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(1765-1779) Niccolò Borgia
"l’Apostolo"
Era figlio
del Consigliere di Stato Domenico Borgia. Nato in Napoli il 6 maggio del
1700, visse nella città ove frequentò il collegio ecclesiastico. Fu così
ordinato sacerdote e ben presto aiutò e divenne confondatore di quel
Matteo Ripa che aveva istituito meritevolmente in città un collegio
cinese. Da Napoli, di fatto, partivano apostoli per portare in Cina la
carità cristiana espressione del Vangelo. li Borgia acquistò non solo
tanta esperienza, ma divenne uomo caritatevole e premuroso per il bene
delle anime. Non si limitava solo a quest’opera, si adoperava in vari
campi apostolici, ammirandolo specie nei mesi della citata carestia deI
1763-64. Lo si vide sollevare l’indigenza dei poveri, soccorrere i bisogni
del popolo, frequentare luoghi più abietti per trarre fuori i traviati,
aiutare pazientemente le donne abbandonate. Percorreva le strade di
Napoli con bisacce al collo unicamente per chiedere elemosina e passarla
come aiuto ai poveri. Faceva meraviglia a quanti soccorsi provvide, non
credendo i contemporanei come potesse arrivare a tanto e non facendo
sapere la provenienza dell’offerta donata. Fondò nella città di Napoli
“il ritiro di S. Vincenzo”, con cui poter ricevere e dare aiuti continui a
chi effettivamente era bisognoso. Per il suo ardente zelo e
disinteressamento per sé stesso. il cardinale Spinelli, l’allora
Arcivescovo, Io volle premiare nominandolo “Canonico del Duomo” di
Napoli. Nel 1751 fu nominato Vescovo di Cava (SA), da papa Benedetto
XIV ed in quella sede bene operò per 14 anni. Aversa nel 1765 era
vedova del proprio Pastore ed essendo una diocesi più impegnativa, la S.
Sede credette opportuno di affidarla ad un Vescovo attivo ed esperto,
perciò fu scelto il Borgia, trasferito da Cava. Due anni dopo il suo
arrivo in Aversa iniziò la Visita Pastorale con l’intento di affratellare
ricchi e poveri, rinfocolare la fede, soccorrere i traviati, riuscendo
allo scopo tramite “Missioni” popolari. Fece eseguire delle altre opere
in Cattedrale ed al suo tempo fu rifusa la famosa campana detta
“Scarana”. NeI 1772 - ad istanza del popolo aversano - il Borgia provò
la gioia, alla fine di maggio, di proclamare la B.Vergine di Casaluce
quale “Patrona” della città. Diversi contrasti sorsero tra lui ed il
clero (una parte) che negli ultimi anni della vita s’ingarbugliarono tanto
che Io amareggiarono. Trovandosi in Napoli, ivi mori il 6 aprile del
1779, e sepolto colà nella chiesa dei cinesi, ove lui profuse tante
energie. Ad Aversa era stato Pastore per 14 anni, dando la sua vita per le
pecorelle.
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(1779-1803) Francesco
del Tufo "l’Oratore"
Aveva avuto i suoi discendenti, il Vescovo dei Tufo, nella
provincia napoletana, ed esattamente nei dintorni di Noia, poiché in
quelle terre la famiglia amministrava un marchesato. Passò la sua
giovinezza tra i Congregati teatini, ove ricevette un’ottima educazione e
preparazione culturale, tanto da essere stimato e valorizzato per la sua
arguta oratoria. Era anche un uomo rispettoso del prossimo, dimostrando
squisita delicatezza nei contatti, e ciò gli valse la stima dei Superiori,
che lo nominarono, dopo poco tempo dalla sua Ordinazione sacerdotale,
Abate del monastero di S.Paolo in Napoli; in seguito fu, dal re Ferdinando
IV, chiamato a corte in qualità di “confessore” di sua figlia, avendo il
re ammirato le sue ottime doti. Frattanto, nel 1779, resasi vacante la
sede vescovile aversana, si era diffusa la voce che il Vescovo di Caserta
doveva occuparla (Nicolò Fìlomarino). D’improvviso, arrivò invece la
nuova che un brillante oratore, Francesco del Tufo, fosse stato designato
per Aversa: ci dovette essere anche l’interessamente del re Ferdinando
IV. In aprile il del Tufo fu eletto ed in luglio dello stesso anno
(1779) fu consacrato, prendendo possesso della Diocesi aversana il 29
settembre seguente. L’accoglienza in Aversa fu trionfale - specie da
chi lo apprezzava quale oratore - nonostante che piovesse a dirotto. Al
suo arrivo furono sparse dicerie: lo si descriveva come “rigoroso ed
irremovibile, audace ed imperterrito ma i fatti che seguirono smentirono
tali false affermazioni. La storia di lui afferma “aver avuto un cuore
buono soprattutto verso i poveri”; seppe pure accattivarsi l’animo delle
varie Autorità. L’anno seguente al suo ingresso in Diocesi, iniziò la
Visita Pastorale, riordinando quasi tutte le parrocchie. Amò
instancabilmente la sua Cattedrale, profondendovi mezzi ed energie per
abbellirla. Ristrutturò anche il palazzo vescovile con l’annesso
giardino, facendovi scavare nel mezzo un pozzo (1796) per l’irrigazione
del terreno. Durante l’episcopato del pastore del Tufo la terra tre
volte subì scosse che, per fortuna, non arrecarono gravi danni. Per la
formazione dei giovani seminaristi introdusse, tra le altre, la materia di
lingua italiana. Invocando sempre la protezione della Vergine Maria,
specie in momenti calamitosi, il Vescovo si preparò con il popoio
esultante ad incoronare per la prima volta la B. Vergine di Casaluce,
affinché continuasse perennemente a proteggere Aversa e
Diocesi. Nell’aria si preannunziavano minacce ed arrivo di foschi
giorni (scoppiava in quel tempo la “rivoluzione” francese) ed i cuori di
molti erano in ansia per le notizie di vendette irrazionali compiute;
vendette che minacciavano quasi tutta l’Europa. Il Vescovo si vide
arrivare anche in Aversa i francesi, guidati dal generale Championnet,
facendo buon viso a cattivo gioco per salvare tutto e tutti. I francesi
partirono ed. il Vescovo fu denunziato quale nemico del re, dovendosi
trasferire a Napoli come un esiliato, ove morì neI 1803, lontano
dall’affetto del suo gregge, che lo rimpianse profondamente adoperandosi
tutti acché fosse trasferito in Aversa e seppellito nel
Duomo.
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(1804-1814)
Gennaro M.a de Guevara Suardo "il
Garante"
Era nato,
il Guevara, in Napoli il 4 maggio del 1 748, nonostante di discendenza
forse spagnola. Da giovane entrò nel monastero di Montecassino ed ivi
fu ordinato sacerdote; nello stesso monastero nominato, poi, Maestro dei
novizi ed infine Abate. Nell’anno 1792 fu eletto Arcivescovo di Bari e
sua principale intenzione fu di riordinare il luogo che preparava i futuri
sacerdoti. In poco tempo si acquistò la simpatia di tutti, a qualsiasi
ceto appartenessero, e per tutti si offri quale “garante” negli anni
turbolenti che seguirono. Gli eventi difatti precipitavano a seguito
della Rivoluzione francese (1789) ed anche Bari divenne teatro di lotte e
di contese. L’Arcivescovo donò tutto se stesso per difendere il popolo;
anzi, s’interpose tra i contendenti da rappacificare tutti e salvare
tutti. In quell’ora il Guevara si mostrò - così farà in appresso - il vero
Sacerdote, il buon Pastore, l’uomo operatore di pace. Forse, tal
faticoso lavoro (o per sconosciuti altri motivi) snerbò la fibra
dell’Arcivescovo, che si decise, e l’ottenne, ad un trasferimento che
avvenne alla sede di Aversa, che vacava da oltre un anno. Il
Guevara si ripeté pastoralmente nella Diocesi aversana, non essendo ancor
mutati i tempi e le necessità dei fedeli. E, come in Bari, il suo
pensiero costante fu per il Seminario, così per quello aversano sentì la
responsabilità, dedicando senza riserve la sua azione a favore dei giovani
aspiranti sacerdoti, coinvolgendo professori e Superiori del pio luogo per
una completa e sana formazione morale ed intellettuale. Non si curava
soltanto della mente, ma ordinò pure che il vitto dei giovani fosse sano
ed abbondante. Incrementò le scuole ed, oltre quella filosofica,
istituì quella teologica (scuola che ha dato frutti ubertosi sino a
qualche decennio fa, con dotti ed apprezzati professori). Al tempo del
Guevara non mancarono avverarsi cataclismi e disgrazie varie; difatti, nel
1805 si registra un sisma e nel 1806 l’occupazione di Aversa da parte di
truppe francesi. Ciò che amareggiò il Guevara fu la soppressione - per
legge civile - di conventi e congregazioni, specie maschili. A lui si
deve il trasferimento in Aversa della parrocchia dei SS. Filippo e Giacomo
dalla parrocchiella all’attuale chiesa (colpita dal terremoto). Tanti
dispiaceri ed amarezze, certo, colpivano ed indebolivano il fisico del
Vescovo, che cominciò ad accusare mancanza di forze, spiacente di non
poter attendere - come per il passato - al lavoro impellente da svolgere
in Diocesi. Il medico consigliò al Vescovo di respirare aria nativa ed,
a malincuore, egli in Napoli, via Foria, alloggiò provvisoriamente. Si
racconta che tutti i sabati il Vescovo era tra il suo gregge, in Aversa,
per disbrigare i compiti più delicati, interessandosi di qualsiasi
questione e di ciascuna persona. Durante la settimana, invece, aveva
incaricato dei responsabili che lo tenevano al corrente dei fatti
quotidiani della Diocesi. A Napoli peggiorò ed il 3 agosto del 1814,
colà si spense. Un suo nipote a proprie spese - ordinando sfarzosi
funerali, lo trasportò in Aversa. La cronaca notifica una gran
moltitudine di popolo che seguì il feretro con rimpianto ed affetto,
vedendosi particolarmente presenti i suoi beneficati, che non erano
pochi. La sepoltura avvenne presso l’altare maggiore del Duomo
aversano.
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(1818-1821) Agostino
Tommasi "la Vittima"
Il Tommasi nacque a Napoli, iniziando gli studi letterari in città,
passando poi alla scuola latinista del Campoluongo (ex allievo del
seminario aversano). Proseguì gli studi presso altri maestri, che gli
insegnarono teologia, morale e diritto canonico. Diventò Sacerdote e
visse quasi appartato in Napoli, ma non fu esente da vari incarichi, sia
disciplinari che amministrativi. Pertanto era reputato un Sacerdote
zelante e di ottimi costumi. Aveva un fratello, di nome Donato, che
divenne Ministro di Grazia e Giustizia nel regno napoletano. Il
Tommasi, perciò, fece le sue amicizie, oltre che nel buon napoletano, pure
presso la corte austriaca e romana, tramite quindi suo fratello. Forse, la
stessa autorità del fratello gli giovò per essere nominato Vescovo di
Aversa, nel giugno deI 1818, raggiungendo la sede solo dopo pochi giorni
(il 7 giugno). Sin dal suo possesso, si notò quali erano le
inclinazioni: sfarzo, autorità, severità ed assertore del diritto e del
protocollo. E’ passata alla storia la frase del Tommasi: “io ho il
braccio lungo”, volendo convincere delle sue diverse amicizie con la
sicurezza di arrivare ovunque. Queste disposizioni del Tommasi
servirono però ad affermare in Diocesi il diritto vescovile (specie in
quei tempi inficiato), poiché, servendosi delle sue amicizie, riacquistò
per la Mensa vescovile il lago di Patria, usurpato da altri. Si dice
essere stato troppo rigoroso ed esigente col clero, mentre coi seminaristi
fosse stato troppo blando ed accondiscendente. Giova ricordare che
operava all’epoca una società segreta, la famosa Carboneria, ed il
Tommasi, Iigio e fedele interprete delle leggi ecclesiastiche, non cedette
e neanche tentennò alle minacce della “setta segreta”. L’epoca
permetteva limitati spazi per libertà di pensiero e per l’azione, perciò
spesso si manifestavano rivoluzioni. Avverandosi mutamenti politici nel
1820, il Donato - fratello del Vescovo - fu allontanato dal Ministero: la
proclamazione della “Costituzione” cacciava i monarchici. Il reame
napoletano era in mano ai rivoltosi sobillati dalla Carboneria, e così
avvenne in Aversa. Nella notte, di fatto, tra il 7 e l’8 luglio deI
1820 Aversa era quasi assediata da armati che aizzavano la folla
scriteriata. Si era deciso di mettere in prigione il Tommasi, ma, non
potendolo fare, si chiedeva l’assenso del giudice; nel frattempo il
Vescovo si allontanava da Aversa rifugiandosi a Napoli, presso la casa dei
Verginisti (figli di San Vincenzo dei Paoli, quartiere verso la
Sanità). La Diocesi aversana, nel contempo, era retta dal canonico
Pelliccia, Vicario vescovile, mentre il clero era diviso in due fazioni:
quelli che erano per la Costituzione e quelli che erano contro. Fu
designato, per dirimere la contesa, un altro canonico, il Mormile. Ma i
monarchici si prepararono alla riscossa ed ebbero la meglio; così il
Vescovo, nel 1821, dopo che il re era tornato, fece di nuovo il suo
ingresso in Diocesi e, per insinuazioni e per motivo di prestivgio, colpì
i sacerdoti ribelli, e diversi persero il beneficio, tra questi il
Mormile. Costui viveva con due nipoti , che lo accudivano e nel tempo
stesso sbarcavano il lunario; allorché il Tommasi privò del beneficio lo
zio, una dei due nipoti affrontò sulle scale dell’episcopio il Vescovo,
esponendo lo stato miserevole in cui si trovavano, ma - dice la cronaca -
non fu ascoltata. Nel tornare a casa, il fratello, secondo nipote del
Mormile, venuto a conoscenza della risposta negativa del Vescovo, designò
di ucciderlo e subito. Era il 9 settembre del 1821, ed il giovane,
saputo che il Vescovo doveva rientrare in episcopio, lo appostò con un
archibugio diverso tempo, in via Umberto I (Seggio), nelle vicinanze della
chiesa di S. Antonio; arrivando il Tommasi già a tarda ora, in carrozza,
si accostò al cavallo ed intimò al cocchiere di fermare, sparando con
precisione sulla carrozza alcuni colpi, che arrivarono al Vescovo sulla
faccia e al collo, freddandolo quasi all’istante. Si disse che tale
triste evento sia stata opera della Carboneria, c’è invece chi accetta lo
sdegno del giovane - costretto alla miseria - per punire un uomo di
carattere duro. Dopo i funerali, che tanto fecero parlare i
contemporanei, il Vescovo Tommasi fu sepolto nel luogo riservato ai
Presuli del Duomo.
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(1823-1844)
Francesco Saverio Durini "il Filantropo"
lI 3 dicembre 1 759 il Durini nasceva a Chieti e
battezzato in Cattedrale dal parroco Nicola Mattei. All’età di 15 anni
entrò studente nel Collegio dei monaci celestini (Ordine fondato da Papa
Celestino, originario della provincia di Isernia, che aveva dato ai suoi
primi seguaci il nome di “Fratelli dello Spirito Santo”). Ordinato
Sacerdote, il Durini, oltre ad essere versatile in geografia e matematica,
si specializzò in materie filosofiche e teologiche. Insegnò in vari
conventi celestini delle Puglie, dell’Abruzzo e del Napoletano, e tre anni
anche in quel convento esistente allora in Aversa. La stima e la seria
preparazione servirono al Durini per essere nominato Superiore
dell’Ordine. Diede prova, infatti, di possedere qualità, oltre che
intellettuali, anche morali ed umane, tanto che il suo nome fu conosciuto
anche fuori dell’Ordine, così da essere designato Vescovo di Marsi nel
1818, ove rimase per 5 anni, fino a che venne trasferito ad
Aversa.
A prima vista si sarebbe detto che il Durini fosse vissuto
solo pochi anni, essendo già avanzato negli anni, ed invece resse la
Diocesi di Aversa per ben 21 anni. Egli ha lasciato orme indelebili per le
varie sue attività, che ancor oggi permangono, a testimoniare la paziente
e continua tenacia. Non si era prefisso né un programma, né disegnati
progetti, né aveva a sua disposizione un ingegnere che seguisse le varie
opere murarie, gli bastò unicamente l’esperienza di un ottimo capomastro -
suo concittadino - per ristrutturare e rafforzare ciò che era fatiscente.
Così, per il palazzo vescovile - rovinato dal tempo - che anno per anno
rimise a nuovo, arredandolo di varie suppellettili nei vasti saloni. Aveva
fatto disegnare, nel secondo salone, un anemometro (direzione dei venti)
rimasto sino a pochi anni or sono, fatto scomparire da un suo successore
intellettualmente opposto, in occasione di lavori in episcopio. Una
cappellina, per il Vescovo ed i familiari (tuttora funzionante) sorse con
dei piccoli vani attigui per uso sacrestia. In uno di questi locali si
può ancora ammirare una Madonna col Bambino, affresco del 1300. La
cronaca, oltre a descrivere i lavori che il Durini eseguì in episcopio ed
in Cattedrale, riporta i lavori a fine sociale che furono attuati nella
zona del lago Patria (dipendente dal vescovado) come costruzione di
argini, case coloniche e di sostegno. Durante l’episcopato del Durini
si lavorò 9 anni nel monastero di San Francesco di Aversa (dal 1830 al
1839) e, ad imperituro ricordo, volle il Pastore innalzare un ardito e
maestoso pontre tra due parti dell’edificio, che rimane sempre ammirevole
all’occhio del passante. La città di Aversa beneficò del suo ingegno ed
interessamento per lavori indispensabili di fognature ed acquedotti. Le
parrocchie, in Diocesi ed in città, aumentarono: sono del suo tempo quelle
aversane di Costantinopoli e di Santo Spirito (anno 1826). Per il
Seminario diocesano perparò un nuovo e grande refettorio (divenuto oggi
una piazza) che non vide completato. Progettava, il Vescovo, di aprire
nella Cattedrale cappelle simmetriche (lato destro), ma non poté attuare
l’opera per la morte giunta. Se le fabbriche assorbivano a lui del
tempo, non gli impedivano - da buon psicologo - di calmare gli animi a
volte agitati dei fedeli, sedare i turbolenti, incoraggiare e riabilitare
i depressi. Uno dei beneficiati fu il canonico Mormile (già brevemente
si è ricordata la storia) che di nuovo ottenne il beneficio e ritornò tra
i colleghi canonici, uomo di nuovo stimato e valutato. Pare che il
programma del Durini fosse di sedare guerre e riportare pace. Il
Vescovo ormai aveva conquistato i cuori dei suoi diocesani e lo si provò
nel 1844, il 15 gennaio, spegnendosi per l’eternità. Vi fu un lutto
cittadino spontaneo e sul volto di tanti si vedevano scorrere lagrime di
profondo dolore. Tutta la Diocesi pianse il suo Vescovo ed i funerali
furono un trionfo di popolo partecipante vivamente alla dipartita di un
“padre” che lascia i figli profondamente addolorati per la ferale notizia.
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(1844-1845) Sisto Riario
Sforza "il Santo"
Nato a
Napoli il 5 novembre del 1810, morendo nella stessa sua città il 29
settembre deI 1877. Compì i suoi studi eccelsiastici in Napoli ed
esercitò il suo ministero pastorale dall’età di 33 anni, allorché fu
nominato, da Papa Gregorio XIV, Vescovo di Aversa. Svolse il suo lavoro
in Diocesi per soli cinque mesi, per la designazione a Cardinale con
trasferimento a Napoli. La cronaca aversana ben poco dice di lui,
affermando però di essere stato “zelantissimo Pastore, di severi costumi”.
Lo Sforza resse la Diocesi con mano assai ferma, mirando soprattutto alla
disciplina e all’integrità di vita del suo clero. Circa i suoi contatti
politici si mostrò altrettanto “fermo” nelle sue convinzioni e fu di
assoluta fedeltà verso la dinastia napoletana. Del suo trasferimento si
è giustificato la necessità, per Napoli, di avere, per quei tempi, un tal
santo Vescovo. Si può dire, leggendo la vita dello Sforza, che si
prodigò molto per il popolo, specie nei momenti calamitosi, come quando
scoppiò il colera del 1865. Per l’occasione Napoli vide
nell’Arcivescovo un altro S. Carlo che si aggirava tra gli appestati con i
suoi sacerdoti, provvedendo e soccorrendo i suoi fedeli nei bisogni
spirituali e temporali. Per quanto fece in Napoli basterà leggere la
sua biografia; testimoniò eroicamente le sue virtù fino ad essere venerato
(ancora vivente) ed avviato alla morte la causa di beatificazione. Il
suo spirito aleggi benedicente su Aversa, suo primo gregge affidatogli.
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