Card. Walter Kasper
Unitatis
redintegratio: carattere vincolante
Svalutare
il decreto conciliare sull'ecumenismo Unitatis redintegratio significa «collocarsi
al di sopra di un Concilio ecumenico», «dell'autentico magistero della Chiesa»,
«della vita della Chiesa» e «resistere allo Spirito». In un articolo
apparso su L'Osservatore romano, il card. W. Kasper, presidente del
Pontifìcio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, affronta il
tema del «carattere teologicamente vincolante» del decreto. Tema questo
troppo trascurato nel dopo-Concilio, e che oggi, di fronte a una fase nuova,
irta di difficoltà, del dialogo ecumenico necessita di essere ripreso. Il
decreto sull'ecumenismo va interpretato assieme alla stessa costituzione dogmatica
Lumen gentium, secondo quanto affermato da Paolo VI. Anzi, tutti i testi
conciliari vanno letti in prospettiva ecumenica, poiché l'intero Concilio ebbe
nell'avvicinamento delle Chiese uno degli scopi della sua convocazione. Vi è
un'ermeneutica ecumenica del Concilio e vi è un grado di obbligatorietà del
magistero autentico in materia di ecumenismo che vanno ripresi. L'articolo di
Kasper impegna il suo dicastero e la Santa Sede a una maggiore coerenza nella
ricezione dell'insegnamento conciliare,
Cf.
L'Osservatore romano 9.11.2003, 6. Sottotitoli redazionali.
Il concilio
Vaticano II ha riconosciuto, nel decreto Unitatis redintegratio, che il
movimento ecumenico è un segno dell'attività dello Spirito Santo e ha affermato
di ritenere la promozione di tale movimento uno dei suoi compiti principali.
Oggi, dopo 40 anni, il movimento ecumenico si trova in una situazione mutata.
Accanto ai progressi, si sente il peso di vecchie e nuove divisioni: il
processo di avvicinamento dura, evidentemente, più a lungo di quanto molti
pensassero in una prima ottimistica fase. Non mancano poi voci impazienti, che,
contro la dichiarata intenzione del Concilio (cf. Unitatis redintegratio,
n. 11) e dietro il miraggio di pretese soluzioni, saltano a piè pari i problemi
e fraintendono il movimento ecumenico, che pensano erroneamente di favorire
cedendo al relativismo dogmatico, all'indifferentismo e al puro pragmatismo.
Sia le
difficoltà, sia i fraintendimenti portano, talvolta, a guardare al movimento
ecumenico con diffidenza. Allora, spesso si mette in dubbio il carattere
teologicamente vincolante del decreto conciliare Unitatis redintegratio.
Come argomento, si adduce che tale documento non è una costituzione dogmatica,
ma solo un decreto, che non ha carattere dottrinale vincolante - o
tutt'al più lo possiede in forma minima - e ha solamente importanza pastorale e
disciplinare.
Dignità della pastorale
I.
A prima vista questa tesi sembra evidente. In realtà, se si osservano le cose
con più precisione, non lo è affatto. Comunque, tale tesi non può esser dedotta
dal solo uso delle parole. Infatti, il concilio di Trento ha solo decreti; però
sotto tale nome ha approvato documenti dogmaticamente importanti e vincolanti.
A differenza di Trento, il Vaticano II distingue tra costituzioni e decreti;
però il Concilio non ha spiegato questa differenziazione, o, almeno, non in
modo da giustificare la tesi suddetta.
Le
dichiarazioni di papa Paolo VI all'atto della solenne promulgazione di Unitatis
redintegratio vanno in un'altra direzione. Già all'inizio della seconda
sessione del Concilio, il papa, in un discorso di carattere fondamentale,
dichiarò che l'avvicinamento ecumenico era uno degli scopi - per così dire il
dramma spirituale - in ragione del quale il Concilio era stato convocato [1].
Se si tiene in debito conto questa dichiarazione, tutti i testi del Concilio
debbono essere letti in prospettiva ecumenica. Quando fu promulgato il decreto
sull'ecumenismo, alla fine della terza sessione (assieme alla costituzione
dogmatica sulla Chiesa), il papa Paolo VI affermò che il decreto spiega e
completa la costituzione sulla Chiesa: «ea doctrina, explicationibus
completa in schemate "De Oecumenismo" comprehensis, [...]» [2].
Egli ha dunque strettamente collegato, quanto a importanza teologica, tale
decreto alla costituzione sulla Chiesa. Infine, nella sua allocuzione
conclusiva dell'8 dicembre 1965 (d'accordo con il discorso di apertura del papa
Giovanni XXIII [3]) dichiarò
che il Concilio nel suo complesso, e quindi anche la costituzione dogmatica,
aveva un orientamento pastorale. E non lasciò dubbi circa il fatto che
l'orientamento pastorale non escludeva né relativizzava i pronunciamenti
dottrinali, ma, al contrario, aveva come fondamento l'insegnamento della
Chiesa.[4]
Effettivamente,
non c'è pastorale che meriti tale nome senza fondamento nell'insegnamento della
Chiesa; ma non c'è neppure insegnamento della Chiesa che sia solo dottrina
senza scopi pastorali. Già il concilio Vaticano I aveva dichiarato che
l'insegnamento della Chiesa deve essere interpretato in vista del destino
ultimo dell'uomo (cf. DS 3016). Perciò, così come la pastorale deve
lasciarsi guidare dall'insegnamento della Chiesa, allo stesso modo quest'ultimo
deve essere interpretato guardando all'uomo e al suo destino, cioè in senso pastorale.
Quindi il punto di vista della salus animarum quale suprema lex è un
fondamentale principio d'interpretazione non solo del diritto canonico (cf. CIC
1752), ma anche dell'insegnamento della Chiesa.
Derivano
da qui importanti punti di vista per l'ermeneutica dei testi conciliari. Come
non è lecito separare Unitatis redintegratio da Lumen gentium e
interpretare il decreto nel senso di un relativismo dogmatico e di un
indifferentismo, allo stesso modo Unitatis redintegratio indica in quale
direziono debbono essere spiegate le asserzioni (in più di un punto di vista
aperte) di Lumen gentium; cioè nel senso di un'apertura ecumenica
teologicamente responsabile. Dunque l'opposizione fra carattere dottrinalmente
vincolante da una parte e carattere pastorale o disciplinare dall'altra non
esiste. Voler degradare dal punto di vista teologico il decreto sull'ecumenismo
andrebbe piuttosto in senso contrario all'intenzione ecumenica globale del
concilio Vaticano II.
Un giudizio differenziato
II. Respingere
la svalutazione globale di Unitatis redintegratio non vuol dire,
tuttavia, che ogni problema sia risolto. Al contrario, è proprio ora che inizia
il compito della corretta interpretazione del decreto. E se di ciò si tratta,
il carattere vincolante può essere solo differenziato e scalare. Questo si
deduce già dalla risposta che la Commissione teologica, alla fine del dibattito
sulla costituzione relativa alla Chiesa, dette alla domanda circa il carattere
vincolante della medesima.
«Un testo del
Concilio è da interpretare, ovviamente, sempre d'accordo con le regole
generali, da tutti conosciute». Il che significa che bisogna accettare e
mantenere le affermazioni del Concilio «in conformità all'intenzione dello
stesso santo sinodo, come essa risulta, secondo i fondamenti
dell'interpretazione teologica, dall'oggetto trattato o dal modo di
esprimersi».[5]
Allo stesso
risultato condusse l'ampio dibattito conciliare sul titolo della costituzione
pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes. In tale
dibattito il termine pastorale e il suo significato teologico furono
ampiamente discussi. Come risultato, un'annotazione a detto titolo stabilisce
espressamente: «Essa [la costituzione] è detta pastorale perché, poggiando su
principi dottrinali, vuole illustrare il rapporto della Chiesa con il mondo di
oggi. Così che né manca nella prima parte la finalità pastorale, né manca nella
seconda parte la finalità dottrinale», anche se questa parte «contiene non solo
elementi immutabili, ma anche elementi storicamente condizionati». In sintesi
si afferma: «La costituzione deve essere dunque interpretata secondo le regole
d'interpretazione generali della teologia».[6]
Un dibattito
simile, anche se meno ampio di quello sulla Gaudium et spes, avvenne
quando si discusse Unitatis redintegratio. Il risultato fu
oggettivamente lo stesso. Il Concilio, proprio per evitare un falso irenismo e
un ecumenismo puramente pragmatico, non accolse la proposta di alcuni padri
conciliari di eliminare dal testo tutto quello che fosse teologia.[7]
Il Concilio
volle mantenere fermo il principio secondo cui le affermazioni pastorali
riposano sui principi dogmatici e, d'altra parte, le affermazioni pastorali
rapportano i principi dogmatici alle concrete situazioni storiche. E siccome le
situazioni storiche sono in genere complesse e, come tali, suscettibili di
valutazioni perfettibili alla luce di indagini più approfondite, le
affermazioni concernenti avvenimenti storici con riflessi in ambito teologico
devono essere prese secondo le regole interpretative vigenti in teologia, così
da non compromettere il valore di elementi dottrinali eventualmente presenti in
esse.
Purtroppo -
come mostra, non da ultimo, la discussione circa il carattere teologicamente
vincolante di Unitatis redintegratio - nel periodo postconciliare la
conoscenza delle regole d'interpretazione della teologia e la dottrina delle
qualificazioni teologiche sono state troppo dimenticate [8].
Vale la pena di recuperarle. Al riguardo, il Vaticano II ha offerto, nella Lumen
gentium, il suo contributo, distinguendo fra dichiarazioni infallibili e
magistero autentico, e spiegando che il grado di obbligatorietà di quest'ultimo
si deve riconoscere «sia dalla natura dei documenti, sia dal frequente
riproporre la stessa dottrina, sia dal tenore dell'espressione verbale» (n.
25).
Queste
distinzioni debbono essere tenute in conto quando si tratta del carattere
teologicamente vincolante di Unitatis redintegratio. La questione dunque
non è semplicemente: questo testo conciliare è - sì o no - vincolante? Bisogna,
piuttosto, distinguere, all'interno dei documenti, le differenti modalità e i
diversi gradi di obbligatorietà, e questo deve essere portato alla luce volta
per volta, concretamente.
Se questo si
attua, difficilmente si potrà contestare che il primo capitolo di Unitatis
redintegratio (in cui vengono esposti i «principi cattolici
dell'ecumenismo») contenga affermazioni vincolanti, che o sintetizzano o
sviluppano ulteriormente le corrispondenti affermazioni di Lumen gentium.
Citazioni esplicite di affermazioni dogmatiche dei concili precedenti (il IV
concilio Lateranense, il II concilio di Lione, il concilio di Firenze, il
concilio Vaticano I) confermano che si tratta di affermazioni teologicamente
vincolanti, anche se non si tratta sempre di definizioni infallibili obbliganti
in modo ultimativo. Al contrario, soprattutto nel terzo capitolo (relativo alle
«Chiese e Comunità ecclesiali separate dalla sede apostolica romana»), si
trovano affermazioni, storiche, che per loro natura non possono essere
teologicamente obbliganti, anche se pure qui si trovano asserzioni che non
lasciano dubbi sul fatto che siano intese in senso vincolante. Così si dice per
esempio: «il sacro Concilio dichiara» (UR, n. 16), «questo sacro
Concilio dichiara» (n. 17), «considerate bene tutte queste cose, questo sacro
Concilio inculca» (n. 18). Tali formulazioni non sono in nulla inferiori a
corrispondenti formulazioni di Lumen gentium.
L'ermeneutica
di Unitatis redintegratio e il giudizio sul carattere teologicamente vincolante
di questo documento, dunque, non possono avvenire in modo globale, ma
differenziato. Riuscire a fare questo in ogni singolo caso è frutto di un
lavoro faticoso, da cui nessuno si può dispensare con giudizi di carattere
generale.
Storia, tradizione, ricezione
III.
L'interpretazione di Unitatis redintegratio, comunque, non si può
fermare all'accertamento del grado di obbligatorietà di ogni singola
affermazione. Dopo aver accertato il carattere formalmente vincolante di
un'affermazione, si pone il problema dell'interpretazione del suo contenuto.
Anche per questo ci sono regole; ed esse valgono, ovviamente, anche per la
teologia ecumenica. Porterebbe troppo lontano e richiederebbe l'esposizione di
tutta una metodologia teologica, se si volesse farne qui una trattazione.
Accenniamo in breve a tre di tali regole.[9]
In primo
luogo: è fondamentale l'interpretazione storica. Vale qui la regola che non si
può invocare un vago spirito del Concilio, ma si deve partire dal tenore
verbale delle affermazioni. Il che significa, allo stesso tempo, che si deve
badare, volta per volta, a ciò che il Concilio voleva dire. E questo risulta
soprattutto dallo studio degli atti del Concilio. Inoltre, non si possono
considerare le singole affermazioni in forma isolata. Non è sufficiente la
citazione positivista di singole frasi o, addirittura, di frasi a metà,
strappate dal contesto [10].
Invece, si debbono interpretare le singole affermazioni nel contesto dei
documenti conciliari e in connessione con tutti i misteri della fede (cf. DS
3016), e cioè secondo la «gerarchia delle verità» (n. 11). Questa
interpretazione storica e sistematica pone di fronte a molti problemi storici
ed ermeneutici: non ci si deve esimere dall'affrontarli, per rifugiarsi
comodamente o in un modo di citare puramente positivistico, oppure nella
discutibile distinzione fra spirito e lettera del Concilio.
In secondo
luogo: interpretazione alla luce della tradizione. Nessun concilio è a sé
stante, ma ogni concilio si colloca nella scia della tradizione di tutti gli
altri. Così, il decreto Unitatis redintegratio si richiama alla
confessione di fede della Chiesa e ai concili più antichi. Sarebbe perciò falso
interpretare il concilio Vaticano II, e specialmente il decreto
sull'ecumenismo, come rottura con la tradizione [11].
Effettivamente tale Concilio è dovuto, non da ultimo, a un resourcement,
a un ritorno alle fonti; in esso si è trattato di una nuova attualizzazione
della Tradizione e, in questo senso, di un suo aggiornamento (un concetto
che nei documenti stessi del Concilio non si trova in nessun passo). Certamente
ci si deve chiedere che cos'è che significhi tradizione in senso
teologico e, facendolo, bisogna distinguere fra l'unica Tradizione e le molte
tradizioni [12]. L'apertura
ecumenica del concilio Vaticano II non è una rottura con la Tradizione nel
senso teologico della parola; però, è senz'altro una voluta modificazione di
singole tradizioni, per lo più relativamente recenti. Così, è indiscutibile che
il Concilio vada coscientemente oltre le affermazioni, difensive e proibitive,
del Papa Pio XI in Mortalium animos (1928) e che, in questo senso,
realizzi un salto di qualità[13].
Così intese, tradizione e innovazione non sono affatto in opposizione.
In tema di
Tradizione, il concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica sulla divina
rivelazione Dei Verbum, ha fatto propria la viva comprensione della
Tradizione quale si ritrova in J.A. Mohler e J.H. Newman, che ne hanno fatto il
fondamento della rispettiva riflessione teologica (cf. Dei Verbum, n.
8). Il Concilio ha inteso la Tradizione come una realtà viva, piena di Spirito
Santo; ossia, tanto come fedeltà al Depositum fìdei, che abbiamo
ricevuto in eredità una volta per tutte, quanto come sempre rinnovato ringiovanire,
nelle situazioni perennemente nuove. Tale interpreta-zione viva, che avviene
sotto la guida dello Spirito Santo, non ha nulla da spartire con un facile
adattamento allo spirito del tempo; al contrario, spesso essa può far valere
l'attualità della Tradizione solo attraverso una profetica testimonianza contro
lo spirito del tempo.
Il documento
conciliare Unitatis redintegratio, dunque, deve essere interpretato in
continuità con tutti i concili. E tale continuità deve essere intesa non come una
realtà morta e pietrificata, ma come un avvenimento vivo, mediante il quale lo
Spirito Santo ci introduce sempre di nuovo nella pienezza della verità (cf. Gv
16,13). È lui - dice s. Ireneo di Lione - che mantiene il depositum fìdei giovane
e «rugiadoso», e che conserva l'unico e medesimo Vangelo non come un qualcosa
di eternamente trascorso, ma di inesauribilmente giovane.[14]
In terzo
luogo: l'importanza della ricezione del Concilio [15].
Comprendere la Tradizione come realtà viva implica che non solo in Unitatis
redintegratio, ma anche in molti altri testi del concilio Vaticano II
(anche in Lumen gentium) spesso si trovino immediatamente affiancate nova
et vetera.
Questo appare
come un compromesso. Tuttavia, non sempre si tratta di un cattivo
compromesso, atteso che un compromesso intelligente può essere un'impresa
intellettuale di alto valore e un'espressione di grande saggezza, per il fatto
che, mentre da un lato esclude chiaramente l'errore, dall'altro, per il
momento, lascia sussistere - per amore dell'unità nell'essenziale - differenze
intraecclesiali insuperabili, rimandando la loro soluzione alla discussione
futura. Neppure i concili più antichi - come ben sa ogni studioso di storia dei
dogmi - hanno potuto fare a meno di tali formule di compromesso; cosa che poi
ha portato a un laborioso processo di ricezione. I concili di Nicea (325) e
Calcedonia (451) e la storia che a essi è seguita sono, al riguardo, esempi
eloquenti.[16]
Perciò, chi
critica Unitatis redintegratio a causa di alcune formulazioni non del
tutto mature, dovrebbe criticare anche le costituzioni dogmatiche del
concilio Vaticano II ed elementi essenziali della storia più antica dei
concili. Le formulazioni di un concilio, nonostante ogni sicura esenzione
dall'errore, sono sempre anche formulazioni aperte, la cui definizione mette in
moto un processo di vivente ricezione.
In tal senso, Unitatis
redintegratio non può esser letta solo come un testo storico, separato
dalla storia degli effetti della sua ricezione, che si sono avuti nel tempo
postconciliare [17]. Proprio a
tale ricezione appartengono i molti documenti magisteriali, che hanno
confermato e ulteriormente sviluppato l'apertura ecumenica e, tra questi,
specialmente l'enciclica Ut unum sint (1995). Vi appartiene pure
l'accettazione che Unitatis redintegratio ha trovato nella fede e nella
vita della Chiesa, nella teologia e nei dialoghi ecumenici. Senza dubbio vi è
più di una cosa non ancora completamente matura; di fronte a certi sviluppi
erronei, infatti, il magistero ecclesiale ha dovuto assumere una posizione
critica, come è successo con la dichiarazione Dominus Jesus (2000).
Tuttavia,
neppure tale dichiarazione deve essere isolata, ma interpretata alla luce degli
altri documenti magisteriali e nel quadro dell'intero processo di ricezione.
Negli ultimi
40 anni, Unitatis redintegratio è stata recepita sia dall'autentico
magistero della Chiesa, sia dal sensus fìdelium. Il decreto, in questi
40 anni, ha contribuito grandemente a far maturare, nella coscienza di molti
cristiani, il senso ecumenico. Certo, non sono mancate interpretazioni
eccessive e applicazioni inopportune. Ma se si devono impedire gli sviluppi
selvaggi, non si può sradicare il buon grano assieme alle erbacce (cf. Mt 13,
29). Svalutare, dunque, Unitatis redintegratio, a 40 anni dalla
promulgazione, vorrebbe dire collocarsi al di sopra di un concilio ecumenico,
al di sopra dell'autentico magistero della Chiesa, al di sopra della vita della
Chiesa (che è guidata dallo Spirito Santo); vorrebbe dire resistere allo stesso
Spirito, che ha spinto in avanti questo processo con i suoi alti e bassi, con i
suoi problemi ma, molto di più ancora, con i suoi molti aspetti ricchi di
speranza. Perciò, nella mutata situazione ecumenica, noi (in fedeltà alla
Tradizione della Chiesa e alla luce dei principi dottrinali cattolici, ma anche
con coraggio e fantasia) abbiamo ogni motivo per far sì che Unitatis
redintegratio sviluppi la sua vitalità tanto nella teologia, quanto nella
prassi.
card. walter kasper, presidente del
Pontificio
consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani.
[1] EV 1, Documenti del concilio Vaticano II, Bologna 1981, [104]s; cf. anche le affermazioni di papa Giovanni XXIII nel suo discorso di
apertura del Vaticano II: Ivi, [48]s.
[2] EV l/[178]s. Se il papa non avesse preso teologicamente sul serio il decreto, non sarebbero comprensibili i suoi interventi immediatamente
prima della promulgazione. Al riguardo cf. w. becker in LThK - Das zweite Vatikanische Konzil, II (1967), 38s; g. alberigo (a cura di).
Storia del concilio Vaticano II, vol. 4, Bologna 1999, 436-446.
[3] EV l/[42]s.
[4] EV 1/[284]s.
[5] Cf. le notificazioni del segretariato generale del Concilio, il 16.11.1964, in LThK –Das zweite Vatikanische Konzil, I (1966), 349s.
[6]
Cf. il commento di ch. moeller in LThK - Das zweite Vatikanische
Konzil II (1968), 280-282.
[7] Cf. il commento di w. becker in LThK - Das zweite Vatikanische Konzil II (1967), 30; g. alberigo (a cura di). Storia del Concilio
Vaticano II, vol. 3, Bologna 1998, 283s; 286.
[8] Cf. la panoramica storica e sistematica in l. scheffczyk, «Qualifikationen», in LThK vol. 8 (1999), 755-757.
[9]
Per l'ermeneutica del concilio Vaticano II cf. w.
kasper, «Die bleibende Herausforderung
durch das II Vatikanische Konzil», in Theologie undKirche, Mainz 1987,
290-299; h.j. pottmeyer, «A New
Phase in the Reception of Vatican II», in g.
al-berigo et alii (a cura di). The Reception of Vatìcan II, Washington 1987, 27-43; per una visione
sintetica cf. o. rush, Still Interpreting Vatican II:
Some Hermeneutical Principles. Pro-manuscripto, Sidney 2003.
[10] Un esempio concreto: quando si tratta di giudicare le celebrazioni della santa Cena nelle comunità di tipo riformato, non è sufficiente citare, da Unitatis redintegratio. n. 22, che esse «non hanno conservata la genuina e integra sostanza [substantia] del mistero eucaristico»; bisogna invece aggiungere anche l'altra metà della frase, che segue subito dopo, nella quale il Concilio cerca di circoscrivere positivamente l'importanza di queste celebrazioni.
[11] Così dice a ragione j. ratzinger, in Rapporto sulla fede, Milano 1985, 33-35.
[12] Cf. y.
congar, La tradition et les traditions, vol. 1, Parigi 1960, vol.
2, Parigi 1963.
[13] Cf. g. alberigo (a cura di). Storia del Concilio Vaticano II, vol. 3, Bologna 1998, 287; 290; vol. 4, Bologna 1999, 504.
[14] ireneo di lione, Adversus haereses, 111, 24, 1.
[15] II tema della ricezione è stato per lungo tempo trascurato nella teologia cattolica. Al riguardo, oltre alle trattazioni note e divenute ormai classiche di A. Grillmeier e Y. Congar, cf. soprattutto l'ampia esposizione di g. routhier, La Réception d'un Concile, Parigi 1993. Sul piano filosofico, H.G Gadamer e P. Ricoeur hanno mostrato che la storia dell'effetto di un testo appartiene a esso e non ne può essere separata.
[16] Cf. m.
seckler, «Uber den Kompromiß in Sachen der Lehre», in Im
Span-nungsfeldvon Wissenschaft und Kirche, Freiburg in Br. 1980, 99-109.
[17] Cf. r. fisichella (a cura di), Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, Roma 2000, 335-415, con contributi di E. Fortino, J. Wicks, F. Ocàriz, Y. Spiteris, V. Pfnür.