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se ne stanno andando....

2° articolo (scritto sempre sul giornalino del contingente in occasione del rientro degli alpini in Italia)

Se ne stanno andando. 

Stanno tornando fra le loro montagne e forse, in cuor loro, non le hanno mai abbandonate. Vorrei lasciar loro queste righe, sicuramente sgrammaticate e abbandonate alla disordinata dialettica di chi non scrive per mestiere, solo per sperare che qualcuno dei pennuti" si riconosca in quello che io ricordo, in quello che ho osservato ed in quello che io spero. 

Nell'esuberante incoscienza di chi non conosce, ovvero dell'ignorante, ricordo il primo arrivo ed il primo contatto con l'aeroporto di Sarajevo, il trapasso avuto fra l'aria calda e viziata del C130 e quella gelida e frizzante dell'inverno di Bosnia. Il rumore dei motori e l'odore del kerosene si fondevano con lo stupore dei presenti alla vista delle prime costruzioni rovinate dalle pallottole e dalle granate. Immaginai cosa poteva esser successo poco tempo prima e sul collo trovò una porta spalancata, il mio primo brivido. 

A dicembre la natura non sembra così come la descrivono nei documentari. Quella sera la luce del crepuscolo dava all'ambiente un aspetto cinereo, tetro e soprattutto i rami degli alberi, contribuivano a rendere il paesaggio ancora più spettrale. Il viaggio in pullman sino a Rajlovac (il nostro campo) forse è l'esatto riassunto di quella giornata. 

Nell'arco di cinque ore ero passato dalle risate dei colleghi sul bus che ci portava a Pisa, al silenzio assoluto di tutti noi, su un altro pullman decisamente più polveroso. Il carico di curiosità si trasformava piano piano in una sottile angoscia tipica delle domande solenni degli antichi filosofi o in un più formale rispetto per una forma di civiltà comunque brutalizzata. Ricorderò per sempre quel silenzio. Poi le luci del viale dei Cecchini ed i primi segni di una vita che comunque non si è fermata, anche a dispetto delle avversità climatiche, sociali e finanziarie, hanno acceso di nuovo, nel mio piccolo, quella grande voglia di poter fare qualcosa per cambiare il mondo. 

Bastano comunque pochi giorni per assuefarsi alla vista delle macerie e la routine farà il resto. Potrà farti dimenticare il vecchio mercato o il cemento rosso nelle vie principali della città, usato per ricoprire i buchi dei proietti delle granate, potrà farti dimenticare la vista della "collina degli stivali" sotto Zetra, ti farà sembrare normale anche il vecchio ospedale pediatrico (dove trovarono centinaia di cadaveri di bambini). Guiderai il tuo VM lungo i 6 chilometri del Viale dei Cecchini come in Italia, dimenticando le immagini che la Tv ti ha propinato per tre anni. Mi chiedo spesso se le persone che si fermano alla fermata del tram sono le stesse che correvano sotto il fuoco dei cecchini. 

Vorrei parlare con loro per chiedere e sentire le loro storie e per confrontarmi con il coraggio tipico del disperato. Vorrei ricordarvi ancora una volta l'eccezionale bellezza della vecchia città con i suoi vicoli e con la voce del muezzin sul minareto che invita alla preghiera a trecento metri dalla cattedrale cattolica. Vorrei ricordarvi la gente, sicuramente indifferente alla vista delle divise ma nel quale si intravede la voglia esasperata del ritorno alla normalità, che ha nelle rughe il segno della guerra e che forse ne capisce il senso, il dolore e la crudele sfrontatezza. Ragazzi e ragazze che "occidentalmente" si tengono per mano, si trovano, si amano anche di fronte alla diversità delle radici, dimenticando che forse l'immagine più cruda di questa guerra aveva proprio due di loro come protagonisti. 

La città pulsa di nuovo. La gente passeggia, le vie sono un pullulare di suoni, colori profumi, si ammira la perizia degli artigiani come la bellezza disarmante delle donne, si osserva la normalità in un contesto fisico non ancora regolamentare. Conosco persone del luogo ed ho imparato ad apprezzarne la sottile tristezza dei loro ricordi, così come ho iniziato a capire che il significato di una guerra non è mai vicino al suo effetto. 

Ricorderò sempre che le storie raccontate, nonostante la difficoltà della lingua, riescono a rendere esattamente il senso se tu guardi negli occhi chi le racconta. Gli occhi e la voce cambiano colore ed intensità nel giro di pochi secondi. Come dimenticare poi il sabato o la domenica a Butmir (mercatino degli americani) per sfogare l'istinto tipicamente italiano e sicuramente anti-stress dello shopping, per quanto possibile. 

State tornando a casa. Io rimarrò qui ancora per un po' a ricordare... magari il soldato che aspettava da troppo tempo il sostituto a Bjelasnica (la montagna che domina Sarajevo), a causa delle cattive condizioni meteo, e che quando ha visto l'elicottero atterrare fra la neve per poco non finisce sotto i pattini. Il suo sguardo è stato una delle migliori fonti di soddisfazione (e preoccupazione) per me e lo sarà anche quando sarò distante da queste montagne. Così come gli occhi del bambino fuori l'ingresso di Butmir, al quale ho regalato piccoli oggetti e che avrei volentieri preso in braccio, come farei ora con mio figlio. Vorrei non essere frainteso per la malinconia nascosta in queste righe ma per un non professionista della parola, è difficile trovare il modo per spiegare che si è comunque, e non fra poche difficoltà, orgogliosi di aver visto, di aver provato a capire, di aver sperato un altro futuro. Per non dimenticare. 

Io non dimenticherò.

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