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I BUCHI NERI
Sebbene gli scienziati non siano riusciti ad individuarne con
certezza nemmeno uno i buchi neri dovrebbero essere molto
numerosi già all’interno della nostra galassia e ve ne
dovrebbero essere anche di vario tipo (semplici buchi neri,
superbuchi neri, minibuchi neri e perfino buchi bianchi).
Nell’inverno 1915-16 un paio di mesi dopo la pubblicazione
della teoria della relatività generale da parte di Einstein
(una teoria che tratta la forza di gravità in modo nuovo e più
preciso rispetto a quella esposta in precedenza da Newton) l’astrofisico
tedesco Karl Schwarzschild, nel suo letto di morte, dove
giaceva a causa di una malattia contratta sul fronte russo
della prima guerra mondiale, calcolò quale avrebbe dovuto
essere la massa di un corpo celeste nell’ipotesi di un intenso
campo gravitazionale tale da trattenere su di sé qualsiasi
cosa, compresa la luce. La descrizione matematica che fece lo
scienziato tedesco di questo ipotetico corpo celeste venne
considerata, a quel tempo, un semplice esercizio accademico di
ciò che in seguito prese il nome di “buco nero”. Esso fu anche
l’ultimo suo lavoro: morì poco dopo a soli 43 anni di età.
Schwarzschild, utilizzando le equazioni previste dalla teoria
della relatività, individuò il raggio (R) che avrebbe dovuto
avere un corpo celeste dotato di massa tale da non lasciare
uscire nulla dal suo interno e dimostrò che questa dimensione
limite era determinata da una formula la quale moltiplica la
massa (M) dell’oggetto per il doppio della costante di
gravitazione (G) diviso per la velocità della luce (c) al
quadrato: R = 2GM/c². Ora, poiché il doppio della costante di
gravitazione universale diviso per il quadrato della velocità
della luce è un numero molto, ma molto piccolo, è chiaro che
affinché si ottenesse un valore apprezzabile del raggio di
Schwarzschild (come è stato in seguito chiamata questa
dimensione), doveva essere molto, ma molto grande la massa
dell’oggetto preso in considerazione. Il raggio di un buco
nero delimita a sua volta una superficie che separa due
regioni non comunicanti fra loro ed è chiamata “orizzonte
degli eventi” perché nessun segnale può allontanarsi da quella
stella per comunicare un evento qualsiasi al mondo esterno.
In
verità l’idea che potessero esistere corpi celesti dotati di
una massa così grande da catturare la luce era già venuta in
precedenza verso la metà del 1700 all’astronomo e provetto
navigatore inglese Thomas Wright di Durham, il quale aveva
immaginato la Via Lattea (ovvero la nostra galassia) come un
grande disco di stelle in rotazione intorno ad una massa
centrale molto pesante e invisibile. Alcuni decenni più tardi
il prete inglese John Mitchell e il matematico francese Pierre
Simon de Laplace, indipendentemente l’uno dall’altro, avevano
calcolato che stelle 500 volte più grandi del Sole avrebbero
dovuto esercitare una forza di gravità tale da attrarre su di
esse gli oggetti vicini e nello stesso tempo impedire alla
luce, che allora era considerata un insieme di palline
colorate, di uscire.
Il
modello di Mitchell e Laplace cadde in discredito quando la
teoria ondulatoria della luce soppiantò quella corpuscolare
proposta da Newton. Con l’introduzione della nuova teoria
pareva infatti illogico pensare che se la luce era qualcosa di
immateriale potesse essere attratta da un corpo pesante. Si
ritornò invece all’idea originale dopo che Einstein formulò la
teoria della relatività generale all’interno della quale la
gravità veniva ridotta a geometria e quindi non era più una
forza. La teoria di Einstein prevede che corpi molto pesanti
distorcano lo spazio nelle loro vicinanze: la prova di un
affossamento dello spazio in vicinanza del Sole si ebbe in
seguito ad una misura eseguita dall’astronomo britannico
Arthur Eddington durante un’eclissi totale di Sole nel 1919.
Egli osservò che il raggio di luce che proveniva da una stella
lontana quando passava in vicinanza del Sole deviava dalla sua
traiettoria rettilinea e percorreva l’avvallamento che l’astro
aveva creato nello spazio circostante dando l’impressione di
essere attratto da esso. Se il corpo in esame fosse molto
pesante come quello di un buco nero la deformazione dello
spazio nelle sue vicinanze sarebbe tale per cui un raggio di
luce che tentasse di uscire da quell’astro si ritorcerebbe su
sé stesso e tornerebbe indietro.
La
gravità non deforma solo lo spazio ma anche il tempo che si
modifica con lo stato di moto dell’osservatore e con la sua
posizione nel punto dell’Universo in cui si trova. Le teorie
relativistiche di Einstein suggeriscono infatti che il tempo
scorre più lentamente se si viaggia a velocità molto elevate e
se si sosta su di un corpo molto pesante: su un buco nero il
tempo dovrebbe fermarsi del tutto. Sul nostro pianeta, per
fare un esempio, il tempo scorre più lentamente a fondo valle
che in alta montagna: la differenza ovviamente è minima ma può
essere verificata con l’utilizzo degli orologi nucleari,
estremamente precisi e sensibili. Gli effetti di un tempo che
si deforma a seconda di come ci stiamo muovendo e di dove ci
troviamo non vengono mai sperimentati nella vita di tutti i
giorni perché non capita mai di viaggiare ad una velocità
prossima a quella della luce (un aereo viaggia solo ad un
milionesimo di quella velocità) e sul nostro pianeta la
gravità è mille miliardi di volte minore di quella che si
registra su una stella di neutroni, che è un oggetto celeste
sensibilmente meno pesante di un buco nero. Resta il fatto che
in pianura, seppure di poco, la gente invecchia più lentamente
che in montagna.
Negli stessi anni in cui fu compiuta l’osservazione che
confermava la validità di una delle caratteristiche della
teoria della relatività generale, Eddington aveva calcolato
che stelle con una massa maggiore di 60 volte quella del Sole
(quindi di gran lunga inferiore rispetto a come le avevano
immaginate Mitchell e Laplace) non potevano esistere perché
sarebbero collassate producendo al loro interno temperature
tali da farle esplodere. Eddington era considerato un fisico
molto competente, ed uno dei pochi esperti della teoria
relativistica di Einstein, ma per nulla modesto: si racconta
che quando un giornalista gli si rivolse affermando di avere
sentito dire che esistevano solo tre persone in grado di
capire la relatività generale egli rimase per un attimo
soprappensiero poi sbottò: “Sto pensando chi possa essere la
terza!”.
1. LE
CARATTERISTICHE DEI BUCHI NERI
Per comprendere meglio il buco nero dobbiamo chiarire il
concetto di velocità di fuga. Immaginiamo allora di scagliare
un sasso verso l’alto: mentre questo sale la forza di
gravitazione lo attrae verso il basso facendogli diminuire la
velocità fino a fermarlo e quindi costringerlo ad invertire la
corsa. Se il sasso venisse scagliato con maggior forza
salirebbe più in alto ma poi ancora una volta invertirebbe il
cammino e cadrebbe a terra. Il campo gravitazionale della
Terra, come abbiamo accennato, non ha lo stesso valore in ogni
luogo e diminuisce vistosamente con l’altezza: esso infatti è
proporzionale al quadrato della sua distanza dal centro del
pianeta. Un oggetto in superficie si trova a circa 6.370
kilometri dal centro della Terra e se venisse posto a 6.370
kilometri di altezza (cioè a distanza doppia dal centro) il
valore del campo si ridurrebbe ad un quarto. Analogamente, se
l’oggetto si portasse ad una distanza tripla l’attrazione si
ridurrebbe ad un nono; se si quadruplicasse la distanza dal
centro della Terra, l’attrazione sarebbe un sedicesimo di
quella in superficie e così via. Da un punto di vista
aritmetico la regola è molto semplice, basta calcolare il
quadrato della distanza e poi l’inverso del numero ottenuto:
se la distanza aumentasse di cinque volte la forza
diventerebbe un venticinquesimo (che è l’inverso di
venticinque). Se si salisse molto in alto il campo
gravitazionale finirebbe per ridursi a zero.
Dai dati esposti sopra si deduce che se un oggetto venisse scagliato verso l’alto con una forza notevole acquisterebbe una velocità tale da sfuggire definitivamente al campo gravitazionale terrestre e non tornerebbe più indietro. La velocità minima perché un oggetto lanciato dalla superficie della Terra verso l’alto possa sfuggire al suo campo gravitazionale si chiama velocità di fuga. Questa velocità è di 11,2 km/s ma sugli altri corpi celesti è diversa e dipende dalla loro massa: sulla Luna, ad esempio, la velocità di fuga è di 2,4 km/s e sul Sole è di 618,2 km/s; in definitiva essa dipende quindi sia dalla massa del corpo sia dalla distanza dal suo centro.
Quando un corpo celeste si contrae il campo gravitazionale
sulla sua superficie diventa più intenso a mano a mano che
diminuisce il volume mentre la massa rimane immutata.
Consideriamo per esempio
Nel 1939 J. Robert Oppenheimer (1904-1967), il fisico
americano che diresse l’équipe
che realizzò la prima bomba atomica, mentre studiava le
caratteristiche fisiche delle stelle di neutroni, considerò le
possibili conseguenze dell’aumento di massa di questo
particolare tipo di corpi celesti. I calcoli lo portarono a
concludere che quando la massa di una stella supera tre volte
quella del Sole il campo gravitazionale si fa talmente intenso
che anche i neutroni a contatto fra loro non riescono più a
sopportare la compressione e letteralmente si sbriciolano. La
stella allora continua a contrarsi e non esiste più alcuna
forza in grado di arrestarne il collasso. In seguito si scoprì
che esistono effettivamente stelle delle dimensioni previste
da Oppenheimer e quindi si prese in seria considerazione il
fatto che nell’Universo potesse avvenire la scomparsa
catastrofica di un astro.
Il
termine “buco nero” fu proposto dal fisico americano John
Archibald Wheeler (1911- ) ed ebbe subito grande successo
soprattutto presso il grosso pubblico. Il nome traeva origine
dall’osservazione che ogni cosa che cadeva nell’oggetto
contratto era come se cadesse in un buco infinitamente
profondo; nemmeno la luce poteva uscire da quel “buco” e
quindi esso doveva apparire “nero”. In verità non tutti
accettarono la definizione che di questi straordinari oggetti
celesti diede Wheeler, così ad esempio i Francesi avvertivano
nel termine trou noir una connotazione oscena e
ritennero di sostituirla con astre occlus (stella
occlusa): una definizione questa che per fortuna non ebbe
seguito.
2.
In teoria dovrebbero poter esistere buchi neri di qualsiasi
grandezza: pesanti meno di un grammo, un miliardo di
tonnellate o un miliardo di masse solari; basta che la massa
sia concentrata in un volume sufficientemente piccolo. Ad
esempio, un buco nero della massa di una montagna sarebbe
grande quanto il nucleo di un atomo (10-13 cm)
mentre un buco nero grande quanto una montagna avrebbe la
massa del Sole.
Si
potrebbe anche immaginare di trasformare in buco nero la massa
più piccola che si conosca, quella dell’elettrone (10-27g),
ma lo impediscono motivi teorici legati alle cosiddette unità
naturali (o standard) di Planck che fissano le grandezze
minime compatibili con le leggi fisiche. Esse sono le
seguenti: massa=2,9×10-5
grammi; distanza=1,61×10-33
centimetri; tempo=5,36×10-44
secondi. Quindi la massa minima capace di trasformarsi in buco
nero non potrebbe essere inferiore a circa 10-
La
densità incredibile del mini-minibuco nero riportata sopra non
deve trarci in inganno. In verità non tutti i buchi neri sono
ugualmente densi: più pesante è un oggetto e meno deve
contrarsi per diventare un buco nero. Per fornire un dato
opposto a quello del mini-minibuco nero si può portare ad
esempio quello dell’intera nostra galassia che ha una massa
pari ad oltre cento miliardi di stelle la quale se venisse
contratta fino a formare un buco nero sarebbe di dimensioni
enormi e avrebbe una densità pari a solo un millesimo
dell’atmosfera che avvolge il nostro pianeta. Lo stesso
Universo potrebbe essere ritenuto un immenso buco nero: fatti
i conti la massa dei mille miliardi di galassie in esso
contenute darebbe un raggio di Schwarzschild di 10 miliardi di
anni luce, esattamente lo stesso valore che viene attribuito
alle dimensioni attuali dell’Universo.
Esistono veramente i buchi neri? Quale meccanismo potrebbe
generare concentrazioni di materia tanto grandi? Abbiamo visto
che per trasformare
Le
stelle che terminano la loro esistenza con una grande
esplosione sono dette supernove e se la massa residua
dell’esplosione è almeno 3,2 masse solari questa si contrae
per divenire un buco nero. Le stelle molto grandi che
terminano la loro esistenza come supernove sono molto più
numerose di quanto si potrebbe pensare. È vero infatti che
nella nostra galassia l’ultima esplosione di una supernova si
è verificata nel 1604 ma gli astrofisici calcolano che questo
fenomeno dovrebbe realizzarsi all’interno di una galassia
mediamente tre volte per secolo. Se ora si considera che la
nostra esiste da dieci miliardi di anni e che le stelle di
grande massa sono molto numerose e hanno vita breve perché
consumano in fretta il loro combustibile nucleare, sembra
ragionevole supporre che nella Via Lattea si siano formati, in
questo lungo lasso di tempo, milioni e forse miliardi di buchi
neri.
Gli astrofisici ritengono che buchi neri di grandi proporzioni
si potrebbero formare dal collasso non di una singola stella
ma di un intero ammasso stellare. Le regioni caratterizzate da
notevole concentrazione di stelle sono il centro delle
galassie e gli ammassi globulari e in quei luoghi si
dovrebbero trovare dei superbuchi neri. Un ammasso globulare
può contenere, raggruppate in una sorta di sfera di densità
relativamente elevata, fino a qualche milione di stelle tutte
in moto più o meno casuale. In seguito alla reciproca
attrazione gravitazionale le stelle non possono sfuggire,
tuttavia capita ogni tanto che qualcuna di esse acquisti una
velocità tale da consentirle di abbandonare l’ammasso. Succede
allora quello che avviene quando le molecole più veloci
abbandonano un liquido caldo: le rimanenti sono mediamente più
lente e il liquido più freddo. Allo stesso modo le stelle che
rimangono nell’ammasso dopo che sono sfuggite le più veloci
sono più lente e quindi tendono a concentrarsi fino a produrre
un collasso generale e di conseguenza un buco nero
supermassiccio. Questi superbuchi neri naturalmente non sono
visibili ma si conoscono molti ammassi globulari all’interno
della nostra galassia, alcuni dei quali presentano un grande
affollamento di stelle verso il centro determinato forse
dall’attrazione generata da un buco nero in formazione.
Un
altro luogo in cui le stelle stanno molto vicine fra loro è il
centro delle galassie e anche qui potrebbe essere presente un
superbuco nero. Ogni galassia, compresa la nostra, dovrebbe
quindi avere al centro un enorme buco nero il quale con la sua
presenza condizionerebbe il movimento delle stelle che stanno
intorno, così come il Sole condiziona il movimento dei
pianeti. Un eventuale buco nero di grandi dimensioni al centro
della Via Lattea non è visibile non solo per le sue
caratteristiche intrinseche, ma anche per la presenza in
quella zona di polveri e di gas che rendono impossibile
individuare con i mezzi di cui attualmente si dispone qualche
particolare effetto dovuto alla presenza del massiccio corpo
celeste.
Più facile sarebbe scoprire un buco nero di grande massa al
centro di un’altra galassia; sembra infatti che alcuni
astronomi americani e inglesi siano riusciti ad individuare
qualche cosa di notevolmente pesante al centro di una galassia
ellittica confrontando il moto molto perturbato delle stelle
vicine al centro con quello di una galassia simile in cui il
movimento delle stelle appare molto più regolare.
Forse anche i quasar, oggetti che sembrano stelle (la parola
“quasar” è l’acronimo di quas(i) (stell)ar (radio source)
= radiosorgente quasi stellare) ma che sprigionano un flusso
di energia superiore a quello di un’intera galassia,
potrebbero contenere nel loro centro dei colossali buchi neri.
Proprio la scoperta di questi misteriosi oggetti celesti,
avvenuta agli inizi degli anni Sessanta dell’altro secolo,
convinse gli astronomi di prendere sul serio la possibilità
dell’esistenza dei buchi neri.
3.
L’OSSERVAZIONE DEI BUCHI NERI
Abbiamo visto che i buchi neri sono oggetti celesti che
divorano ogni cosa senza mai emettere nulla. Non deve essere
quindi molto piacevole trovarsi nelle vicinanze di uno di
questi mostri famelici anche perché a mano a mano che essi
assimilano dall’esterno nuova materia si ingrandiscono e di
conseguenza ampliano il loro raggio d’azione. Corriamo
realmente dei rischi?
Vediamo. Il buco nero che eventualmente si trovasse al centro
della nostra galassia disterebbe da noi 30.000 anni luce, una
distanza che dovrebbe lasciarci tranquilli. L’ammasso
globulare più vicino a noi si trova nell’agglomerato di stelle
noto come Omega Centauri a 22.000 anni luce ed anche questa è
una distanza di tutta sicurezza. I buchi neri che si trovano
al centro delle altre galassie o nelle lontane quasar ci
lasciano del tutto indifferenti.
Quelli che abbiamo analizzato finora sono tutti superbuchi
neri, ma poi vi sono i buchi neri di dimensioni stellari i
quali sono molto più numerosi dei primi ed anche
presumibilmente più vicini a noi. Per definizione un buco nero
è invisibile. Come possiamo fare per rintracciare questi corpi
celesti? Essi non solo non emettono luce ma nemmeno altre
radiazioni simili, è pertanto impossibile localizzarli
attraverso le onde elettromagnetiche. Vi sono tuttavia le onde
gravitazionali che sono emesse da masse accelerate così come
quelle elettromagnetiche sono prodotte da cariche elettriche
in moto. Le onde gravitazionali nel loro aspetto corpuscolare
si chiamano gravitoni così come gli aspetti
corpuscolari delle onde elettromagnetiche si chiamano
fotoni. I gravitoni però, anche se emessi da corpi molto
massicci sono alcuni milioni di miliardi di volte meno
energetici dei fotoni e quindi non è facile intercettarli: si
calcola che fra tutti i corpi celesti solo alcune pulsar o i
buchi neri più massicci potrebbero esprimere una potenza
gravitazionale rilevabile. I buchi neri, però, oltre che
massicci sono anche molto lontani e quindi l’energia liberata
dovrebbe arrivare agli apparecchi di rilevazione attenuata
così come attenuata arriva la luce di galassie molto lontane.
Un
tentativo di intercettare i gravitoni fu compiuto verso la
fine degli anni Sessanta del secolo scorso dal fisico
americano Joseph Weber (1919- ) il quale sistemò alcuni grandi
cilindri di alluminio a centinaia di kilometri di distanza
l’uno dall’altro. Questi oggetti avrebbero dovuto subire
leggere compressioni ed espansioni causate dall’arrivo di onde
gravitazionali le quali sono anch’esse fonti di gravità. Al
termine dell’esperimento il fisico americano dichiarò di
essere riuscito ad intercettare onde gravitazionali
provenienti dal centro della Galassia dove si starebbero
verificando eventi di straordinaria violenza. L’esperienza di
Weber venne ritentata più volte da altri fisici ma sempre con
risultati negativi e quindi il metodo fu abbandonato.
Nemmeno la ricerca di effetti causati da lente gravitazionale
ha dato i frutti sperati. Il metodo è il seguente: se sulla
linea che congiunge una galassia lontana alla Terra si
trovasse un buco nero che con la sua presenza incurvasse
intorno a sé lo spazio, la luce proveniente dalla galassia
lontana verrebbe deviata dal buco nero invisibile e fatta
convergere in un fuoco con un effetto simile a quello creato
da una lente. Se quindi si osservasse una galassia
eccezionalmente grande, in rapporto alla sua distanza si
potrebbe pensare che fra noi e la galassia lontana potesse
esserci un buco nero. Fino ad ora non è stato osservato alcun
fenomeno del genere.
Vi
è infine un’altra osservazione che potrebbe metterci sulla
strada giusta per individuare la presenza di un buco nero:
essa sarebbe generata dall’effetto che la materia la quale sta
intorno al buco nero produrrebbe cadendo in esso. Se nelle
vicinanze del buco nero vi fosse della materia questa
finirebbe per precipitare nel buco nero e, seguendo una
traiettoria a spirale, si riscalderebbe enormemente con
conseguente emissione di raggi X. In verità se nel buco nero
cadesse un po’ di polvere interstellare non si vedrebbe nulla
ma se vicino al buco nero vi fosse una stella di grandi
dimensioni in esso precipiterebbe molta materia e la
produzione dei raggi X sarebbe tale da poter essere rilevata
anche a notevole distanza.
L’astronomia dei raggi X è uno fra i grandi progressi
tecnologici compiuti in anni recenti. Poiché i raggi X non
penetrano nell’atmosfera terrestre, queste osservazioni devono
essere fatte dallo spazio per mezzo di speciali telescopi
trasportati da satelliti artificiali. Nel dicembre del 1970 fu
lanciato da una piattaforma dell’Oceano Indiano uno dei tanti
satelliti della serie Explorer battezzato Uhuru (che
nella lingua parlata dal gruppo bantu che abita le aree
costiere del Kenia significa “libertà”). Il satellite Uhuru
con a bordo un telescopio a raggi X era il risultato
dell’impegno dell’italiano Riccardo Giacconi (1931- ) premio
Nobel per la fisica nel 2002 e del suo team della
Harvard University. Le osservazioni, protrattesi per un tempo
molto più lungo di quello realizzato in precedenza con
l’utilizzo di razzi e palloni sonda, permisero di costruire
una mappa del cielo molto dettagliata e precisa.
Raggi X vengono emessi anche dalle pulsar ma in tal caso gli
impulsi sono regolari mentre quelli provenienti da un buco
nero presenterebbero variazioni irregolari. Nel 1965 venne
localizzata nella costellazione del Cigno una sorgente di
raggi X che fu battezzata Cygnus X-1. Successivamente venne
individuata nei pressi di Cygnus X-1 una stella molto grande e
molto calda che sembra essere il rifornitore di materia al
buco nero. Da allora sono stati osservati altri sistemi binari
nei quali una stella della coppia potrebbe essere un buco
nero, ma non tutti gli astronomi sono di questa opinione.
A
che distanza dal nostro pianeta potrebbe trovarsi un buco nero
di dimensioni stellari? Se questi oggetti all’interno della
nostra galassia fossero distribuiti come lo sono le stelle
essi sarebbero più numerosi nella zona centrale, dove vi è un
maggiore addensamento di stelle, e più rari nelle braccia a
spirale, dove le stelle sono più rarefatte e dove è anche
ubicato il nostro sistema solare. In questa zona il buco nero
più vicino a noi potrebbe trovarsi a qualche centinaio di anni
luce, una distanza anche questa che dovrebbe lasciarci dormire
sonni tranquilli.
4. I
MINIBUCHI NERI
Abbiamo visto che la teoria della relatività generale prevede
che possano esistere buchi neri praticamente di qualsiasi
grandezza purché la massa non sia inferiore a 10-
L’idea che nella primissima fase di vita dell’Universo le
enormi pressioni e temperature esistenti avrebbero potuto
produrre qua e là buchi neri di tutte le dimensioni anche
pesanti pochi grammi fu avanzata dal fisico inglese Stephen
Hawking nel 1971. Non vi sono prove a favore della presenza di
minibuchi neri primordiali ma se questi esistessero è molto
probabile che oggi il loro numero possa essere assai maggiore
di quello dei buchi neri di dimensioni stellari (è noto
infatti che fra ogni classe di corpi celesti le varietà minori
sono più numerose di quelle maggiori). È bene dire subito che
non tutti gli astronomi sono d’accordo con l’ipotesi di
Hawking ma coloro che ritengono verosimile l’idea del fisico
inglese vedono minibuchi neri disseminati in ogni dove.
Alcuni astrofisici pensano che buchi neri grandi quanto un
protone potrebbero stare all’interno dei pianeti e quindi
anche della Terra. Un minibuco nero al centro del nostro
pianeta giustificherebbe con la sua presenza l’alta densità
ivi esistente e non sarebbe necessario formulare l'ipotesi
della materia solare indifferenziata o del nocciolo massiccio
di ferro e nichel. I buchi neri, come abbiamo visto, catturano
materia da ciò che sta loro intorno, ma in questo caso è
possibile che l’oggettino invisibile possa essersi scavato una
nicchia nel cuore della Terra e quindi accrescersi ad un ritmo
molto lento corrodendo in modo impercettibile il pianeta, come
fa un parassita con il suo ospite.
Alcuni geofisici si spingono oltre e immaginano la presenza
di mini buchi neri anche sotto la crosta terrestre, il che
giustificherebbe l'esistenza dei cosiddetti pennacchi (plume
in inglese) cioè quelle colonne relativamente stazionarie di
materiale incandescente che generano in superficie del pianeta
vulcani detti di “punto caldo”. I punti caldi sono luoghi
della superficie terrestre che rimangono fissi mentre le
placche scivolano lentamente su di essi. Di tanto in tanto nei
suddetti punti si formano dei vulcani che rimangono attivi
fino a quando, superato il punto caldo, non si estinguono.
L’arcipelago delle Hawaii si sarebbe formato in corrispondenza
di un punto caldo e il vulcano posto sull’isola maggiore,
proprio perché di formazione recente, è ancora attivo.
Minibuchi neri effettivamente potrebbero produrre calore
sufficiente a giustificare la formazione di punti caldi, ma la
loro presenza è poco credibile perché un buco nero seppure di
minime dimensioni posizionato vicino alla superficie
sprofonderebbe immediatamente al centro del pianeta.
Secondo gli scienziati esperti di fisica terrestre esisterebbe anche un metodo per convalidare la presenza di minibuchi neri all'interno del nostro pianeta: essi dovrebbero emettere neutrini. In verità di recente (luglio 2005) un gruppo di scienziati, di cui fa parte anche il fisico italiano Giorgio Gatta, ha progettato uno strumento in grado di identificare i neutrini provenienti dal nucleo terrestre. L'esperimento ha segnalato effettivamente un flusso di neutrini (più precisamente antineutrini) che potrebbe avere avuto origine al centro della Terra. I fisici ritengono tuttavia che la fonte di tali particelle sarebbe il decadimento radioattivo di uranio e torio: un fenomeno che non ha attinenza alcuna con i minibuchi neri.
Alcuni fisici, anziché ritenere che si adagino all'interno del
pianeta, pensano che i piccoli buchi neri possano entrare in
collisione con esso: il loro passaggio attraverso l’atmosfera
e
Nell’estate del 1908 nella regione di Tunguska, in Siberia,
ebbe luogo un fenomeno che è stato sempre considerato
conseguenza dell’impatto di un grande meteorite; nella zona,
su di una superficie di molti kilometri quadrati, tutti gli
alberi risultarono abbattuti e il bestiame ucciso, ma in quel
luogo non furono trovati crateri o resti di meteoriti. Fra le
tante ipotesi avanzate (compresa la caduta di un’astronave
pilotata da extraterrestri!) vi è anche quella recente di un
minibuco nero entrato in collisione con la Terra. Dopo
l’impatto nella zona della Siberia centrale il minibuco nero
avrebbe attraversato il pianeta e quindi sarebbe uscito dalla
parte opposta notevolmente ingrandito per proseguire il suo
viaggio nello spazio. Abbiamo prove di tutto ciò? Nemmeno una:
si tratta, come per tutte le altre ipotesi che sono state
avanzate, di pura speculazione.
5. LE
ULTIME FRONTIERE DEL PENSIERO
Ma i buchi neri non hanno mai smesso di creare sorprese. Come
molti sanno, la meccanica newtoniana (e anche quella
quantistica) non ha una preferenza per la direzione del tempo.
Se ad esempio si girasse un film dei pianeti che orbitano
intorno al Sole e poi lo si proiettasse alla rovescia il
movimento contrario obbedirebbe alla teoria gravitazionale di
Newton tanto quanto quello originale ed esso potrebbe anche
essere il movimento effettivo di pianeti di qualche lontano
sistema solare.
Il
fatto che alcune leggi della fisica siano simmetriche rispetto
al tempo ha indotto alcuni scienziati a pensare che se
esistono i buchi neri dovrebbero esistere anche i buchi
bianchi, cioè oggetti celesti da cui possono uscire materia ed
energia, mentre né questa né quella potrebbero entrarvi. Se,
analogamente a ciò che abbiamo visto per i pianeti che girano
intorno al Sole, filmassimo un buco nero e poi proiettassimo
la pellicola all’indietro, quello che vedremmo sarebbe un buco
bianco, cioè qualcosa che all'implosione sostituisce
l'esplosione. Se le cose stanno in questi termini la materia
che entra in un buco nero potrebbe uscire da un buco bianco
sistemato in un luogo lontano del nostro o anche di un altro
Universo. Questo sarebbe un metodo ideale per fare lunghi
viaggi nello spazio qualora, almeno teoricamente, si potesse
specificare che cosa diventi la materia inghiottita da un buco
nero. Si tratta comunque di argomenti adatti più a scrittori
di fantascienza che a fisici.
Esaminando le implicazioni fisiche di un fenomeno come quello
dei buchi bianchi alla luce della teoria della meccanica
quantistica che include il principio di indeterminazione, il
fisico inglese Stephen Hawking giunse alla conclusione che
questi astri inconsueti non dovrebbero essere così neri come
si era sempre pensato ma dovrebbero emettere particelle e
radiazioni ad un ritmo costante: dovrebbero, in altri termini,
lentamente evaporare.
Il
principio di indeterminazione stabilisce che è impossibile
misurare con esattezza assoluta la posizione e la velocità di
una particella elementare: con quanta maggiore precisione si
tenta di misurare la posizione di una particella, tanto meno
esattamente se ne potrà misurare la velocità, e viceversa. E
questa mancanza di precisione assoluta varrebbe anche per
altre grandezze fisiche complementari, come ad esempio energia
e tempo. Ciò implica che nei processi subatomici potrebbe
essere violata qualsiasi legge fisica.
Vediamo allora in che modo da un buco nero potrebbero evadere
particelle elementari e radiazione. Il principio di
indeterminazione di cui si è detto consentirebbe ad esempio
alle particelle di viaggiare per brevi tratti ad una velocità
superiore a quella della luce: se la direzione fosse quella
giusta qualche cosa di materiale potrebbe uscire da un buco
nero alleggerendolo. Lo stesso principio prevede che si
potrebbero materializzare coppie di particelle di materia ed
antimateria in un luogo qualsiasi dell’Universo (quindi anche
in luoghi dove si ritiene non vi sia alcunché) ma queste
particelle subito dopo essere apparse dovrebbero sparire per
non violare la legge di conservazione di massa ed energia. La
meccanica quantistica prevede quindi che anche nello spazio
vuoto vi sia una continua creazione e distruzione di
particelle virtuali (così chiamate perché non possono essere
osservate direttamente come avviene invece per quelle reali).
Hawking verso la fine del 1973 scoprì che se le particelle
virtuali si formassero nei pressi dell’orizzonte degli eventi
una delle due potrebbe essere catturata dal buco nero e finire
al suo interno, mentre l’altra sarebbe libera di volare via.
L’energia necessaria per questa operazione verrebbe fornita
dallo stesso buco nero che la sottrarrebbe a quella
gravitazionale. Se un buco nero perde energia (e quindi massa
per E=mc2) pian piano evapora. Questa lenta
evaporazione conseguente alla fuga di particelle subatomiche
fa sì che il buco nero si comporti come un corpo ad alta
temperatura che si innalza ulteriormente a mano a mano che
l’oggetto celeste perde materia. Tuttavia i calcoli mostrano
che i buchi neri di grandi dimensioni presentano una
temperatura piuttosto bassa e perdono materia con lentezza
esasperante tanto che perché essi evaporino completamente ci
vorrebbero miliardi di miliardi di miliardi… di anni (1066
anni per un buco nero della massa del Sole); nel frattempo
però essi reintegrerebbero la massa perduta assorbendo altre
particelle e divenendo in definitiva sempre più grandi e non
più piccoli.
Le
conseguenze dell’evaporazione sarebbero invece diverse per i
minibuchi neri da cui le particelle sfuggirebbero in
abbondanza. In quest’ultimo caso si è calcolato infatti che il
rimpicciolimento e il conseguente riscaldamento
faciliterebbero l’evasione di un sempre maggior numero di
particelle, tanto che la fase finale dell’evaporazione
procederebbe così in fretta da concludersi con una tremenda
esplosione. Questa esplosione finale produrrebbe una
grandissima quantità di raggi gamma ad alta energia che
potrebbe facilmente essere registrata perché genererebbe
nell’atmosfera una pioggia di coppie elettroni-positoni che
provocherebbero a loro volta un lampo di luce rilevabile da
terra. Si calcola che molti minibuchi neri primordiali abbiano
avuto il tempo nei 15 miliardi di anni di vita dell’Universo
di evaporare completamente ma ne rimarrebbero in vita ancora
molti alcuni dei quali sarebbero molto vicini alla Terra: ve
ne potrebbe essere uno alla distanza a cui si trova Plutone,
l’ultimo pianeta del sistema solare.
Per concludere dobbiamo accennare ad una questione di non
secondaria importanza. Come abbiamo visto, attualmente i buchi
neri inghiottono tutto ciò che ad essi si avvicina, ma forse
non è sempre stato così. All’inizio dei tempi nell’Universo la
materia era disposta in modo uniforme e regolare ma poi,
secondo meccanismi ancora inspiegabili, si produssero numerosi
addensamenti locali. Questi accumuli di materia potrebbero
essere stati favoriti proprio da minibuchi neri formatisi in
grande quantità durante il big bang: essi, fungendo da nucleo,
avrebbero aggregato i gas dispersi in stelle. Successivamente
i buchi neri di dimensioni maggiori avrebbero attratto le
stelle raggruppandole in galassie. Per avere la prova di
questa ipotesi si dovrebbe poter osservare i minibuchi neri e
quelli supermassicci che stanno al centro della nostra e di
altre galassie. La cosa, come abbiamo visto, non è per nulla
facile.
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