C'è un elemento che permea tutta la personalità
del bodhisattva e che costituisce quasi lo scenario sul quale
si svolge il suo cammino interiore, intessuto di compassione (karunâ)
e di potere di conoscenza. E' la gioia (muditâ, rati):
che sboccia in lui all'atto iniziale della "carriera"
(caryâ), cioè con la formulazione dei voti,
ma che in verità è lo stimolo stesso di questa
formulazione, perché il bodhisattva âdikarmika
("novizio"), consapevole che il mondo e l'esistere sono
sofferenza, sperimenta un'indicibile gioia nel momento in cui
gli balena dinanzi un altro modo di essere, una dimensione sacrificale
della vita, in cui ogni atto del suo esistere avrà un valore
ai fini della salvezza propria e altrui.
E' allora che nel bodhisattva âdikarmika nasce quella
gioia di cui sarà "sorgente nel mondo" (1): quasi
un canto d'esultanza dell'anima, un "Magnificat" che
si discioglie pieno di gratitudine verso i Tathâgata, da
cui egli riceve aiuti e insegnamenti. Che cosa d'altronde, se
non la silenziosa e segreta ispirazione dei Tathâgata, avrebbe
potuto fargli intuire quell'universo inimmaginabile di grazia,
a cui poter partecipare mediante l'entrata nella caryâ?
Difatti la stessa formulazione del voto di salvare gli esseri
e la prima scaturigine del pensiero d'illuminazione nascono da
un atto di grazia dei Tathâgata verso chi per karma
sia maturo. "Oh, assai beatifica è quest'illuminazione
che viene vista e udita, e quale è la forza di miracolo
di chi in essa dimora o è giunto!" (2). Quella gioia
è dunque vissuta come gratitudine verso i Tathâgata,
nella cui "famiglia" il bodhisattva âdikarmika
rinasce in seguito allo scaturire di quel pensiero: per lui il
triplice ostacolo è cancellato (3), egli "prova una
gioia estrema e possiederà il potere su centinaia di mondi"
(4).
Ma è anche gratitudine verso gli esseri, il cui dolore
e il cui stato di peccato ispirano una così grande compassione
da indurlo ad abbracciare quel difficile e lunghissimo cammino
da bodhisattva. Una compassione inesauribile, che non potrà
placarsi fino a che l'ultima delle creature non avrà attraversato
il fiume del samsâra, ma che non potrebbe
reggere alla dure prove cui dovrà essere sottoposta, se
non fosse appunto permeata della gioia del sacrificio, del sentirsi
essere sacrificale.
Numerosi a questo proposito sono gli episodi della Jatakamâla
(5), atti a illustrare tale potere di sacrificio del
bodhisattva, e fra questi la storia del re degli Shibi, che per
la sua virtù di compassione era tutto pervaso di gioia
nel vedere i mendicanti rallegrarsi dei doni da lui ricevuti.
Un giorno il re degli dei, Shakra, volendo mettere alla prova
la carità di questo re terreno, si presentò a lui
come un vecchio mendicante cieco che gli chiedeva un occhio, per
riacquistare almeno in parte la vista. Il re degli Shibi accondiscese
subito al desiderio del postulante. Poi, "come vide aperto
uno dei due occhi del vecchio gli offrì anche l'altro.
E sebbene il re, poi ch' ebbe dato via i suoi due occhi, somigliasse,
nel volto, a un lago senza loti, fu tuttavia pervaso da una grande
gioia".
Il re degli Shibi non è altri, nella leggenda, che una
delle numerose incarnazioni bodhisattviche del Buddha Shâkyamuni,
quando praticava la karunâ lungo gli incalcolabili
eoni, che secondo i testi, preludono all'entrata nella prima terra,
chiamata Pramuditâ, la Gioiosa, a indicare il sentimento
che predomina in chi ha intrapreso il sentiero bodhisattvico.
Questo sentimento, una volta sorto, accompagna poi tutto il lungo
cammino dei bodhisattva, che, secondo le parole del Sûtra
della Perfezione della Saggezza (6), parlano sempre
"con un viso sorridente perché hanno sradicato l'avversione,
scacciato l'invidia, sempre praticato la grande benevolenza, la
grande pietà e la grande gioia".
Tale gioia viene alimentata dalla inamovibile fede nel Buddha,
dalla protezione che il bodhisattva esercita costantemente sul
pensiero d'illuminazione, dal cercare il bene degli esseri, dall'evitare
ogni rilassamento della moralità, oltre che dall'esercitare
le virtù della pazienza e dell'energia e dall'escludere
sia pure l'ombra di una macchia dalla saggezza. Peraltro il bodhisattva
è gioioso, quando è in grado di udire i dharma
profondi senza tremare, o per il fatto che vede tutte le buone
qualità dei propri simili, mentre non ne vede i difetti,
così da non nutrire per loro né odio né avversione
(7).
La gioia, così praticata, nutre tanto profondamente di
sé il corpo sottile dei bodhisattva, da conferire a esso
una colorazione aurea che si manifesta nei raggi di luce da loro
emanati e nei fenomeni straordinari che commuovono la natura,
in connessione con momenti particolarmente importanti del loro
iter spirituale ( MPPS, p. 555). Così, quando un
bodhisattva rinasce alla sua ultima incarnazione, nella quale
diventerà un Buddha, si verificano fenomeni miracolosi
che esprimono l'esultanza di tutto l'universo per l'evento.
Narra infatti il poeta Ashvaghosha: "Due cascate d'acqua,
una con la proprietà del caldo, l'altra con la proprietà
del freddo, sgorgarono dal cielo limpide come raggi di luna
alla nascita di Shâkyamuni - e si riversarono sul suo fausto
capo per allietarne il corpo con il loro tocco", e "la
terra, imperniata sull'Himâlaya, sussultò come una
nave colpita dal vento; cadde dal cielo una pioggia di calici
di loti azzurri e rossi (fragrante) di sandalo. Spirarono brezze
piacevoli al tatto e gradite alla mente il sole stesso splendette
maggiormente e il fuoco brillò con benigna fiamma senza
essere attizzato Le schiere di esseri celesti fautori della Legge
riempirono il bosco per vederlo e la (loro) meraviglia fece cadere
fiori dagli alberi fuori stagione. Il quel tempo anche gli animali
feroci stavano assieme e non si recavano danno a vicenda; anche
le malattie degli uomini, quali che fossero, venivano sanate senza
fatica e si era diffusa la gioia" (8).
E quando il principe Siddhârtha, futuro Buddha, a ventinove
anni abbandona la reggia di suo padre per una vita povera d'asceta,
facendo voto di non ritornare nella città di Kapilavastu
prima di aver visto l'altra sponda della vita e della morte, "gioirono
le schiere del Signore della ricchezza, e le moltitudini degli
dei".
Quando poi il bodhisattva Shâkyamuni fece il suo ingresso
nella foresta, dove sarebbe vissuto in meditazione, i cervi e
gli asceti lo contemplarono immobili, presi da stupore, mentre
"le vacche sacrificali, colte da gioia, versavano latte sebbene
fossero già state munte".
Infine, allorché l'asceta, dopo anni di dura ricerca interiore,
si pose a sedere ai piedi dell'albero sotto cui avrebbe conseguito
la bodhi, sulla foresta, non più battuta dal vento,
scese il silenzio perfetto dell'immobilità. Tutto "il
mondo gioì" in quell'istante (9); e quando, dopo una
notte di profonda meditazione, Mâra (10), che tutto aveva
tentato per distrarlo, si riconobbe vinto, il cielo e la luna
si illuminarono di più vivo splendore e un pioggia profumata
di fiori inondò la terra (11).
Restava ora a Shâkyamuni il conseguimento dell'onniscienza,
che realizzò all'alba del quarto giorno, divenendo un Buddha,
un Illuminato. La terra allora "barcollò come una
donna ebbra di vino e possenti tamburi risuonarono in cielo. Soffiarono
lievi, piacevoli brezze e dagli alberi piovvero fiori e
frutti fuori stagione per fargli onore Anche gli esseri delle
sfere inferiori provarono gioia e il mondo dei vivi si rallegrava
come se fosse prospero". (12).
La storia del Buddha Shâkyamuni è il paradigma della
vicenda di tutti i bodhisattva, una vicenda che è insieme
celeste e terrena, perché nei cieli ha la sorgente
il loro potere di miracolo che, grazie alla bodhi, nasce
e si diffonde sulla terra e sui mondi soggetti alla sofferenza.
E dell'atmosfera dei cieli ogni bodhisattva si porta il sentore,
in quella leggerezza che ne pervade la figura, tutta la personalità,
nonostante il grave peso di cui si fa carico, d'incarnazione in
incarnazione, per la salvezza degli esseri.
Per questo il Cosmo intero, commosso, trema e ogni essere,
visibile e invisibile, partecipa all'unisono con la natura al
primo sbocciare della bodhi e al suo rinnovarsi a ogni
atto di conoscenza e di compassione del bodhisattava.
Questa gioia - dicono i testi - "questa felicità mentale
è come l'acqua di una sorgente rocciosa che sgorga spontaneamente
e non viene dall'esterno. Praticando il pensiero d'uguaglianza,
osservando la continenza, praticando i dieci buoni cammini dell'atto,
si è purie senza difetto; è questa che si chiama
felicità interna" (13).
La gioia è causa di salvezza per gli esseri che per essa
non sono maturi. E' così che un giorno, narra l'MPPS (p.
541), essendo entrato il Buddha, accompagnato da Ananda, nella
città di Shrâvastî per mendicare cibo, videro
una povera vecchia sul ciglio della strada. Ananda disse al Buddha:
"Questa donna è degna di pietà, il Buddha dovrebbe
salvarla". Ma avendo il Buddha risposto che la donna non
soddisfaceva le condizioni volute per la salvezza, Ananda replicò:
"Che il Buddha le si avvicini. Quando ella vedrà il
Buddha con i suoi segni (14) ella proverà un pensiero di
gioia (muditâcitta) e soddisferà così
le condizioni richieste".
I Buddha, e con loro i bodhisattva, hanno il potere di trasmutare
con atto immediato il dolore esistenziale e di far maturare nello
spazio di un istante gli esseri in forza del loro ininterrotto,
gioioso sacrificio, ricco di benevolenza verso le creature. Di
questa gioia, che egli sacrificalmente crea a ogni istante, il
bodhisattva consente che fruiscano anche gli altri. Nel suo sacrificarsi
non c'è nulla d'oscuro o di gravoso, ma tutto spira
una levità celeste che ha la sua scaturigine nella consapevolezza
di rinunciare soltanto a ciò che è inferiore, perché
il superiore viva. Possiamo dire con l'MPPS (p. 1063) che "la
saggezza ha questo potere meraviglioso, di stimolare due tipi
di uomini: l'ignorante, per mezzo del timore; il saggio, mediante
la gioia".
NOTE
(1) A. Pezzali, Shântideva e il Bodhicaryâvatâra,
Bologna 1982, I, 26, p. 59.
(2) Bodhisattvabhûmi, ed. by U. Wogihara, Tokyo 1930,
pp.13-14.
(3) I tre ostacoli sono moha (offuscamento mentale),
dvesha (avversione) e kâma (desiderio).
(4) Madhyamakâvatâra, éd. tib.
par L. de La Vallée Poussin, San Pietroburgo 1912, I, 6.
(5) Arya Sura, Storia della tigre, a cura di R. Gnoli,
Bari 1964, p.19 sgg.
(6) Mahâprajnâpâramitâshâstra.
Le Traité de la Grande Vertu de la Sagesse de Nâgârjuna
(MPPS), trad. di È. Lamotte, Lovanio 1949, p. 352.
(7) Vimalakîrtinirdesha. L'Enseignement de Vimalakîrti,
trad. di È. Lamotte, Lovanio 1962, III, 64.
(8) Ashvaghosha, Le gesta del Buddha, Milano 1979, pp.
17-31.
(9) Ibidem, pp. 156-157.
(10) Il dio della morte e dell'illusione.
(11) Ashvaghosha, op. cit., p. 168.
(12) Ibidem, pp.180-181.
(13) MPPS, cit., p. 502.
(14) Lakshana: i trentadue segni corporei del bodhisattva
acquisiti con i meriti lungo infinite rinascite.