 Toscana: La Buca delle Fate a Catenaia (Gamurrini, 1894)

7.1 Emilia Romagna: La leggenda di re Tiberio (Scotti, 1963)

8.1 Marche: La Grotta della Sibilla (Di Modugno, 1987)

8.2 Marche: La leggenda di S. Orso (Nolfi, 1641)

9.1 Campania: La grotta col tesoro (La Sorsa, 1938)

10.1 Molise: La Grotta di S. Michele (Cimegrotto, 1894)

11.1 Basilicata: La grotta del Drago (Levi, 1945)

12.1 Sicilia: Re Artù nell'Etna (Gervasio di Tirbury, 1705-1707)

12.2 Sicilia: L'apparizione della Madonna della Cava (Torres, 1894)

12.3 Sicilia: La leggenda di S. Calogero (La Sorsa, 1932)

13.1 Sardegna: Santu Mammuscone (Enna, 1983)

13.2 Sardegna: La grotta del diavolo (Bottiglioni 1922)

13.3 Sardegna: Il tesoro del castello di Burgos (Bottiglioni, 1922)

13.4 Sardegna: Le Gianas e le signore di Donnigazza (Bottiglioni, 1922)

13.5 Sardegna: La grotta dei cattivi (Bottiglioni, 1922)

13.6 Sardegna La grotta dello spavento (Bottiglioni, 1922)

 

1. FRIULI

L'assedio di S. Giovanni d'Antro

tratto da V. Ostermann (1890)

 

Quando gli Slavi cercavano di occupare il Friuli, la regina di Cividale si riparò nella grotta di S. Giovanni d'Antro ed i suoi soldati si accamparono nella villa di Biacis. Era da tanto tempo che venivano assediati, ed ormai la regina aveva finito tutti i viveri, per cui avrebbe dovuto arrendersi per la fame. Che cosa pensò allora? fattasi sull'imbocco della grotta con l'ultimo sacco di frumento che le rimaneva, lo buttò giù agli slavi che erano sotto dicendo: "Tanti sono i grani di frumento che vi buttiamo, e tanti sono i sacchi che noi abbiamo ancora! State pure ad assediarci, noi non ci arrenderemo mai per la fame."

Allora i capi, tenuto consiglio, decisero di abbandonare l'impresa, perchè il loro assedio srebbe andato troppo per le lunghe. La regina, per ringraziare iddio di averla liberata, donò certe campagne alla chiesa di Ponteacco, là dove erano accampati gli Slavi, con l'obbligo di distribuire, la vigilia dell'Epifania, a tutte le famiglie del paese due pani e due boccali di vino, ed al sagrestano cinque boccali; ed il giorno di S. Marco, ad ognuno di quelli che portavano la croce nella processione, un uovo, un pane, una tazza di vino e due centesimi, e quest'usanza mi hanno detto che dura ancora. La regina donò poi ad una famiglia del paese il filatoio, la rocca, ed il fuso d'oro che aveva adoperato. Nella Grotta di S. Giovanni si vedono ancora i buchi dove i soldati macinavano il frumento, ed il forno dove cucinavano il pane.

 

Buse di Pasche

trattada G. Baldissera (1895)

 

Un'antica leggenda dice che colà era stata trasportata miracolosamente una giovane sposa, di notte, durante i primi giorni del suo matrimonio, la quale malgrado li sforzi che facesse, sia per ritornare presso il disperatissimo marito, sia per fargli un cenno almeno del luogo ove si trovava, non era mai potuta riuscire a nulla, talmente gli spiriti la obbligavano all'immobilità. Il caso volle che uno dei congiunti, ispirato da una voce interna, si dirigesse a rintracciarla appunto da quelle parti; e così egli potè rinvenire la misera, dopo parecchie ore di trepidazione, la dentro, che stava seduta sopra un macigno tutta scarmigliata ed ansante, come se avesse sostenuto fino a quel momento una lotta accanita. Questa donna isterica, o sonnabula che fosse, vuole la fantasia popolare che si chiamasse Pasqua, donde il nome della grotta.

 

 

2. VENETO

 

Il Buso dei Ladri del monte Cinto

raccolta da Ireneo Sellida

 

Il sole si sporge al mattino a sbirciare dalla sella del monte Cinto, e dopo avergli accarezzato il mantello di castagni spelacchiato qua e là, per indugiare fra le sue falde estreme cariche d'uva, inonda la valle odorante di messe. Sotto i suoi raggi il canale è tutto uno scintillio, e le strade si snodano come nastri grigi, arterie pulsanti di vita, fra la buona terra pezzata di diversi colori, in serena pace.

Tuttavia non sempre le strade furono sicure come ora. Ci fu un tempo in cui uno, prima d'avventurarvisi, faceva testamento e poi si segnava tre volte. Quel groppo di sassi, a tre quarti del monte Cinto, era un covo di ladri; di là una caverna profondissima conduceva dall'altra parte del monte, dove una volta, tanti tanti anni fa, fu adorato il dio Silvano.

I ladri nella caverna tenevano le loro provviste, fra le quali non mancavano quelle per uccidere; poichè uccidere era il loro mestiere. Nelle notti buie salivano in vetta alle rovine, dapprima abitazione dei Romani, sulle quali poi gli Scaligeri fabbricarono un castello, distrutto da Ezzelino da Romano, figlio del diavolo in forma di cane.

Sulla spianata del monte si vedono ancora le buche dove i marioli fabbricavano la polvere. S'erano ferrati le scarpe con chiodi abbandonati dai soldati di Ezzelino, e lesti come caprioli, giù per quel canalone si precipitavano al piano, per calare sui malcapitati viandanti; e non solo di notte, ma anche di pieno giorno.

Nessuno più era sicuro. I paesani per vivere tranquilli e veder riposare in sicurtà le loro creature nelle culle, non trovarono di meglio che tener terzo ai furfanti. Questa convenuta tacita rete di silenzio - protezione dei deboli - durava da molti anni.

Il governo di allora, per sradicare la mala pianta, non trovò altro mezzo che ricorrere a estremi rimedi e radicali, com'era suo costume, e questa volta giustificato.

Nel 1848 Radetzky istituì il giudizio statario; si fecero delle battute e ne furono presi tanti .... Perchè non solo qui, ma i ladri abitavano tutto il paese, nè si sapeva mai se ci s'incontrava con un galantuomo o con un brigante.

Le cose andarono avanti. Il dottor Munaretto di Este aveva al suo servizio un cocchiere del quale non poteva che lodarsi. Un giorno ch'egli doveva per certa sua visita recarsi a Vescovana, la sua timonella fu assalita da tre banditi, e il povero dottore avrebbe passato un brutto quarto d'ora se il cocchiere, ch'era poi a capo della banda, non avesse detto: "Quieti ragazzi, lasciate stare il dottore!"

Come cani frustrati se ne partirono; ma il dottore che s'era sentito già morto comprese che l'aveva scapolata bella per merito del capo dei briganti, il quale si voltò e disse: "Niente paura, paron. Mi prometta che non parlerà con anima viva prima di tre giorni, e io lascerò la sua casa. Le voglio bene e nessuno deve toccarla!"

Il povero dottore avrebbe avuto più bisogno lui del medico che i suoi clienti, e si può immaginare se serbò il silenzio! ... Dicevano anzi che si mise a letto e non volle vedere alcuno, non solo per tre giorni, ma per una settimana.

Intanto s'era fatta, come dissi, una grande battuta e il cocchiere se l'era svignata, lasciando un vuoto grande e una più grande paura.

Sfuggito ai briganti, il dottore Munaretto ebbe parecchie noie dai gendarmi che, risaputa la cosa, non si sa come, lo accusarono di connivenza coi rei. E ce ne volle per provare la sua innocenza!

Fra i briganti e i gendarmi s'iniziò una lotta terribile, che finì con lo sterminio il 15 marzo 1865: cento impiccati sulla piazza d'Este! Questa l'ultima retata ...

Ma erano proprio tutti morti? E il cocchiere?

Forse, per quell'atto di buon cuore, Dio lo risparmiò. Era uno di quelli che abitavano il Buso dei Ladri. Rami e cespugli nascondevano l'entrata e la nascondono anche adesso, e lui vi si ficcò in mezzo.

Dicono che avesse una moglie alla quale voleva un gran bene. Anche i briganti hanno il loro lato buono. Questa visse con lui nella caverna quel tanto che bastò per convertirlo... L'amore, unito a tutti quei colleghi penzoloni là di Este, gli fece cambiar vita. A poco per volta divenne la provvidenza di questi luoghi, e i chiodi del figlio del diavolo lo portarono giù dal costone per opere di bene. Curava gli infermi, aiutava le vedove e gli orfani nel lavoro del campicello, e soprattutto pregava.

Nelle notti lunari lo si vedeva sulla cima del sasso con le braccia in croce, così grande da non parer più lui. Qualche volta si scorgeva l'abbassarsi di un'ala bianca, come l'afflosciare di una grande camicia o di una nuvola che svanisse.

Fatto sta che l'uomo oramai era diventato buono, più buono di tutti gli altri abitanti della valle. S'era fatto vecchio vecchio, con una barba bianca, serica. Molte volte le donne gliene chiedevano qualche pelo per tesserlo con la canapa, e la tela diventava una meraviglia! E la barba cresceva sempre più!

Ora bisogna sapere che all'epoca in cui ognuno ficcava il naso in casa nostra, gli Spagnoli erano stati costretti a deporre e sepellire i tesori rubacchiati qua e là, a mezza costa del monte di Lozzo, quello di fronte al Cinto. Da allora molti avevano sterrato inutilmente.

Per fortuna del monte Lozzo, soltanto il Venerdì e il Sabato Santo si rompe l'incantesimo, e il tesoro si può trovare. Ma come si fa in sole due notti dell'anno a mettere le mani sul punto giusto? Ci vorrebbe un Santo che lo dicesse! Un Santo? E' presto fatto. Corse la voce che il romito del Buso dei Ladri, fosse il santo adatto, e così parecchi, all'insaputa l'uno dell'altro, salirono al monte, tanto che l'antico brigante pareva un ministro.

Da prima egli si schernì, dicendo che non sapeva nulla. Ma poi, insistendo uno più scaltro degli altri, riuscì a cavargli la promessa che avrebbe pregato ...

Il santo rimase solo pochi giorni, e si pentì felice! ... In quei tre giorni pregò tanto da aprire i cieli... Una voce scese e gli domandò se era certo di fare la felicità del prossimo rivelando il posto del tesoro... del quale, manco a dirlo, un po' perchè era stato brigante, e un po' perchè al momento presente era santo, conosceva benissimo il nascondiglio.

Dopo tre giorni, invece del più furbo, si trovò a ricevere tutti... Come s'era sparsa la voce dei tre giorni di preghiera? Nulla di quello che è pronunciato anche a bassa voce resta secreto; un pensiero espresso diviene materia.

Il povero eremita deciso a non rivelare nulla, proprio per il bene dell'umanità, disse che l'oro non fa felici, che il più grande tesoro consiste nella bontà, che ognuno di noi può possedere, e nella preghiera; che anche a lui, peccatore, Dio aveva dato la pace, e si trovava contento. Ma la gente non voleva intendere la predica, e se la porta del Buso dei Ladri non fosse stata aperta il novello santo sarebbe finito lapidato come Santo Stefano.

Ebbero un bell'inseguirlo nella caverna: i più ardimentosi dopo pochi passi, caddero fra le pietre guaendo come cani, e fu l'eremita che li rimise alla luce.

Ma l'uomo quando si tratta di denari non ha tregua e non la lascia. Perciò al povero ex brigante furono concessi altri tre giorni di preghiera perchè pensasse ai casi suoi. Dopo i quali, eccolteli di nuovo accaniti...

Stavolta l'eremita disse che avrebbe rivelato il segreto. Difatti, con particolari precisi, indicò il tesoro, nascosto sopra la 'priara' nel terreno vicino al ciliegio. Nessuno voleva saper di più, e in un batter d'occhio egli non vide che suole di scarpe...

"Ehi, amici, sentite, voltatevi , se volete proprio trovarlo!" All'ultima parola riapparvero le facce... "Dovete aspettare il Sabato Santo, far tre giorni di digiuno, esser puri e spartitevi il tesoro senza baruffe, se no il denaro si cambierà in carboni".

Tutti si guardarono esterefatti: al Sabato Santo mancavano tre settimane, e tutti si diedero alla più grande devozione. Invece di tre giorni digiunarono tre settimane, da sembrare cavallette del desertio. Poi con grande scrupolo si rimiravano l'anima per scoprire s'era pura.

Venuta la notte dal Venerdì al Sabato Santo in processione, salmodiando, perchè nessuno poteva scavare all'insaputa degli altri, salirono alla 'priara' muniti di cinque badili con le pale sipatico-calamitate. Il parroco segnò un circolo, dov'essi gettarono le pale e poi s'incominciò a scavare. Fecero una capacissima buca: sassi, e nulla più.

Incominciavano a rumoreggiare contro il santo, quando, all'urto di un piccone, si sentì un tintinnio metallico... Sbiancati in volto e guardandosi l'un l'altro, scavarono alacremente. "Piano, dicevano, che non rompiamo la pignatta!"... Difatti poco dopo apparve un manico e subito un coperchio.

Una pazza gioia s'impossessò di tutti, quando scorsero non una pignatta ma una marmitta così grande, così grande che per quanti sforzi facessero, non riuscirono a tirarla fuori.

E' piena d'oro, pensarono, come pesa!

Allora guardandosi un po' in cagnesco, fecero la proposta di scoperchiarla e divider lì tutto. diversi erano i pareri. Le donne dicevano ch'era meglio andar giù per i buoi, e fatto un argano metterli sotto tiro.

E tira e molla, poichè anche il parroco del paese era di quest'avviso (forse pensando allo scompiglio che sarebbe successo alla vista dell'oro là sul pendio), si decise d'andare per i buoi.

Si liberò il pentolone dalla terra circostante, si costruì una specie d'argano, vi si passò una corda, e i buoi tira, tira!

Finalmente Dio volle, sollevarono il pentolone e, come avessero dissotterrato un amico, da morte a vita, lo portarono giù sulla piazza del paese.

Qui il parroco fece un po' d'ordine, e si scoprì il pentolone. Il coperchio aprendosi fece ciach con tanta veemenza che alcuni coraggiosi, credendo che fosse scoppiato, se la dettero a gambe... Invece fu un sbalzare di monete d'oro, verdi dal tempo, di lingotti d'oro verdi anche quelli.

Tutti accorrevano come assetati ad una fonte.

"Pazienza, figliuoli, facciamo le cose per benino, badava dire il parroco, sapete che se no tutto si tramuta in carbone!"

A questo monito i valligiani diventarono altrettanti santi.

Il parroco cominciò a contare facendo la distribuzione, interrompendo il conteggio per dire "Dio vi vede", e con quest'ammonimento le cose procedettero abbastanza bene. Malgrado ciò, delle spinte ce ne furono parecchie, ed una povera vecchierella tutta in pianto riuscì solo assai tardi ad avere poche monete. Si fecero falò di gioia, si bruciarono fascine, fieno, tutto quello che si riusciva a trovare.

Le prime luci dell'alba trovarono ancora parecchi là che, dopo la penitenza, si sdigiunavano abbondantemente nelle osterie, bevendo ancor più. Vi furono anche delle risse, perchè ognuno pretendeva d'essere stato defraudato.

Il giorno seguente non si vide un'anima in paese. Tutti smaltivano la sbornia nei rispettivi letti, e soltanto verso sera la vite ebbe una ripresa. Si videro certe facce lunghe, patibolari da far pensare alle anime dei briganti impiccati. Tutti andavano per i fatti loro.

Come per incanto si trovarono alla porta del Buso dei Ladri con tanti fagottini in mano, chiamando ad alta voce l'eremita. Buono come era, accorse ai richiami. Quasi si trattasse di confessarsi, ognuno voleva parlargli in segreto.

Egli ascoltò pazientemente uno alla volta. E uno alla volta uscivano dallla bocca della caverna con un viso sconsolato

Vedendo l'eremita che non gli sarebbe bastata la notte, ebbe un'idea luminosa. Si pose sul punto più alto delle rocce, e con voce sonora e ferma arringò tutti:

"Vi avevo ingiunto di digiunare e di conservarvi puri, se no il tesoro si sarebbe mutato in carboni. Voi avete fatto tutto ciò fino allo scoprimento del tesoro. Poi vi siete rimpinzati trasmodando, per rincasare tutti ubriachi fradici. C'è stato chi ha cercato di portar via il tesoro agli altri. Così esso s'è tramutato in carboni. E vi meravigliate? Fra voi manca la Gigia, la povera vecchietta che visse e vive pura col cuore distaccato dai beni terreni. A lei, voi avete conteso il denaro. Ora andate a vedere se il poco che le avete concesso è ancora oro sonante. Non toccate però nè lei nè il suo oro, rimarreste inceneriti."

Tutti giù a rompicollo, con la rabbia nel cuore. La Gigia, acceso il suo lumicino, stava per andare a letto, quando capitò la staffetta di quell'esercito di energumeni.

"Dite un po', Gigia, che cosa ne farete dell'oro avuto?"

"Io? Una parte alla Madonna, un'altra ai più poveri di me, e una terza parte me la terrò per i miei bisogni. Un po' di cibo migliore" ...

"Ma lo avete guardato oggi?"

"Se l'ho guardato? altro! la Madonna ha già avuto la sua parte; il resto e lì bello e sonante che aspetta i poveri e me!"

"Buona notte, nonna Gigia, buona notte" e tutti se ne partirono scornati.

Il male fu che la Gigia, l'unica che poteva conservarlo, ne avesse così poco! In questo modo sfumò il tesoro degli Spagnoli.

Dopo qualche tempo l'eremita, carico di anni, e a quel che pare anche di meriti, fu trovato morto sul limitare della porta del buso dei Ladri. Un albero fiorì a quel posto, un mandorlo. Ed è il primo che s'imbianca ogni primavera (Sellida, 1941).

 

 

Il trombettiere della Spaluga

raccolta da Eugenio Candiago

 

In località San Giacomo di Lusiana si trova una spelonca che tutti conoscono per la "spaluga" e intorno alla quale vi sono storie e leggende misteriose. Essa apre la sua paurosa bocca sul fianco della strada che porta a Lusiana, ma non si sa dove abbiano fine le sotterranee, buie caverne.

La storia, tessuta poi di leggenda, si riferisce all'anno 1918, precisamente al giorno in cui venne dato ordine a tutti i combattenti di cessare il fuoco, perchè la guerra era stata vinta dal nostro esercito ed il nemico aveva chiesto di trattare le condizioni per un immediato armistizio.

Tre giovani reclute di artiglieria da montagna che avevano avuto, come si suol dire, il "battesimo di fuoco" sul monte Caberlaba, sentito l'ordine di sospendere le azioni di guerra, decisero di scendere al vicino paese di Lusiana dove avevano conosciuto tre sorelle vivavndiere che vivevano in una locanda fra Breganze e Salcedo e salivano fino alle prime linee per portare ai combattenti viveri e generi di conforto.

Le ragazze sarebbero andate loro incontro e tutti e sei si avrebbero trascorso qualche ora in spensierata compagnia. Ormai la guerra era finita e non c'era da temere qualche imboscata.

I giovani si incontravano in paese da diverso tempo e, al momento di lasciarsi, uno dei tre artiglieri, che era trombettiere, cavava fuori lo strumento che teneva sempre con sè e, a titolo di commiato, suonava il "silenzio fuori ordinanaza" con variazioni e "ricami".

Così anche per quell'occasione il trombettiere portò la cornetta e partì assieme ai due amici con uno sgangherato camion frusto che aveva "fatto" tutta la guerra e che uno di essi aveva assicurato di saper guidare. La strada dall'avanposto a San Giacomo di Lusiana era stratta e tortuosa, ma come accadesse la disgrazianon si sa precisamente: inuna curva ripida e scoscesa che presenta sull'ansa la bocca della leggendaria "spaluga" il traballante autocarro slittò e fu inghiottito dalla voragine.

I tre artiglieri per un prodigio non rimasero schiacciati dalle ferraglie del camion che si sfasciava sopra di loro, rimasti illesi, si trovavano imprigionati nell'antro senza poter trovare una via d'uscita. Essi scorgevano la luna sul crestale frastagliato di conifere del monte Mazzè che sta dirimpetto al pertugio.

Per tre giorni e tre notti il trombettiere aveva dato fiato alla sua cornetta per farsi notare. Il "silenzio fuori ordinanza" usciva sempre più debole e fioco dallo strumento, finchè qualche passante lo avvertì e diede l'allarme.

Accorse gente e all'imboccatura della caverna si precipitarono anche le tre ragazze, ma dal pertugio non saliva più segno di vita. Anche il trombettiere, che aveva resistito più a lungo, fu trovato morto quando coraggiosi esploratori poterono penetrare nell'antro e scoprire, in fondo ad un irragiungibile abisso, i corpi dei tre artiglieri.

Lodoletta, che era la fidanzata del trombettiere, non si rassegnò come le altre sue sorelle. Per giorni, per mesi e per anni ella ritornava alla "spaluga" dove credeva di sentire ancora il fioco suono della tromba che ripeteva il silenzio fuori ordinanza. E i montanari di Lusiana dicono che ancora oggi chi passa di là nelle notti di luna ha l'impressione che il vento gli riporti quel suono che per tanto tempo confortò la sventurata fanciulla.

 

Il Buso di Semblen

raccolta da Aristide Baragiola (1893)

 

Una volta tre o quattro pastorelle si fermarono vicino al Buso di Semblen a far pascolare le loro pecore. A un certo punto queste ragazze si chiesero come fare per vedere quanto era profonda la voragine. Le ragazze avevano una corda per ciascuna e la più vecchia pensò di unirle tutte insieme attaccando all'estremità un sasso da calare sul fondo dell'abisso. Quando il sasso arrivò in fondo pensarono di gettare anche tre medagliette benedette raffiguranti la Madonna e S. Antonio. Ma non appena le ebbero gettate venne su un grosso cane, con grandi occhi aperti e una lingua lunga, che chiese loro infastidito cosa avevano intenzione di fare in quel luogo. Ma quella apparizione improvvisa spaventò a morte le ragazze che subito fuggirono piangendo.

Poco lontano da loro c'era un pastore che, sentiti i pianti delle fanciulle, scese a vedere cosa era successo. Le ragazze fra i singhiozzi raccontarono della terribile apparizione ma non seppero indicare dove il cane fosse andato; così il pastore scese al Buco di Semblen e qui vide il cane fuggire giù per la voragine avvolto fra le fiamme. Per nulla intimidito il pastore, con altri quattro compagni, ritornò il giorno dopo alla voragine per chiarire dove fosse scomparso il misterioso animale. Due giovani salirono su una cesta e gli altri tre iniziarono a calarli con una fune dentro la paurosa voragine. Ma quando la cesta raggiunse il fondo i due gridarono spaventati di essere nuovamente issati, e giunti all'imboccatura della voragine erano quasi morti di paura perchè avevano visto la sotto un gruppo di scrivani e giurarono che non sarebbero mai più scesi nelle voragini dell'altopiano. Quando poi sono andati a confessarsi raccontando quanto era successo il prete, convinto che avevano sfidato il demonio, non aveva voluto neanche assolverli.

 

3. TRENTINO ALTO-ADIGE

 

Il Buco del Danaro (Luserna)

raccolta da Josef Bacher

 

Sopra l'abitato di Luserna si stendono i boschi del comune di Lavarone e là c'è un tratto di bosco che si chiama Khlapf e in mezzo ad esso una caverna che si chiama "Buco del Danaro". Molti anni fa capitarono dei maghi in piazza di Venezia a parlare con la gente e dissero che ogni volta che arrivava una guerra i ricchi nascondevano il loro danaro sotto terra e fuggivano dal paese e se non venivano uccisi dai soldati, se potevano tornare al loro paese, lo ritrovavano; ma se invece se non avevano più la fortuna di ritornare, il danaro andava al diavolo e il diavolo, passati cento anni, lo esponeva al sole ad asciugare. Però non lascia capire che si tratta di danaro, lo mostra una volta sotto forma di una cesta di insalata, una volta come un mucchio di trucioli, o anche come un albero coperto di fiori. Chi si trova sul posto e raccoglie e porta via ciò che il diavolo mette in mostra questi avrà il danaro ivi nascosto.

Gli stessi maghi raccontarono che c'è un buco in un bosco di Lavarone sopra Luserna nel quale è sepolta una quantità di danaro e il 15 e 16 di luglio il diavolo lo espone al sole ad asciugare. Nelle piazze di Venezia c'era molta gente che ascoltava e c'erano anche due uomini che andavano tutti gli anni col bestiame alla malga Millegrobe. Essi sentirono le parole e subito capirono dove si trovava quel buco e poi nell'estate, vennero su in malga e il 15 e il 16 di luglio restarono a guardare il buco per tutto il giorno. Al 16 sera ci fu un uragano con lampi, tuoni, grandine, vento e pioggia da far paura... ed essi là di guardia. Alla fine salì alla bocca della cavità una cesta piena d'insalata, la pigliarono e... via. Non andarono nemmeno alle casare, abbandonarono il bestiame e la roba che avevano là, per correre a casa con la cesta e, giunti a casa, quella cesta d'insalata si trasformò in danaro, tanto danaro che ne ebbero a sufficienza per sè e ne lasciarono poi un mucchio in eredità ai figliuoli. Per questo fatto quella caverna che si chiamava "Buco del Khlapf" si chiama ora buco del danaro.

Una volta tre ragazze e un giovane salirono alle Millegrobe in cerca di radicchi il ragazzo era Paolo Paolaz, le ragazze erano Mariella Draizner, Orsola Zètt e Teresina Mantc. Quando arrivarono alla pozza della Pontara o dello Sbant, come preferite dire, si divisero. Paolo e Orsola si diressero verso lo Sbant le altre due ragazze verso gli Schrotten. Piano piano cominciò una tiepida pioggerella primaverile e le due ragazze si ripararono sotto un albero. All'improvvisso udirono un forte tuono e subito scorsero non lontano un brutto buco che non avevano notato prima. Andarono a vedere di che cosa si trattasse. In quel momento udirono uno schianto e in fondo alla cavità videro una bella cesta nuova piena di insalata. Guardarono qua e là di dove potessero scendere a prendere la cesta, ma scendere non era possibile. Allora andarono a rintracciare gli altri due e li trovarono sullo Sbant. Le ragazze raccontarono ciò che avevano visto e udito e tutti insieme tornarono sul posto per vedere come arrivare a prendere la cesta di insalata. Arrivarono agli Schrotten, cercarono di qua e di là, ma la cesta d'insalata non c'era più. Alla fine se ne tornarono a casa e raccontarono tutto ai famigliari. Un vecchio intese il discorso e disse che là sotto c'era il danaro del diavolo e che in quel giorno il diavolo lo aveva esposto alla luce del sole per asciugarlo e se le due ragazze avessero preso la cesta prima di allontanarsi dal luogo avrebbero avuto il danaro per loro, ma oramai se lo era ripreso il diavolo.

 

La ragazza condannata nella caverna (Luserna)

raccolta da Josef Bacher (1905)

 

Tanti anni fa c'era una ragazza giù dai Paolaz così bella che molti giovani l'avrebbero voluta come moglie; ma ella non voleva saperne di sposarsi e per questo motivo aveva sempre respinti tutti.

Un giorno si trovò sola in casa, intenta a rammendare. A un certo punto si trovò alla porta un giovane che la salutò. Ella lo guardò e vide che era proprio un bel ragazzo, ricambiò il saluto e lo invitò a sedere. Il giovane si sedette ed iniziò a parlare e parlò così bene da far nascere simpatia nella ragazza. Da quel giorno in poi il giovane andò molte volte a farle visita e lei lo vide ogni volta più volentieri fino ad affezzionarglisi.

Un sera in occasione di una visita egli capì che la ragazza gli voleva bene e volle domandarle se ciò era vero e se avrebbe accettato di sposarlo: ella ne fu molto contenta e gli rispose di sì. Allora il ragazzo si tolse dal dito un bell'anello, glielo presentò, ed ella lo prese, se lo infilò e promise che lo avrebbe tenuto sempre su quel dito fino alla fine della sua vita. Poco tempo dopo però il giovane si ammalò e morì.

La poveretta, quando vide che il suo innamorato era morto, ne fu profondamente addolorata. Ma un paio d'anni più avanti cominciò a scacciare quella sua tristezza ed infine si tolse l'anello e lo nascose in un armadio dicendo fra se: "Bene, se quel mio fidanzato è morto, ora voglio cercarmene un altro" ... e così fece.

Andò a ballare e, dovunque ci fosse dell'allegria, là si trovava sempre anche lei, e i giovani tornarono a farle la corte. Ma si ammalò e morì senza essersi rimessa al dito l'anello che gli aveva dato il fidanzato. Per questo motivo non potè andare in paradiso e fu condannata a restare nella valle di Jau, in mezzo a un gran bosco.

Molti molti anni dopo un ragazzo della famiglia Canèr arrivò in quel bosco cacciando selvaggina. Aveva girato quasi un giorno intero senza aver trovato niente ed era andato sempre più avanti nel bosco finchè giunse ad una caverna. Dentro alla caverna vide una ragazza bellissima. Si spaventò a quella vista e fece qualche passo indietro, ma la ragazza lo supplicò: "Mio caro, non aver paura di me, io non ti faccio niente di male, perchè è il Signore Iddio che ti manda" Allora le si avvicinò, la osservò e vide che era così bella, che più bella non aveva visto creatura al mondo; quanto più la guardava, tanto più bella le sembrava.

La ragazza ricominciò a parlare e disse: "Adesso, mio caro, sono già cento anni che ho passati qua ad aspettare che venga uno a liberarmi. Io mi trovo tra il paradiso e l'inferno e, se tu sei capace di fare ciò che ti dico, andrò dritta in paradiso; ma se tu non sei capace di fare tutto come deve essere fatto, allora devo andare all'inferno per sempre" ... e cominciò a piangere disperatamente.

Quando il giovane sentì questo fu preso da compassione per la ragazza e giurò davanti al Signore Iddio e a tutti i santi che era disposto a fare tutto ciò che diceva e la pregò subito di dirgli che cosa dovesse fare. Ella allora disse: "Bene, torna in paese e scendi alla casa dei Paolàz, va su nella camera che fu mia finchè vissi, apri l'armadio grande: là troverai una piccola scatola e dentro ci saranno tre anelli. Prendi quello che ha incise sopra le due lettere, legalo a una lunga asta e poi torna nel bosco. Quando ti vedrò arrivare, ti verrò incontro; però non verrò così come sono adesso, verrò nelle forme di uno spaventoso serpente. Tu non spaventarti e non aver paura di me: allungami solo l'asta ma senza arretrare perchè io possa arrivare a leccare l'anello così tornerò ad essere una bella ragazza e potrò andare in paradiso mentre tu avrai sempre fortuna finchè vivrai. Ma se io non arriverò a leccare l'anello, resterò per sempre serpente e dovrò andarmene all'inferno".

Il giovane le promise ancora che avrebe fatto tutto ciò che doveva essere fatto; poi si mise in cammino e rientrò in paese. Giuntovi, salì nella camera della ragazza, aprì l'armadio, prese la scatola e vi tose l'anello con le iniziali, poi tornò verso il bosco, tagliò una lunga bacchetta di nocciolo e vi infilò l'anello, quindi proseguì nel bosco fino a che giunse presso la caverna. Piano piano si vide venire incontro un orribile serpente, tanto grande da far paura. E il giovane si spaventò veramente, ma gli tornò a mente ciò che gli aveva detto la ragazza e andò avanti deciso. Quando fu abbastanza vicino al serpente, allungò l'asta con l'anello. All'improvviso però il giovane fu preso da un gran tremito dalla testa ai piedi e fece tre passi indietro. Il serpente lo seguì tentando sempre di leccare l'anello, ma senza arrivarci, perchè il ragazzo aveva fatto altri tre passi indietro. Tre volte il serpente provò e mai vi riuscì, allora sputò fuoco, gemette e sibilò rabbioso poi scomparve dalla vista del giovane. Questi tornò a casa, ma restò sempre triste finchè visse.

 

 

Grimm il gigante degli Oclini

 

Si racconta che Grimm, il gigante degli Oclini, con un balzo potesse attraversare l'immesa palude che va dall'antica città di Nisselburg, oggi Ora, fino al Monte di Mezzo. Nelle grotte di questo monte viveva un drago terribile che faceva strage di uomini e di animali. Grimm era buono e i contadini pensarono di chiedere il suo aiuto per liberarsi del terribile drago.

Grimm pensò di favorirli mentre si preparava la mosa la mattina un impasto di farina e latte cotto in una pentola da gigante, pensò che il drago in fondo non era che un biscio e ai bisci piace il latte. Così fece un'altra pentola di mosa, che la sua se l'era già mangiata mentre pensava, ci aggiunse pece, segature, erbe che fanno dormire e con questa pappasi avvicinò alla grotta del drago. Il drago russava e Grimm si nascose dietro ad una roccia. Verso sera il drago strisciò fino al pentolone. Subito cominciò ad urlare e a sputar fuoco. Grimm gli fu subito addosso e con alcuni colpi di clava ben assestati lo finì. Poi trascinò la mala bestia fino giù in valle che i contadini la potessero vedere. A ricordo di questa impresa rimane la valle tutta brulla che Grimm scavò portandosi dietro il drago morto. Queta valle sia chiama ancora Vallarsa.

 

4. EMILIA-ROMAGNA

 

La leggenda di Re Tiberio

tratto da Pietro Scotti (1963)

 

L'imperatore romano, ossessionato da una profezia secondo cui avrebbe trovato la morte a causa di un fulmine, cercò rifugio in questa grotta, proponendosi di non uscirne mai più. Senonchè, dopo vario tempo, assicurato da una schiava che il cielo era sereno l'imperatore arrischiò di affacciarsi all'aperto, ma improvvisamente dal cielo azzurro e sereno scaturì una folgore che gli diede la morte.

 

5. LOMBARDIA

 

La Buca dei Pagani

tratto da Gian Battista Marchesi (1897) e Lidia Beduschi (1984)

 

Nel bosco sopra Vilmaggiore, mostrano ancora una grotta chiamata ancora la Busa di pagà (la buca dei pagani). Una volta una moglie cattiva venne gettata e rinchiusa dal marito in quell'antro. Essa rimase là molto tempo, non vista dai pagani. Di giorno, mentre quelli dormivano, si cibava con quello che trovava nella grotta, portatovi da quei ladroni; poi preparava loro la polenta e, prima che essi si destassero, si nascondeva in un angolo oscuro. Così essi per molto tempo, pur accorgendosi che qualcuno entrava in casa loro, non riuscivano a vederla; ma un giorno la scoprirono e la costrinsero a dure fatiche. Finalmente essa si pentì della triste vita passata, e Dio fece in modo che riuscisse a fuggire e a ritornare presso suo marito.

E narrano ancora che la grotta una volta era lunghissima e andava a finire fin sotto la chiesa di S. Lucia, nel paese. I pagani stavano là rinchiusi tutto il giorno, e di notte entravano in chiesa a rubare gli ori e le candele dell'altare. Perciò si è sempre creduto che dentro la grottafossero raccolti immensi tesori. E la credulità giunse a tal punto che, anche dietro l'assicurazione di una certa fattucchiera morta non è molto a Schilpario, alcuni arditi giovanotti, circa trent'anni orsono, entrarono nella spelonca. Delusione: non trovarono che foglie secche. Fu un grande avvenimento quello per il paese; incominciato tra la paura e la speranza, finito tra le risa e le beffe ai poveri ricercatori del tesoro. Ora, nessuno più crede che nella grotta si nascondano tesori; o piuttosto le donnette pensano che vi siano stati veramente una volta, al tempo dei pagani, ma che poi li abbia rapiti il diavolo. E la buca è detta oggi anche la Busa del Diaol (la buca del diavolo).

 

Beduschi L. (1984) Leggende e racconti popolari della Lombardia, pp. 313, Newton Compton ed., Roma.

Marchesi G. B. (1897) Costumi e tradizioni della Val di Scalve, Archivio per lo studio delle Tradizioni popolari, XVI: 335-336, Palermo.

 

6. PIEMONTE

 

6. LIGURIA

La Grotta del Drago (Capo Corvo, foce del Magra)

tratto da

 

Adunque vicino a questa (Luni) un miglio vasta, ed orribile spelonca contigua al mare, situata alle radici del Monte che Marcello si chiama e da due marinari Corvo, dava albergo ad un fiero ed orribile Dragone (permesso spesso Dio tal forte di mostri, come ai tempi di S. Siro in Genova, di S. Ilario in Dalmazia, di Santa Marta in Francia per di qui magnificare i suoi servi). Questo per la starge, che ogni giorno faceva d'uomini e di giumenti e di gregge intere per il pestifero fiato con cui infettava le erbe e le piante stesse, aveva reso quelle campagne una solitudine e cagionato all'afflitta città in tempo di pace miserabile assedio e penuria di tutte le cose. Anzi che era giunto a tale il suo lacrimevole stato, che nemmeno godeva le comodità che altre volte gli arrecava il mare, poi che mancando al Dragone il pascolo in Terra, per la cura che ogni uno s'aveva quando navi vedeva ivi vicino viaggiare, tante ne assaliva, e dalla strage di Marinai e passeggeri, crudelmente da esso divorati, le lasciava miseramente contaminate.

Non giovarono per lungo tempo nè forze, nè insidio contro nemico sì feroce, poichè essendo velocissimo, mostruoso, coperto di dura spoglia, armato di veleno, di qualunque umana forza riusciva superiore; perlocchè era gran vittoria ancora ai più animosi il potersi con la fuga alle furie di esso sottrarre.

L'infelice città in tanta miseria ricorse alla comune salute di tutti quei contorni, Venerio, e lui a Dio: il quale dopo aver con digiuni e preci per tre continui giorni disposto il Popolo a ricevere gratia del Cielo, accompagnato da Lucio Vescovo, dall'Arcidiacono e da molto popolo, che si reputava sicuro, avendo per scudo il santo; s'inviò alla grotta, e perchè Dio voleva che beneficio sì segnalato restasse scolpito nella memoria della posterità, fece che nello scoglio dove, sbarcando il Santo posò i piedi, restassero come in cera molle, in nieve impresse le di lui pedate. Il quale miracolo fu presagio d'altro maggiore. Poichè trovando Venerio il Dragone prima audacissimo assalitor di chi si sia, quel timido coniglio inoltrato nella grotta, gli comandò in nome dell'Augustissima Trinità che si partisse; ed esso, o cosa miserabile, con gran strepito sminuzzato un gran sasso ed esalando fetore, con precipitoso sbalzo s'attuffò nel mare e mai più ricomparve.

 

 

7. TOSCANA

La Buca delle Fate a Catenaia

tratto da G. F. Gamurrini (1894)

 

Raccontano i montanari di Catenaia del Casentino questa leggenda. In un luogo alto della montagna, chiamato Cardeto, v'è una grotta, abitazione di antiche fate. Una di loro s'innamorò di un giovane bifolco, che con i suoi buoi lavorava il campo vicino alla grotta. Parimente il giovane faceva con lei all'amore; e la fata per tre giorni diveniva una bella fanciulla e per altri tre un grosso serpente. Allorquando egli faceva un solco, essa da serpente gli teneva dietro e strisciava su quello, non lasciandolo mai.

Ora accadde, che dovette un giorno il giovane dipartirsi da casa, e lasciare l'aratro in mano del fratello, facendolo avvertito: che se mai vedesse venire un grosso serpe dietro al nuovo solco vicino a lui, non ne prendesse timore o meraviglia, che quella era una sua innocua costumanza, e soprattutto molto gli raccomandò che non li desse molestia. In sulle prime, il fratello lasciò che il serpente venisse dietro il lavorato, ma alla fine, o fosse per mal talento, o che poco si curasse dell'avviso avuto, andò per dare al aserpente un colpo mortale. Quello fuggì e disparve. Ma ben presto se ne vide la conseguenza, che la sdegnata fata mandò in malora quella famiglia, e ne morirono tutti, e la casa fu sempre deserta, ed ora colle sue rovine attesta alle credule pastorelle tanto infortunio.

 

MARCHE

 

La Grotta della Sibilla

raccolta da Giuseppe Di Modugno da un pastore del Vissano

 

Tanti e tanti anni fa all'interno del M.Corona c'era un'immensa caverna, di cui oggi non resta che il misero ingresso alla sommità del monte. Lì dentro, in una grande reggia tutta d'oro, viveva la Sibilla con le sue fate. La Sibilla era bellissima e sapeva ogni cosa accaduta nel passato o nel futuro tanto che erano molti quelli che si recavano da lei per chiedere consiglio. Ma non solo il popolo ricorreva ai saggi consigli della Sibilla si racconta che una volta perfino Tarquinio, re di Roma, l'avesse consultata per garantire più facilmente pace e prosperità al suo regno.

La Regina, che comandava all'acqua, alla pioggia e alla vita, soleva tessere con i raggi del sole una tela tutta d'oro che cambiava colore col passare delle stagioni. Si alternava al telaio con tre fate, che erano sue sorelle e comandavano ciascuna un elemento della natura: la prima vestita di bianco comandava all'aria e al vento; la seconda vestita di rosso comandava al fuoco e al sole; la terza vestita di nero comandava alla terra, al sonno e alla morte. Solo chi avesse interpellato la Sibilla per il bene di altri avrebbe avuto risposta; ogni altro sentimento avrebbe scatenato l'ira delle fate. Si racconta che un pastore di Capo Vallazza si recò un giorno alla grotta per sapere dove fosse nascosto un tesoro. Prima ancora di arrivare al cospetto della Sibilla si levò un gran vento che lo strappò dalla montagna, la seconda fata comandò al sole d'incenerirlo e la terza alla terra d'inghiottirlo: di lui non si seppe più nulla.

La regina aveva messo a disposizione degli abitanti della zona numerosi anfratti del M. Corona per la conservazione degli alimenti che venivano trasportati in settembre sulla sommità della montagna. L'avvenimento era occasione di festa per tutti perchè una volta arrivati alla grotta c'era sempre qualche giovane che si metteva a ballare il saltarello. Era il ballo preferito dalla Sibilla e le sue fate e per questo motivo veniva anche chiamato il "ballo delle fate".

 

 

Tanto tempo fa viveva la Sibilla viveva con le sue fate in una reggia sotterranea tutta d'oro, tra giardini meravigliosi e fontane stupende. La fama della bellezza della Regina era arrivata nei luoghi più lontani tanto che un giorno un Cavaliere d'Oltralpe con il suo scudiero vennero in Italia per conoscerla. Raggiunto Montemonaco, domandarono ad un pastore dove fosse la grotta della Sibilla e questo gli indicò un vecchio eremita che vi si era spesso recato. Giunti al luogo indicato trovarono un vecchio dalla barba lunghissima che gli indicò a sua volta, la sommità di un monte dicendo: "La grotta si trova piuttosto in alto, ma state tranquilli perchè vi renderete conto cammin facendo che il tragitto non è difficile!"

I due infatti raggiunsero senza problemi la corona di rocce, che cingeva la fascia del monte, e alla sua base trovarono la grotta. Una volta entrati percorsero un lungo corridoio in fondo al quale da una grossa fenditura proveniva una corrente d'aria fortissima. Il Cavaliere d'Oltralpe si lanciò avanti per vincere la forza del vento e subito come per incanto il vento cessò tanto che potè essere seguito anche dallo scudiero. Continuarono così il cammino, questa volta in discesa, finchè non giunsero ad un ponte strettissimo che scavalcava una forra profondissima percorsa da un fiume che sembrava sempre più assordante. Non appena il cavaliere posò il piede sopra quel ponte questo magicamente si allargò, la gola divenne meno profonda e il fragore del fiume parve placarsi. Al di là il Cavaliere d'Oltralpe trovò una nuova galleria al cui ingresso si trovavano due dragoni di pietra che avevano gli occhi così splendenti da illuminare a giorno tutta la caverna. Tra i dragoni c'erano due pesanti porte di bronzo che il vento sbatteva continuamente. Superato lo sbigottimento iniziale ed infilatosi con agilità tra i battenti di bronzo il cavaliere, seguito dallo scudiero, si trovò in una grande sala, addobbata preziosamente, in fondo alla quale c'era un'altra porta finemente scolpita.

Il Cavaliere d'Oltralpe questa volta bussò e una voce, venuta da chissà dove, chiese chi fosse e che cosa desiderasse. Il cavaliere rispose che la fama della Sibilla aveva valicato montagne, attraversato mari ed era giunta molto lontano e che per vedere tanta bellezza e conoscere tanta saggezza si era messo in viaggio con il fido scudiero. I due furono fatti entrare in una specie di paradiso pieno di ancelle bellissime che alla fine li condussero al cospetto della Sibilla. Quest'ultima li invitò a sedere al suo fianco e a trattenersi presso di lei, avvertendoli però che, se si fossero fermati più di un anno, sarebbero dovuti restare per sempre. Il cavaliere affascinato dalla Sibilla accettò di buon grado e di lì a poco conobbe ogni delizia e l'amore di una di quelle fate dolcissime.

Era trascorso quasi un anno quando il cavaliere fu preso da una nostalgia così profonda che alla fine manifestò al suo scudiero il desiderio di ritornare a casa. Anche quest'ultimo aveva trovato una compagna fra le fate e conduceva una vita spensierata e felice; nonostante non condividesse la decisione del padrone era un servitore fedele e alla fine si dichiarò disposto a seguirlo. Anche la Sibilla si rammaricò della decisione e ancor più le fate che erano state loro compagne ma il cavaliere, sempre più cupo e triste, era irremovibile. Prima della partenza la Sibilla chiamò il Cavaliere d'Oltralpe e si fece promettere che per nessun motivo avrebbero fatto cenno con alcuno a lei e al luogo dove erano stati.

Sulla via del ritorno il cavaliere pensò a lungo a quanto gli era stato raccomandato dalla Sibilla: era profondamente turbato da quegli avvenimenti e, dato che era in Italia ed era un buon cristiano, pensò bene di recarsi a Roma per consigliarsi con il Papa. Così raccontò tutto al Pontefice: "Hai peccato così gravemente, che nemmeno io so se ti potrò mai assolvere!" disse il Papa alla fine. A queste parole, il povero cavaliere, gli si gettò ai piedi supplicando perdono, dichierandosi pronto a qualsiasi penitenza o a ritornare nell'antro della Sibilla e distruggerlo pur di espiare in qualche modo la colpa. Alla fine il Papa disse: "Il tuo proposito è lodevole ma io non so se è sufficente a farti perdonare. Vedi questo pastorale? solo se fiorirà vorrà dire che sei stato assolto dalla giustizia divina!"

Per mesi e mesi il Cavaliere d'Oltralpe restò in attesa che l'impossibile accadesse poi, col fido scudiero, decise di ritornare nel luogo in cui per la prima volta in vita sua aveva conosciuto la felicità. Partì, e da quel giorno nessuno lo vide più...

Dopo qualche giorno il Papa, dovendo celebrare una funzione solenne a San Pietro si fece portare il pastorale e quale non fu la sua sorpresa quando si accorse che su di esso erano spuntati dei fiori bellissimi. Ordinò allora di chiamare il cavaliere, convinto di poterlo finalmente assolvere ma, come sappiamo, di lui si era ormai persa ogni traccia. E mentre alcuni prelati borbottavano che un fatto simile doveva essere uno scherzo del diavolo, il popolino mormorava che solo la divina provvidenza poteva essere così avveduta da far fiorire il pastorale dopo la partenza del cavaliere, consentendogli di poter coronare il proprio sogno di felicità.

 

La leggenda di San Orso

tratto da V. Nolfi (1641)

 

Una leggenda di Fano, accettata dagli storici locali, racconta come un contadino, lavorando con i buoi nel giorno della festa di San Orso, fosse stato redarguito da un passante al quale il contadino, infastidito, avrebbe risposto: "Se lui è un orso, io sono un cane!" Ma mentre continuava ostinatamente a lavorare improvvisamente, si sarebbe aperta nel terreno una voragine nella quale sarebbero precipitati il contadino e i suoi buoi; a Fano, nella via dedicata al santo, esiste ancora a ricordo dell'accaduto la "fossa di San Orso" (Nolfi, 1641; Amiani, 1751)

 

MOLISE

 

La Grotta di S. Michele

tratto da C. Cimegrotto (1894)

 

Sul fianco di un colle che si eleva non lontano da Castropignano (Campobasso) e che fa parte della pittoresca catena del Matese, s'interna ampia e profonda una grotta, a cui si accede per una china ripida e sassosa. La torcia resinosa ci mostra qualche gradino scosceso che si dice avanzo di un altare eretto in onore a San Michele per una sua apparizione: quivi traevano dapprima le genti dei dintorni in pio pellegrinaggio ma più tardi quel sacro luogo sarebbe divenuto teatro di azioni disoneste e oscene.

Come andassero le cose la leggenda non ricorda essa solo ci dice che una notte un pio pescatore mentre posava in riva al Biferno, fu colpito dal passaggio luminoso di una schiera di angioli trasvolanti: era San Michele che inorridito di quei sacrilegi, fuggiva dalla grotta profanata per mostrarsi miracolosamente al vescovo di Siponto!

 

 

CAMPANIA

La Grotta del Tesoro

tratta da Saverio La Sorsa (1938)

 

Si sa che l'isola di Capri è traforata da molte grotte e il popolo crede che in diverse di esse siano stati nascosti importanti tesori dagli antichi abitanti greci e romani. Il volgo ritiene che se il tesoro non viene scoperto in un determinato numero di anni, passa in mano ai demoni, che lo sorvegliano gelosamente, in modo che occorre molto coraggio per impossessarsene.

Una volta un certo Filippo aveva in consegna tutti i territori di Monte S. Michele, ed aveva come garzone un certo Gasparo. Un giorno gli ordinò di pulire il viottolo, che è sotto il muro nei campi; mentre il giovanotto era intento nell'opera, gli cadde sotto un mattone e poi un altro finchè si aprì una buca.

Egli l'allargò con la zappa, e alla fine potè passare e si trovò in una grotta meravigliosa piena di stalattiti, sotto la montagna. In mezzo alla grotta c'era una casuccia e uno scheletro seduto su di una sedia, ai piedi della quale v'era un gran mucchio d'oro. Gasparo staccò una stalattite e tornato indietro disse ai contadini che era caduto in una buca piena di quelle pietre, e aveva auto un forte dolore di capo. Quando tornò a casa, dette alla moglie la notizia di quanto aveva visto, e le ordinò di preparargli dei sacchi, delle alanterne e delle corde, senza dir nulla a nessuno. A notte alta andarono alla buca, e Gasparo si fece calar giù con una lanterna in mano. Mentre la fossa era prima profonda 4 metri, la trovò quintuplicata, e invece della grotta delle stalattiti , trovò una caverna vuota. Prima che potesse sedere, una persona misteriosa gli spense la lanterna. Preso da paura diede il segno con la corda alla moglie, che lo tirò su, tutto fradicio di sudore.

Tornò a casa, dove aveva 5 fratelli, li svegliò, e raccontato loro l'accaduto, tornarono insieme alla buca e si calarono giù. Questa volta trovarono lo scheletro disteso in terra, e nel posto del mucchio d'oro c'era un cumulo di carbone.

Il poveraccio per lo spavento provato e la delusione avuta cadde malato e poco dopo morì. Così pagò la sua imprudenza d'aver voluto involare il tesoro dei demoni.

 

PUGLIA

 

BASILICATA

 

Grotta del Drago

tratta da Carlo Levi (1945)

 

Un po' a sinistra e più in alto di Sant'Arcangelo, appariva, a mezza costa di un'altura, il biancore di una chiesa. Qui usavano convenire in pellegrinaggio le genti della valle: era un luogo di molta devozione, se de di una madonna miracolosa. In questa chiesa erano conservate le corna di un drago che infestava, nei tempi antichi, la regione. Tutti, a Gagliano, le avevano vedute. Io purtroppo non potei mai andarci, come avrei desiderato. Il drago, a quello che mi raccontarono, abitava in una grotta vicino al fiume, e divorava i contadini, riempiva le terre del suo fiato pestifero, rapiva le fanciulle, distruggeva i raccolti. Non si poteva più vivere, in quel tempo, a Sant'Arcangelo. I contadini avevano cercato di difendersi, ma non potevano far nulla contro quella bestiale potenza mostruosa. Ridotti alla disperazione, costretti a disperdersi come animali su per i monti, pensarono infine di rivolgersi per soccorso al più potente signore dei luoghi, al principe Colonna di Stigliano.

Il principe venne, tutto armato, sul suo cavallo, andò alla grotta del drago e lo sfidò a battaglia. Ma la forza del mostro, dalla bocca che lanciava fuoco e dalle enormi ali di pipistrello, era immensa, e la spada del principe pareva impotente di fronte a lui. Ad un certo momento, quel valorososi sentì tremare il cuore, e stava quasi per darsi alla fuga o per cadere fra gli artigli del drago, quando gli apparve, vestita di azzurro, la Madonna, che gli disse con un sorriso: "Coraggio, principe Colonna!" e rimase da una parte appoggiata alla parete di terra della caverna, a guardare la lotta. A questa visione, a queste parole, l'ardimento del principe si centuplicò, e tanto fece che il dragone cadde morto ai suoi piedi. Il principe gli tagliò la testa, ne staccò le corna, e fece edificare la chiesa perchè vi furono per sempre conservate.

Passato il terrore, liberato il paese, i santarcangelesi tornarono alle loro case, e così fecero quelli di Noepoli e di Senise e degli altri paesi lì attorno, che, come loro, avevano dovuto fuggire pei monti. Bisognava ora compensare il principe per il servizio reso: in quei tempi antichi, i signori, per quanto cavallereschi e amanti di gloria, e protetti personalmente dalla Madonna, non usavano muoversi per nulla. Si radunarono perciò gli abitanti di tutti i paesi fatti sicuri dalla morte del drago, per deliberare. Quelli di Noepoli e di Senise proposero di dare al principe alcune loro terre in signoria feudale: ma quelli di Sant'Arcangelo, che ancora oggi sono reputati avari e astuti, e che volevano salvare la terra, fecero una diversa proposta. "Il drago - dissero -

abitava nel fiume, era una bestia dell'acqua. Il principe si prenda dunque il fiume, diventi signore della corrente." Il loro consiglio prevalse: l'Agri fu offerto al Colonna, e quello lo accettò. I contadini di Sant'Arcangelo credevano di aver fatto un buon affare, e di aver ingannato il loro salvatore: ma avevano fatto male i loro conti. L' acqua dell'Agri serviva ad irrigare i campi, e da allora bisognò pagarla al principe e ai signori feudali suoi discendenti, per tutti i secoli.

 

I badilanti usavano, nelle ore del maggior caldo, quando era impossibile lavorare, ritirarsi a dormire in una grotta naturale, una delle molte che bucano, in quel vallone, tutto il terreno, e che erano state, un tempo, il rifugio preferito dei briganti. Ma nella grotta c'era un monachicchio: lo spiritello bizzarro cominciò a fare i suoi dispettucci a Carmelo e ai suoi compagni: appena si erano appisolati, mezzi morti di fatica e di caldo, li tirava per il naso, li sollleticava con delle pagliuzze, buttava dei sassi, li spruzzava con dell'acqua fredda, nascondeva le loro giacche e le loro scarpe, non li lasciava dormire, fischiava, saltellava dappertutto: era un tormento. Gli operai lo vedevano comparire fulmineo qua e là per la grotta, col suo grande cappuccio rosso, e cercavano in tutti i modi di prenderlo: ma quello era più svelto di un gatto e più furbo di una volpe: si persuasero presto che rubargli il cappuccio era cosa impossibile. Decisero allora, per poter in qualche modo difendersi dai suoi giochi fastidiosi, e prendere un po' di riposo, di lasciare a turno uno di loro di sentinella mentre gli altri dormivano, con l'incarico di tenere ameno lontano il monachicchio, se la fortuna non consentiva di afferrarlo. Tutto fu inutile: quell'innafferrabile folletto continuacva i suoi dispetti come prima, ridendo allegramente della rabbia impotente degli operai. Disperati, essi ricorsero allora all'ingegnere che dirigeva i lavori: era un signore istruito, e forse sarebbe riuscito meglio di loro a domare il monachicchio scatenato. L'ingegnere venne, accompagnato dal suo assistente, un capomastro: tutti e due armati col fucile da caccia a due canne. Al loro arrivo il monachicchio si mise a fare sberleffi e risate, dal fondo della grotta, dove tutti lo vedevano benissimo, e saltava come un capretto. L'ingegnere imbracciò il fucile, che aveva caricato a palla, e lasciò partire un colpo. La palla colpì il monachicchio, e rimbalzò indietro verso quello che l'aveva tirata, e gli sfiorò il capo con un fischio pauroso, mentre lo spiritello saltava sempre più in alto, in preda ad una folle gioia. L'ingegnere non tirò il secondo colpo: ma si lasciò cadere il fucile di mano: e lui il capomastro, gli operai e Carmelo, senza aspettare altro, fuggirono terrorizzati. Da allora quei manovali si riposano all'aperto, sotto il sole, coprendosi il viso col cappello: anche tutte le altre grotte dei briganti, in quei dintorni di Irsina, erano piene di monachicchi, ed essi non osano più metterci piede.

 

CALABRIA

 

 

SICILIA

 

Artù nell'Etna

raccolta da Gervasio di Tilbury (1707-1709)

 

In Sicilia è il monte Etna ardente d'incendii sulfurei, e prossimo alla città di Catania, ove si mostra il tesoro del gloriosissimo corpo di Sant'Agata vergine e martire, preservatrice di essa. Volgarmente quel monte dicesi Mongibello; e narran gli abitatori essere apparso ai dì nostri, fra le sue balze deserte, il grande re Artù.

Avvenne un giorno che un cavallo del vescovo di Catania, colto, per essere troppo bene pasciuto, da un subitaneo impeto di lascivia, fuggì di mano allo stalliere che lo strigliava, e, fatto libero, sparve. Il palafreniere, cercato invano per dirupi e burroni, stimolato da crescente preoccupazione, si mise dentro al cavo tenebroso del monte.

A che moltiplicar le parole? per un sentiero angustissimo ma piano, giunse il garzone in una campagna assai spaziosa e gioconda, e piena d'ogni delizia; e quivi, in un palazzo di mirabil fattura, trovò re Artù adagiato sopra un letto regale. Saputa il re la ragione del suo venire, subito fece menare e restituire al garzone il cavallo, perchè lo tornasse al vescovo, e narrò come, ferito anticamente, in una battaglia da lui combattuta contro il nipote Modred e Childerico, duce dei Sassoni, quivi stesse già da gran tempo, ricrudendosi tutti gli anni le sue ferite. E, secondochè dagli indigeni gli fu detto, mandò al vescovo suoi donativi, veduti da molti e ammirati per la novità favolosa del fatto.

 

L'apparizione della Madonna della Cava

raccolta da R. Torres (1894)

 

Nel 1223, viveva a Trapani un giovane, muto dalla nascita e assai devoto alla Madonna. Una notte vide in sogno la Madonna col Bambino che gli parlò soavemente per consolarlo. Poi gli ordinò di recarsi nelle vicinanze di Pietraperzia (Caltanisetta) in una grotta ai piedi di una collina situata ad oriente del paese, nel feudo detto delle Runzi. Scavando in quel luogo avrebbe rinvenuto una lapide rossa sulla quale era effigiata con Gesù lattante sul grembo promettendogli che avrebbe così acquistatao la parola. Gli rivelò pure il desiderio di diventare patrona del vicino paese e infine, dopo averlo rassicurato che lo avrebbe guidato lungo il viaggio, disparve.

Per tre notti di seguito fece quel sogno prima di convincersi ad intraprendere il lungo viaggio e alla fine accompagnato dai parenti, che confidavano come lui nelle promesse di Maria, lasciò Trapani. Il muto assistito da una miracolosa chiaroveggenza, riconosceva i luoghi per i quali passavano, come se li avesse visitati altre volte e giunto nel territorio di Pietraperzia fece intendere ai suoi che erano ormai vicini alla meta. Entrati nel paese e manifestato a tutti il motivo del loro viaggio furono da alcuni beffati da altri seguiti fino al luogo indicato da muto. Questo, giunto alla collina corse dritto alla grotta e lì rompendo in lacrime fece segno di voler scavare. Estratta poca terra si trovò l'immagine tale e quale era stata descritta nel sogno. A tale vista il muto felice, riacquistata la parola, gridò tre volte: "Viva Maria della Cava!"

Sparsasi la notizia della scoperta miracolosa una folla mosse in processione, accompagnata dai sacerdoti, per andare a venerare l'immagine. Qui giunta tentò di trasportare l'immagine nella cattedrale del vicino paese ma non fu possibile perchè appena coloro che la portavano cominciavano a camminare, la lapide si rompeva in mille frantumi e riacquistava subito la sua integrità quando quelli si fermavano. Avvenuto più volte questo prodigio e ricordando che la Vergine aveva chiesto di essere patrona di Pietraperzia, compresero tutti che in quello stesso luogo doveva essere costruita una nuova chiesa. Così in breve tempo sorse il santuario di Maria Santissima della Cava che da allora si trova incassato in una spaziosa grotta ai piedi della collina.

 

La leggenda di San Calogero

raccolta da S. La Sorsa (1932)

 

Secondo la leggenda di Calogero, come si racconta a Naro, un cacciatore, inseguendo una cerva ferita, capitò in una grotta dove viveva un vecchio dal volto nero come la pece che dichiarò di essere fratello di San Diego di Canicattiì e di San Gerlaldo di Girgenti. Seguendo il desiderio dell'eremita, il cacciatore raccontò quanto gli era capitato solo alcuni anni dopo; i naresi infatti, convinti di trovarsi di fronte ad un santo, si recarono subito in pellegrinaggio alla grotta trovando però solo le ossa dell'eremita.

Secondo la tradizione agrigentina, i Calogeri sarebbero stati invece quattro assunti, dopo una santa vita eremitica, a patroni di Agrigento, Sciacca, Licata e Naro. I fedeli di queste e altre località vantano a vicenda la superiorità e il disinteresse del proprio patrono sugli altri:

"San Caloiru di Girgenti

miracoli 'un ni fa nienti;

San Caloiru di Canicattì

miraculi nni fa tri;

San Caloiru di Naru

miraculi nni fa migliaru.

San Caloiru di Girgenti

li grazii li fa pri nenti;

San Caloiru di Naru,

li fa sempre pri dinaru!"

 

SARDEGNA

 

Il tesoro di Sant'antioco di Bisarcio

raccolta da Giuseppe Calvia (1903)

 

Un giorno un pastorello se ne stava a guardia del gregge, che pascolava vicino alla chiesa di Sant'Antioco di Bisarcio, quando gli apparve un prete che gli disse: "Vieni dentro a servimi la messa!" "Non posso - rispose il ragazzo - ho paura che il gregge si disperdi e poi sono ignorante e non so proprio come aiutarvi". "Non importa - fece il prete - vieni e ti insegnerò io cosa fare". Alla fine il pastorello si decise ed entrarono nella chiesa, il prete indossò i paramenti e il pastorello servì la messa.

Finita la messa, il prete disse al pastorello: "Vieni con me". Il ragazzo, nonostante fosse molto impaurito, lo seguì e scese in una grotta, che si apriva sotto la chiesa, e quale fu la sua meraviglia quando vide tre enormi mucchi di monete uno d'oro, uno d'argento e uno di rame e al centro una bellissima ragazza intenta a dipanare matasse di filo prezioso. Era la fata Giorgia Raiosa. Il prete, accortosi dell'imbarazzo del pastorello, gli disse: "Io sono il padrone di quello che vedi, puoi prendere quello che vuoi". Ma il ragazzo non osò toccare nemmeno una moneta e il prete, offeso, lo accompagnò alla porta e gli disse: "Vattene, sciagurato, e sappi che dovrai morire in miseria te e i tuoi figli per cinque generazioni". Detto questo il prete scomparve. Il pastorello morì pochi anni dopo dentro una grotta, poverissimo, e i suoi discendenti vissero di elemosina fino alla quinta generazione.

 

La grotta del diavolo

raccolta da Gino Bottiglioni (1922)

 

Poco lontano da Calagianus c'è un monte che si chiama la montagna del demonio. Sopra questo monte, c'è una grotta e dentro a questa c'è un morto senza la testa: è il corpo di un bandito ucciso dai suoi per impossessarsi delle ricchezze che esso aveva rubato. Questo morto è ancora fresco come fosse morto ora. Questo brigante era il terrore di tutti e nessuno si sarebbe mai azzardato a passare nelle vicinanze di questo monte. Il bandito usciva a notte alta e con i suoi compagni andava per gli stazzi e, dopo aver massacrato tutti i pastori, trascinava con lui tutto quello che trovava. Ora questo luogo è maledetto e si chiama la grotta del diavolo.

 

Il tesoro del castello di Burgos

raccolta da Gino Bottiglioni (1922)

 

Nel castello di Burgos vi è un grande tesoro ma nessuno lo può toccare perchè è custodito da Don Blas d'Aragona che è un uomo grande che pare un diavolo. Una volta un pastore, mentre era con il bestiame, ha visto il tesoro ed ha avvisato il parroco. Il parroco e un altro prete si sono messi d'accordo per andare a prendere il tesoro, hanno preso il libro per far fuggire il diavolo e sono saliti al castello. Quando erano su, sono entrati in una grotta e hanno visto un mucchio d'oro, ma nello stesso momento è comparso Don Blas. I preti hanno cominciato a leggere il libro, ma Don Blas ha gettato fuoco e i preti sono morti bruciati.

 

Le Gianas e le signore di Donnigazza

raccolta da Gino Bottiglioni (1922)

 

Le Gianas erano piccoline piccoline e vivevano nelle case delle Gianas in Trempu e in San Giovanni. Erano molto belle e si vestivano di rosso con un fazzoletto fiorito e posto alla S. Zita e con le collane d'oro e cucivano e filavano e lavoravano nella loro terra. Le case della Gianas sono sul monte e i mobili erano piccolini come esse e tutti i piatti fioriti. Questa gente vivevano appartate dalle altre ed erano molto religiose; la chiesa loro era come la teniamo noi. Siccome le Gianas erano molto ricche, nel loro recinto hanno trovato molte cose di valore. Quando mia nonna era piccola ne aveva visto una in Orgono che l'aveva toccata e gli aveva chiesto dove andava e se voleva andare insieme a lei; essa ha avuto paura e gli ha detto di no. Questo sarà successo novant'anni fa. Questa gente quando sono venuti i Pisani, a poco a poco si disperse, ma delle loro case se ne trova ancora.

Centottant'anni fa, vivevano le signore di Donnigazza nel rione che portAva lo stesso nome. Le loro case erano fatte come i nuraghi ma molto più grandi e in mezzo al giardino. Non uscivano quasi mai se non era nel loro giardino. Alla domenica andavano tutte insieme alla messa al convento dei frati francescani che era in Burècco e nel Cantaréddu e, finchè esse non arrivavano, i frati non cominciavano la messa. Si vestivano di lino e di panno che si tessevano ma le gonnelle le ricamavano a colori con filo che ordinavano esse stesse e in piedi portavano le babbuccie ricamate queste pure, in testa portavano un fazzoletto bianco e sotto portavano una cuffia con nastri. Avevano grandi tesori e usavano sotterrarli sotto il pavimento delle loro case; quando lavavano le vesti, invece di sapone, fregavano con il crivazzu (pane di farina e crusca) e il loro lavoro era filare, tessere e ricamare. Quando sono venuti i Pisani sono scomparse.

 

Le Gianas

accolta da Gino Bottiglioni (1922)

 

Le Gianas vivevano non molto lontano da Aritzo in certe buche in mezzo a certe rocce. Esse erano alte non più di venticinque centimetri. Misera era la vita che queste passavano, poichè erano molto timide e vestivano di pelli non conciate e fuggivano gli uomini alti, mangiavano frutta selvatica e carne cruda e certe volte, quando le inseguivano, si facevano la tana in mezzo al bosco e in luoghi selvatici per non esser viste.

 

La grotta delle Gianas

raccolta da Gino Bottiglioni (1922)

 

A tre quarti d'ora circa dal paese di Sandali vi è una grotta e là vivevano le Gianas. Esse potevano ottenere tutto ciò che volevano, perchè Dio che comanda nel cielo e nella terra così ha disposto. Dentro alla grotta, che è ancora grande e perfino bella, esse tengono tutto ciò che poteva servire a gente abituata alla signorile che erano esse: forno per fare il pane, cucina con tutto l'occorrente e ogni altra cosa che serviva a quei tempi. Però quelle se n'erano approffittate troppo e Dio le aveva castigate. A Dio non piaceva che quelle facessero come la gente comune a pigliarsi di un palmo un braccio e le aveva pietrificate. Nella grotta si vedono ancora tutti gli oggetti di cucina, la macina, il forno ed esse stesse incurvate sull'orlo del ruscello sotterraneo.

 

La grotta dei cattivi

raccolta da Gino Bottiglioni (1922)

 

Una volta vivevano nei boschi del Sarcidano, alcuni banditi e lì passavano la loro vita, sempre nascosti agli occhi della giustizia. Una volta era andato a pascolare in quei monti un gregge destinato a San Sebastiano; i banditi avevano ucciso il pastore per rubare il gregge e il giorno seguente si erano riuniti nella grotta dei cattivi per festeggiare la rapina appena compiuta. I banditi avevano appena finito di arrostire quel bestiame santo, quando di sopra la grotta, una voce dell'inferno fa così: "Ci calo?" Per tre volte questa voce ripete queste parole, finchè i banditi, perduta la pazienza, replicarono in coro: "E cala, anche ne scendano tutti i diavoli!" A quelle parole la volta della grotta con uno schianto si staccò schiacciando i banditi; uno solo si salvò perchè non aveva voluto partecipare a quel pranzo.

 

La grotta dello spavento

raccolta da Gino Bottiglioni (1922)

 

Una volta in un palazzo abitava un marchese di nome Sivilleri che era malvoluto dal popolo. Siccome era religioso, per poter entrare nella chiesa per sentire la messa, aveva fatto scavare una grotta sotterranea che sboccava in chiesa ed era chiusa con una lastra di ardesia, e quando andava per ascoltare la messa, passava di li perchè nessuno lo vedesse.

 

La sorgente d'oro di Marganai

accolta da Gino Bottiglioni (1922)

 

Furono passati cento anni e più che un certo Bernardini teneva un possesso a piedi di Marganai; in quel posto là teneva un gregge di capre e il capraio fu zio Antioco. La capar più benvoluta da lui fu stellata, bella come così e teneva nella fronte una stella nera. Un sabato d'estate, nelle ore calde, quando zio Antioco fu facendo la siesta, Stellata come che le fosse girato il cervello, comincia a saltellare nel monte avvoltandosi nell'erba e saltando fossi e burroni; zio Antioco che era nel pisolino si sveglia e corre velocemente gridando a squarciagola: "Stellata! Stellata!" Ma la caprettina cosa che non ha fatto mai, lo lascia cantare; anzi per far adirare il capraio si fermava a guardarlo e quando quello era per afferarla, ricominciava a correre di bel nuovo. Dopo che aveva saltato fossi e burroni si è fermata giusto di fronte ad una grotta mai vista e mai conosciuta a nessuno. Zio Antioco tutto stanco si fermava non per riposrsi della corsa, ma per guardare una grotta buia donde usciva una canalata d'acqua che ne usciva tutta un colpo a mano dritta da una spaccatura che fu nella roccia. L'acqua come calava, aveva fatto un fosso nel terreno e fu torbida come che là fosse qualche cosa e infatti nel fondo del fossicello ci fu una quantità di cosa che sembrava madre di caffè. La capra abbassava la testa nell'acqua come che volesse raccogliere di quella polvere. Zio Antioco non comprendeva perchè stellata facesse così e non gli fu parso manco vero quando questa tornava indietro per tornare al possesso. Da quel giorno Stellata fu bonina ma per cinque o sei sabati di seguito proprio all'ora di quella volta tornava a fare lo stesso giochetto. Zio Antioco cominciava a pensare che in quel luogo là vi uscissero cose cattive o che vi fosse un tesoro. Un bel giorno gli salta in testa di raccogliere una sacchetta di quella polvere che scendeva dall'acqua e la porta la padrone senza scoprirgli il segreto di quel luogo. Bernardini, siccome la polvere era pesante, pensa che fosse d'oro e comincia a fare tante prove finchè riesce a scoprire che là ci fu oro. Da allora Bernardini non aveva detto pù nulla a zio antioco e quando quello gli domandava che cosa ci fu in quella polvere, gli rispondeva che ci fu ruggine. Il capraio senza malizia gli ha creduto ed ha finito per raccontargli il racconto e per portarcelo. Il fatto sta che Bernardini si è arricchito fino a tanto che si è comprato molte case ad Uglesias. Ma un giorno corre voce che zio Antioco e Bernardini li avevano uccisi con due fucilate nella casetta di Marganai, nel mentre che erano prlando al principio della notte. D'allora non si è potuto sapere il segreto di quel luogo e per quanto abbiano cercato di scoprirlo in Marganai non ci furono riusciti.In quanto a Stellata, già si fu morta prima del padrone per aver mangiato in grande quantità un'erba velenosa

 

Sant'Antioco

raccolta da Gino Bottiglioni (1922) vedi anche Cionini, 1896 e Orano, 1914.

 

Sant'Antioco era cristiano e viveva nell'Africa dove comandava il Re di Roma che non credeva in Dio. Per questo Sant'Antioco fu arrestato e l'hanno posto in mezzo al fuoco , ma il fuoco non gli ha fatto nulla. Poi l'hanno posto in mezzo ai leoni perchè lo mangiassero, ma i leoni lo accarezzavano e poi l'anno posto in una caldaia di pece bollente e non gli ha fatto nulla. Allora lo hanno posto in una barchetta e l'anno posto in mare e il vento l'ha portato alla spiaggia di Sardegna. Allora è sceso al paese e viveva qui nella grotta e quando i soldati hanno saputo che era qui , l'hanno incontrato e l'hanno preso. Sant'Antioco ha domandato ai soldati di lasciarlo pregare nella grotta. Allora egli ha pregato il signore di pigliarlo ed è morto subito. I soldati erano aspettandolo e quando hanno visto che non tornava più sono andati essi dove era Sant'Antioco, l'hanno chiamato ed esso non ha risposto; l'hanno toccato ed è caduto. Era morto. Allora l'hanno preso e gli hanno fatto la chiesa e il paese l'hanno chiamato Sant'Antioco.

 

Santa Greca

raccolta da Gino Bottiglioni (1922)

 

In Decimomannu c'è una grotta di Ssanta Greca che era una giovane. Il padre di Santa Greca sempre le dava una bastonata perchè voleva che si maritasse e quando non le ha potuto fare nulla ha avvisatoi carabinieri e l'ha fatta arrestare. Santa Greca diceva: "Io non mi marito perchè io sono sposa con Gesù Cristo". In prigione è rimasta molto e pensava molto a Gesù Cristo. Allora quando è uscita di prigione, il padre è morto, poi Santa Greca se n'è tornata a quella grotta che è in Decimomannu, si è trovata sempre in questa grottafaceva pane e macinava grano, perchè tenva la macina nella grotta e vendeva il pane agli antichi. Quando Santa Greca è morta, l'anima è salita al cielo e il corpo è rimasto nella grotta. Quando hanno fatto la chiesa hanno trovato il corpo e la macina di Santa Greca e allora hanno fatto questa chiesa per porci Santa Greca. Quando fanno la festa, noi ci caliamo in basso della grotta per pigliareterra di dove era posto il corpo di Santa Greca e si sente ancora il rumore della macina di Santa Greca e vi hanno fatto un altare che pare un fornello.

 

Genniau

raccolta da Gino Bottiglioni (1922)

 

Al tempo dei Pisani, qui in Genniau c'era una miniera d'oro che ora non si può più trovare e non si sa il punto giusto dove era prima. Il padrone della miniera aveva una figlia bella come una rosa, che era una meraviglia a vederla. Capita un giorno che questa, passando in un corridoio della miniera, non si sa come, la galleria è franata e l'ha chiusa in mezzo uccidendola quasi subito. Da allora non si sa come sia andata la miniera; fatto sta che si sente accanto a Genniau un telaio che tesse. E' l'anima di quella giovane bella che tesse con un telaio d'oro e tesserà fino a quando le orazioni di qualche anima buona non la libereranno dalla penaE' per quello che questo luogo si dice Genniau che vuol dire Porta d'oro.

Vicino a Genniau, località tra Sarrok e Pula, si eleva una collinetta con la cima arrotondata, cosparsa di rocce, dentro alla quale dicono che vi sia sa muska macédda la quale si sente ronzare, appoggiando l'orecchio alle rocce, specialmente nel giorno della Madonna del Carmine.

 

Santu Mammuscone

raccolta da F. Enna (1983)

 

Si racconta che una volta le ragazze che restavano incinte fuori del matrimonio venivano gettate dentro nella voragine del Mammuscone. Le buttavano dentro i fratelli o i parenti che si sentivano disonorati e quando accompagnavano la ragazza alla voragine le dicevano che dovevano portarla alla festa di San Mamuscone. A quei tempi intorno a Mammuscone c'era un bosco, che oggi è scomparso, e per gettare le ignare ragazze nel fondo della voragine i familiari arrivavano di notte. Si racconta che una volta quest'ultimi avessero sbagliato la strada capitando in un ovile. Il pastore, quando sentì che stavano andando alla festa di San Mammuscone, disse alla ragazza: "Non andarci, perchè vogliono ucciderti". Allora la ragazza, tutta spaventata, non volle più muoversi; ai fratelli il pastore disse: "Se date retta a me, fate il vostro dovere: non andate ad uccidere nessuno". Da allora non buttano più le raggazze disonorate a Mammuscone.

 

I maiali di Mammuscone

raccolta da F. Enna (1983)

 

A Cheremule c'era un vulcano che ora è spento; da questo vulcano è derivata la voragine di Mammuscone. Dicono che una volta nella voragine caddero dei maiali. Dopo sette anni pare che questi maiali siano usciti in Sa Ro, una campagna che si chiama così. Infatti raccontano che ne abbiano ucciso uno e che abbiano trovato nello stomaco radici di canne. Si vede che là sotto ci sono delle canne e così si sono salvati.

 

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