Lo Sport femminile nel fascismo

Nel corso del periodo fascista l’attività fisica femminile seguì un percorso altalenante che, come tanti altri aspetti del regime, ne sottolineò le contraddizioni: infatti talora fu approvata ed esaltata, altre volte invece venne ostacolata soprattutto a causa dei vari interventi della Chiesa dopo i Patti Lateranensi.

Alcune storiche sostengono che il Fascismo abbia modificato la propria politica demografica con l’estensione dello Sport al mondo femminile, essenzialmente perché Mussolini conduceva un’intensa propaganda per l’aumento della popolazione della nazione. Lo Sport sarebbe stato uno strumento finalizzato all’ottimizzazione ed alla crescita numerica della razza. L’Italia infatti necessitava di uomini che costituissero valide braccia per il faticoso lavoro dei campi e delle fabbriche,  e per costituire un forte e valido esercito. Era necessario inoltre trovare un rimedio alle tante malattie che, diffondendosi periodicamente nel paese, assottigliavano una società già di per sé poco numerosa. Si pensò che fosse necessario cambiare gli stili di vita, che bisognasse svolgere una maggiore attività fisica, e persino il Duce venne rappresentato come “il  primo sportivo d’Italia”. Con una maggiore attività fisica anche le donne sarebbero state più sane, e quindi avrebbero potuto generare un numero maggiore di figli, e persino più sani. Il dott. Giuseppe Poggi Longostrevi, a quel tempo famoso studioso di medicina dello Sport, sosteneva che: “Gli esercizi che a loro più convengono sono quelli che contribuiscono allo sviluppo ed alla saldezza del bacino e sono: la marcia, la corsa, gli esercizi ritmici”, come cita il prof Sergio Giuntini nel suo saggio intitolato: “Sport e Fascismo: il caso dell’atletica leggera”. Così, pur senza essere ben consapevole della grande portata di una tale direzione politica, il Fascimo fece in modo che le donne entrassero nel mondo dello Sport. Grazie alla loro nuova possibilità di instaurare relazioni più disinibite con gli atleti del sesso opposto, le donne impararono ad acquisire una maggiore consapevolezza del loro corpo, un’ idea migliore delle loro identità, ed avviarono un processo di emancipazione nei confronti del modello di femminilità precedentemente esaltato anche dal Fascismo stesso. In Italia avvenne così il primo evento agonistico di Atletica Leggera Femminile, ed in seguito venne anche fondata la Federazione Italiana di Atletica Femminile (FIAF) il 6 Maggio 1923.

Ma le cose stavano per cambiare e soprattutto dopo l’avvenuto accordo dei Patti Lateranensi tra lo Stato e la Chiesa. Il 2 Maggio 1928, infatti, il Papa Achille Ratti impedì che a Roma fosse bandito un concorso ginnico femminile, affermando che la Chiesa non poteva non condannare questo avvenimento in considerazione anche del fatto che persino l’antico Impero Romano aveva escluso le donne dai giochi ginnici, come già avevano fatto i greci con le Olimpiadi. Questa protesta  ebbe una vasta eco, anche perché veniva avanzata da una così alta figura religiosa, cioè da un Pontefice appunto, che paradossalmente era anche stato indicato con l’epiteto di  “papa alpinista”. Allo stesso modo il suo successore, il Papa Pacelli,  fu addirittura soprannominato il “papa degli sportivi”,  ma fu proprio Lui che, nel 1941, avviò una Crociata per la purezza, con la quale impedì “le gare di nuoto femminile davanti ad un pubblico misto”. La Chiesa evidentemente si poneva scrupoli di carattere moralistico: lo Sport  metteva in crisi il naturale pudore delle donne, che per l’attività fisica dovevano necessariamente denudare il proprio corpo. Così grande interesse fu rivolto all’abbigliamento da adottare. Nel 1932 la FIDAL stabilì che le donne che praticassero Sport non potevano valicare i confini dei campi da gioco senza che avessero indossato i pantaloni lunghi, ed erano escluse le ragazze che non si fossero attenute a tali disposizioni.

Ma numerosi furono ancora i pregiudizi: si credette ad esempio che l’attività sportiva avrebbe reso le donne dei “maschiacci”. E non solo. Si credette persino che lo Sport avrebbe  potuto influire negativamente sulle capacità della donna di procreare, come se lo Sport potesse essere responsabile del verificarsi di malformazioni degli organi genitali. Così persino Pierre De Coubertin, il restauratore delle moderne Olimpiadi,  sosteneva che le donne dovessero unicamente incoronare gli uomini nel corso dei giochi Olimpici, allo stesso modo delle vestali dell’antichità classica.

Grazie alla politica condotta in quegli stessi anni in Europa da Alice Milias, che aveva reso possibile i primi Giochi Femminili Internazionali a Montecarlo, si era acceso il primo femminismo sportivo. Così sull’onda dell’entusiasmo le donne italiane avevano potuto partecipare alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928, anche se i risultati ottenuti non erano stati molto soddisfacenti. Poco tempo dopo però, a causa delle polemiche relative alla donna praticante lo Sport, questa esperienza fu completamente annullata e la Federazione di Atletica Femminile chiuse le sue attività. Solo intorno al 1936 gli obiettivi del regime cambiarono in parte: infatti in questo momento bisognava solo far bella figura alle Olimpiadi di Berlino, e tenere testa al nazionalismo di Hitler: così anche le donne poterono parteciparvi al fine di potere anch’esse esaltare il valore della patria.

Questo fu il massimo traguardo nel campo delle rivendicazioni femministe, perché difficilmente si sarebbe riusciti a debellare lo stereotipo fascista riguardante la donna, che la vedeva “sposa fedele e madre esemplare”.  Tuttavia alla fin fine, anche se in modo sommerso,  negli anni a venire gli animi delle donne andarono maturando una sempre maggiore consapevolezza dei propri diritti all’esercizio di attività sportive.  

                          

                                   NINO MONTEMURRO E RICCARDO CASTIGLIONE