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Latino

La lingua parlata dagli antichi Romani. Il latino appartiene al gruppo delle lingue indoeuropee, con alcune delle quali presenta maggiore affinità. Ciò vale, anzitutto, per gli idiomi ausonico-siculi parlati sulla costa tirrenica, dalle Paludi Pontine fino alla Sicilia, fra il 1000 e il 500 a. C. Numerose analogie avvicinano inoltre il latino ai dialetti osco-umbri, con i quali, secondo molti studiosi, esso avrebbe avuto legami assai stretti già in età preistorica; i rapporti si sarebbero poi allentati, e gli idiomi differenziati, quando i Latini, nel II millennio a. C., calarono in Italia, ma tornarono a consolidarsi quando, a diversi secoli di distanza, anche gli Osco-Umbri seguirono la medesima strada e si sovrapposero in parte (lungo la costa del Mar Tirreno a sud di Roma) a genti latino-sicule. Notevoli tracce nel lessico latino lasciarono gli Etruschi; ma l’influsso più profondo e duraturo fu quello esercitato dai Greci: lo stesso alfabeto latino deriva dall’alfabeto greco di tipo occidentale della colonia calcidese di Cuma. Sin dall’epoca della prima documentazione letteraria (cippo del Foro Romano, fine del VI sec. a. C.; documenti del III sec. a. C.) il latino si trova intriso di elementi lessicali di origine greca. Il greco è la fonte di arricchimento della lingua dotta attraverso prestiti o calchi semantici. La scrittura fonomorfologica della lingua va intanto assimilando innovazioni già registratesi nel parlato familiare e popolare da molti secoli, ma tenute fino ad allora ai margini della lingua colta scritta. Le diverse innovazioni attecchiscono in differente maniera nelle varie aree dell’Impero: la compagine latina, solcata da differenziazioni sempre più profonde, si dissolve e lascia intravedere, mentre l’Impero cede ai regni barbarici, la variegata schiera delle lingue romanze. p Letteratura latina. Di ben cinque secoli, quanti ne trascorrono dalla fondazione di Roma all’età di Appio Claudio, esistono solo documenti linguistici. I più antichi sono rappresentati dalle iscrizioni sulla fibbia d’oro rinvenuta a Preneste, sul già citato cippo del Foro romano, sul vaso di Dueno. Rudimentali forme di poesia sono documentate poi in antichissime preghiere e brevi formule rituali a mezzo tra la prosa e la poesia, che si ritrovano nei frammenti delle leggi delle dodici tavole. Il meglio della poesia popolare delle origini è da ricercare nelle saturae e nelle altre rozze e licenziose rappresentazioni drammatiche, alle quali si diedero i nomi di fescennini e di atellane. Una vera e propria letteratura latina. ha inizio quando rilevanti personalità bilingui, come Livio Andronico e Nevio, tradussero per i Romani i capolavori della poesia greca. Livio Andronico innestò, peraltro, un’arte nuova sul tronco greco, piegando il verso saturnio, tipicamente italico, alle esigenze della musa omerica, e lo stesso verso usò Nevio, inaugurando l’epica latina e creando la tragedia pretesta. Una generazione più tardi di Nevio, Plauto infuse nelle sue palliate lo spirito italico dei fescennini. Il poeta della prima generazione scipionica è Ennio, alfiere di un genere di cultura aristocratico e per natura sua conservatore, ma pur sempre aperto al soffio rinnovatore della cultura ellenica. Al polo opposto Catone il Censore, che guarda alla penetrazione della cultura greca come a un pericolo per la severità dei costumi indigeni. La seconda generazione scipionica, che si stringe attorno a Scipione Emiliano, è quella di Terenzio (il poeta delle classi colte) e di Lucilio (il perfezionatore della satira). La tragedia languisce nello sterile duello tra il sentimentalismo di Pacuvio e la retorica del rivale Accio; il teatro comico continua invece a fiorire, trapassando nelle forme dell’atellana e del mimo. Ai tempi di Ennio risale l’annalistica, che sfrutta le schematiche registrazioni dei pontefici per ricostruire la storia di Roma. All’inizio del I sec. a. C. si manifesta un profondo mutamento del gusto poetico, in armonia con la rivoluzione operata nella poesia greca dall’estetica alessandrina. Dal circolo dei poeti romani di scuola alessandrina (poetae novi o neoteroi) sorse uno dei più grandi lirici latini, Catullo, pronto all’invettiva come alla tenerezza. Estraneo alla poetica dei poeti nuovi rimase il loro contemporaneo Lucrezio, genio cosmico e malinconico che nel De rerum natura elevò a Epicuro un monumento inimitabile. Due grandi figure di storici campeggiano in questa età: Giulio Cesare (Commentarii) e il cesariano Sallustio, che nella Catilinaria e nella Giugurtina tratta due episodi significativi della lotta tra l’aristocrazia senatoria e le nuove forze democratiche. Sono le vicende che porteranno alla crisi della Repubblica: e in tali vicende la figura di Marco Tullio Cicerone è in primo piano. Il maggiore erudito dell’età cesariana è Varrone, che spaziò dalla grammatica alla critica letteraria, dai problemi dell’agricoltura a quelli dell’antiquaria. Con l’avvento di Ottaviano, si entra nell’età augustea, durante la quale il mecenatismo dà nuova linfa alla letteratura: intorno a Mecenate si raccolgono poeti e scrittori, tra i quali Virgilio, Orazio e Tito Livio. Virgilio esprime l’aspirazione alla pace; nell’Eneide egli si fa cantore della grandezza romana e, con significato universale, dell’infelicità umana; Orazio persegue un proprio costante ideale di equilibrio morale. L’elegia trova espressione nell’età augustea soprattutto attraverso due poeti: il sentimentale Tibullo e l’appassionato Properzio. L’ultimo grande poeta elegiaco è Ovidio, che canta l’amore con ispirazione più scopertamente alessandrina. All’età augustea appartiene infine Tito Livio: nella sua opera storica, dov’è ripercorso l’intero passato di Roma dalle origini, egli supera lo schema periodico della divisione per anni in una visione unitaria che coincide con l’idea virgiliana della ’predestinazione’ di Roma e della sua missione di civiltà. Nell’epoca da Tiberio a Nerone la poesia languisce: non vera poesia, ma una morale versificata piuttosto generica è nelle Favole di Fedro e nelle Satire di Persio Flacco; più storia e declamazione che vera poesia è la Farsalia di Lucano. Più fortunata è la prosa, che trova la sua espressione migliore al tempo di Nerone con Seneca e Petronio. Il primo si fece interprete della morale stoica, temperando il rigorismo della dottrina con un chiaro senso d’umanità; il secondo lascia nel Satyricon la testimonianza della propria originalità e potenza di narratore. Il periodo dei Flavi è l’età di Plinio il Vecchio, infaticabile ricercatore e raccoglitore di notizie in ogni campo del sapere; di Quintiliano, maestro di retorica; di Plinio il Giovane; ma la poesia epica ricalca le orme di Virgilio con Stazio e con Valerio Flacco. Più fortunato dell’epos, il genere satirico ha in Marziale un poeta di ricca vena, che trova nell’epigramma la misura del suo talento. Le figure di maggior rilievo, a cavallo fra il I e il II sec., sono quelle di Tacito e Giovenale. Il primo tenta di conciliare il suo pessimismo con l’obiettività dello storico; il secondo accusa attraverso una satira amara la corruzione del mondo. Dopo gli Antonini, si accentua il declino della letteratura: si succedono Svetonio, Frontone e Aulo Gellio, ma il vero artista è Apuleio, straordinario autore delle Metamorfosi, unico romanzo della letteratura latina pervenutoci integralmente. La storiografia continua dopo Svetonio con figure scialbe come Eutropio, Aurelio Vittore e i biografi della Storia Augusta: il solo vero storico, l’ultimo, è, nel IV sec., Ammiano Marcellino. L’erudizione s’impaluda in uno schematismo scolastico, anche se annovera grammatici come Donato, Servio, Prisciano o personalità come Marziano Capella e Macrobio. La poesia manda ancora qualche bagliore con Ausonio e Claudiano e si spegne con Rutilio Namaziano. La letteratura latina cristiana si apre col nome di Tertulliano, grande apologista. Al III sec. appartengono Cipriano, Arnobio e Lattanzio. Ma il periodo aureo della letteratura latina cristiana è quello della Patristica, che approssimativamente comprende la seconda metà del IV sec. e la prima del V: figure illustri sono Ambrogio, Girolamo e soprattutto Agostino, il maggiore e più fecondo scrittore dell’ultima latinità. La letteratura cristiana ha avuto anche i suoi poeti in Commodiano e soprattutto in Prudenzio: dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente, essa produrrà ancora le grandi personalità di Boezio, Cassiodoro e di Gregorio Magno. La letteratura latina medievale segna in Spagna la punta più alta della sua fioritura con Isidoro di Siviglia, mentre nel VII-VIII sec. la tradizione culturale della latinità sarà tenuta viva nei monasteri d’Irlanda e della Britannia. Tra il VII e l’VIII sec. lo storiografo inglese Beda svolge un’importante opera di ricupero della cultura antica, mentre sulla base della cultura classico-cristiana si sviluppa, tra l’VIII e il IX sec., la politica culturale di Carlo Magno, alla cui corte verranno convocati, tra gli altri, Paolo Diacono, Alcuino, Eginardo. Dopo la morte di Carlomagno, la fioritura culturale e letteraria continua con Rabano Mauro, Giovanni Scoto Eriugena, Lupo di Ferrières. Nel X sec. spiccano fra tutte, in Italia, la figura dello storico Liutprando e, in Germania, quelle della monaca Rosvita e di Eccheardo di San Gallo. In Francia, inoltre, fioriscono la lirica profana e, tra la metà dell’XI e il XII sec., la letteratura filosofica e teologica. Nel XII-XIII sec., inoltre, in tutta l’Europa è da registrare un nuovo fervore speculativo e di studio dell’antichità classica. Voci poetiche originali sono in questo periodo Ildeberto di Lavardin, Bernardo Silvestre, Alano di Lilla, Matteo di Vendôme. Da ricordare, inoltre, la poesia goliardica, da cui traspaiono, talora, elementi popolareggianti accanto a motivi poetici già noti alla tradizione classica. Personalità di rilievo della letteratura intorno al XII sec. sono ancora, in Inghilterra, Giovanni di Salisbury e Goffredo di Monmouth; in Germania, Ugo di San Vittore; in Italia, i poeti Arrigo da Settimello, Pietro da Eboli, Enrico Pisano e gli storiografi Caffaro, Ottone e Acerbo Morena, Ugo Falcando, Romualdo di Salerno. Con il XIII sec. l’attenzione per il mondo classico si sposta soprattutto verso lo studio della filosofia e l’elaborazione teologica, con una ricca fioritura di trattati (culminanti nell’opera di Tommaso d’Aquino, Bonaventura di Bagnorea, Ruggero Bacone e Pietro Lombardo): si svilupperà altresì uno stile latino nuovo e scarno. Tuttavia, soprattutto in Italia, dove ricca è ormai la prima produzione letteraria in volgare, è da registrare una rigogliosa fioritura letteraria e poetica: Iacopo da Varazze, Salimbene da Parma, Bonvesin de la Riva, Iacopone da Todi, fino a giungere, tra la fine del Duecento e i primi del Trecento, all’opera di Albertino Mussato. Ma l’espressione artistica ha ormai trovato in tutta Europa il suo nuovo veicolo nelle lingue volgari: il latino resterà soltanto la lingua dotta degli umanisti, dei documenti ufficiali e, soprattutto, della Chiesa.

Miniatura tratta da un manoscritto del sec. XIII dei Carmina Burana