Caso:
INCENERITORI E NANOPATOLOGIE
Ormai non esiste più alcun
dubbio a livello scientifico: le micro- e nanoparticelle,
comunque prodotte, una volta che siano riuscite a penetrare
nell’organismo innescano tutta una serie di reazioni che
possono tramutarsi in malattie. Le nanopatologie, appunto.
Se è vero che le manifestazioni patologiche più comuni sono
forme tumorali, è altrettanto vero che malformazioni fetali,
malattie infiammatorie, allergiche e perfino neurologiche
sono tutt’altro che rare. A prova di questo, basta osservare
ciò che accade ai reduci, militari o civili che siano, delle
guerre del Golfo o dei Balcani o a chi sia scampato al
crollo delle Torri Gemelle di New York e di quel crollo ha
inalato le polveri.
“Comunque prodotte”, ho scritto sopra a proposito di queste
particelle che sono inorganiche, non biodegradabili e non
biocompatibili. E l’ultimo aggettivo è sinonimo di
patogenico. Il fatto, poi, che siano anche non
biodegradabili, vale a dire che l’organismo non possieda
meccanismi per trasformarle in qualcosa di eliminabile,
rende l’innesco per la malattia “eterno”, dove l’aggettivo
eterno va inteso secondo la durata della vita umana.
Le particelle di cui si è detto hanno dimensioni
piccolissime, da qualche centesimo di millimetro fino a
pochi milionesimi di millimetro, e più queste sono piccole,
più la loro capacità di penetrare intimamente nei tessuti è
spiccata; tanto spiccata da riuscire perfino, in alcune
circostanze e al di sotto di dimensioni inferiori al micron
(un millesimo di m millimetro), a penetrare nel nucleo delle
cellule senza ledere la membrana che le avvolge. Come questo
accada sarà il tema di un incipiente progetto di ricerca
europeo che vedrà coinvolto come coordinatore il nostro
gruppo.
Se è vero che la natura è una produttrice di queste polveri,
e i vulcani ne sono un esempio, è pure vero che le polveri
di origine naturale costituiscono una frazione minoritaria
del totale che oggi si trova sia in atmosfera (atmosfera
significa ciò che respiriamo) sia depositato al suolo, ed è
pure vero che la loro granulometria media è, tutto sommato,
relativamente grossolana.
È l’uomo il grande produttore di particolato, soprattutto
quello più fine. Questo perché la tecnologia moderna è
riuscita ad ottenere a buon mercato temperature molto
elevate a cui eseguire le più svariate operazioni, e, in
linea generale e a parità di materiale bruciato, più elevata
è la temperatura alla quale un processo di combustione
avviene, minore è la dimensione delle particelle che ne
derivano. A questo proposito, occorre anche tenere conto del
fatto che ogni processo di combustione, nessuno escluso,
produce particolato, sia esso primario o secondario. Per
particolato primario s’intende quello che nasce direttamente
nel crogiolo, per secondario, invece, quello che origina
dalla reazione tra i gas esalati dalla combustione (tra gli
altri, ossidi di azoto e di zolfo) e la luce, il vapor
d’acqua e i composti principalmente organici che si trovano
in atmosfera.
Al momento attuale, la legge prescrive che l’inquinamento
particolato dell’aria sia valutato determinando la
concentrazione di particelle che abbiano un diametro
aerodinamico medio di 10 micron - le ormai famose PM10 - e
prescrive che la valutazione avvenga per massa. Nulla si
dice ancora, invece, a proposito delle polveri più sottili:
le PM2,5 (cioè particelle con un diametro aerodinamico medio
di 2,5 micron), le PM1 (diametro da 1 micron) e le PM0,1
(diametro da 0,1 micron). Sono proprio quelle le polveri
realmente patogene, con una patogenicità che cresce in modo
quasi esponenziale con il diminuire del diametro. E per
avere un’idea degli effetti sulla salute di queste poveri
occorre che le particelle siano non pesate ma classificate
per dimensione e contate. Dal punto di vista pratico, la
massa di una particella da 10 micron corrisponde a quella di
64 particelle da 2,5 micron, oppure di 1.000 da un micron,
oppure, ancora, a quella di 1.000.000 di particelle da 0,1
micron. Perciò, valutare il particolato in massa e non per
numero e dimensione delle particelle non dà indicazioni
utili dal punto di vista sanitario e può, anzi, essere
fuorviante.
Venendo al problema dell’inquinamento da rifiuti, è ovvio
che questi debbano, in qualche modo, essere smaltiti.
A questo punto, è necessario ricordare la cosiddetta legge
di Lavoisier o della conservazione della massa. Questa
recita che in una reazione chimica la massa delle sostanze
reagenti è uguale alla massa dei prodotti di reazione. Il
che significa che, secondo le leggi che regolano l’universo,
noi riusciamo solo a trasformare le sostanze, ma non ad
annullarne la massa.
Ciò che avviene quando s’inceneriscono i rifiuti, dunque,
altro non è se non la loro trasformazione in qualcosa
d’altro, e questa trasformazione è ottenuta tramite
l’applicazione di energia sotto forma di calore.
Stante tutto ciò che ho scritto sopra e che è notissimo sia
tra gli scienziati sia tra gli studenti delle scuole medie,
se noi bruciamo l’immondizia, altro non facciamo se non
trasformarla in particelle tanto piccole da farle scomparire
alla vista e, con i cosiddetti “termovalorizzatori” – una
parola che esiste solo in Italiano e che evoca l’idea
ingenuamente falsa che si ricavi valore economico
dall’operazione – la trasformazione produce particelle
ancora più minute e, dunque, più tossiche.
Malauguratamente, non esiste alcun tipo di filtro
industriale capace di bloccare il particolato da 2,5 micron
o inferiore a questo, ma, dal punto di vista dei calcoli che
si fanno in base alle leggi vigenti, questo ha ben poca
importanza: il “termovalorizzatore” produce pochissimo PM10
(peraltro, la legge sugl’inceneritori prescrive ancora la
ricerca delle cosiddette polveri totali ed è, perciò, ancora
più arretrata) e la quantità enorme di altro particolato non
rientra nelle valutazioni. Ragion per cui, a norma di legge
l’aria è pulita. Ancora malauguratamente, tuttavia,
l’organismo non si cura delle leggi e le patologie da
polveri sottili (le PM10 sono tecnicamente polveri
grossolane), un tempo ignorate ma ora sempre più conosciute,
sono in costante aumento. Tra queste, le malformazioni
fetali e i tumori infantili.
Tornando ala legge di Lavoisier, uno dei problemi di cui
tener conto nell’incenerimento dei rifiuti è la quantità di
residuo che si ottiene. Poiché nel processo d’incenerimento
occorre aggiungere all’immondizia calce viva e una rilevante
quantità d’acqua, da una tonnellata di rifiuti bruciata
escono una tonnellata di fumi, da 280 a 300 kg di ceneri
solide, 30 kg di ceneri volanti (la cui tossicità è enorme),
650 kg di acqua sporca (da depurare) e 25 kg di gesso. Il
che significa il doppio di quanto si è inteso “smaltire”,
con l’aggravante di avere trasformato il tutto in un
prodotto altamente patogenico. E in questo breve scritto si
tiene conto solo del particolato inorganico e non di tutto
il resto, dalle diossine (ridotte in quantità ma non
eliminate dall’alta temperatura), ai furani, agl’idrocarburi
policiclici, agli acidi inorganici (cloridrico, fluoridrico,
solforico, ecc.), all’ossido di carbonio e quant’altro.
Affermare, poi, che incenerire i rifiuti significa non
ricorrere più alle discariche è un ulteriore falso, dato che
le ceneri vanno “smaltite” per legge (decreto Ronchi) in
discariche per rifiuti tossici speciali di tipo B1.
Si mediti, poi, anche sul fatto che l’incenerimento comporta
il mancato riciclaggio di materiali come plastiche, carta e
legno. I “termovalorizzatori” devono funzionare ad alta
temperatura e, per questo, hanno bisogno di quei materiali
che possiedono un’alta capacità calorifica, vale a dire
proprio le plastiche, la carta e il legno che potrebbero e
dovrebbero essere oggetto di tutt’altro che difficile
riciclaggio.
Tralascio qui del tutto il problema economico perché non
rientra nell’argomento specifico, ma il bilancio energetico
è fallimentare e, se non ci fossero le tasse dei cittadini a
sostenere questa forma di trattamento dei rifiuti, a nessuno
verrebbe mai l’idea di costruire impianti così irrazionali.
Rimandando per un trattamento esaustivo dell’argomento ai
numerosi testi che lo descrivono compiutamente, compresi i
siti Internet dell’ARPA e di varie AUSL, la conclusione che
qualunque scienziato non può che trarre è che incenerire i
rifiuti è una pratica che non si regge su alcun razionale.
Ma, al di là della scienza, il sensus communis del buon
padre di famiglia che per i Romani era legge può costituire
un’ottima guida. Usare i cosiddetti “termovalorizzatori”
spacciandoli per un miglioramento tecnico, poi, non fa che
peggiorare la situazione dal punto di vista del nanopatologo,
ricorrendo questi a temperature più elevate.
Perciò, una pratica simile non può essere in alcun modo
presa in considerazione come alternativa per la soluzione
del problema legato allo smaltimento dei rifiuti, se non
altro perché i rifiuti non vengono affatto smaltiti ma
raddoppiati come massa e resi incomparabilmente più nocivi.
Dott. Stefano
Montanari – Direttore Scientifico del laboratorio
Nanodiagnostics
Via E. Fermi, 1/L – 41057 San Vito (Modena)
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