vita del Beato Angelo, patrono di Gualdo Tadino

Nel Castello di Gualdo

 

     "1270: nel Castello di Gualdo diocesi di Nocera e ducato di Spoleto, ebbe luogo la nascita del glorioso confessore di Nostro Signore Gesù Cristo, Beato Angelo, monaco eremita, il cui transito di quest'anima fedele da questa terra all'eterna vita, viene celebrato con solennità nello stesso castello ogni anno, addì 15 gennaio. Circa l'anno 1270 del Signore Salvatore dell'umano genere, nella terra di Gualdo, villa chiamata Casale posta a fianco della parrocchia di San Facondino... nacque in un rustico tugurio da genitori uniti in legittimo matrimonio, dediti ai lavori dei campi. Al santo battesimo gli fu imposto il nome di Angelo. Suo padre si chiamava Ventura (diminutivo di Buonaventura) e la madre Chiara. Essi nutrirono il bambino Angelo durante l'infanzia e giunto all'adolescenza gli affidarono la custodia del gregge". Così la leggenda benedettina, con un linguaggio denso di unzione, ricorda l'anno della nascita del nostro inclito protettore -1270 - e ci descrive sobriamente anche le condizioni della sua famiglia.  

     E nel 1270, mentre era vescovo di Nocera, il Beato Filippo dei conti di Antignano, Ventura e Chiara di Casale, nella pieve di San Fecondino, fecero battezzare il loro bimbo ponendogli il nome di Angelo -diminutivo di San Michele Arcangelo - protettore di Castello di Gualdo, fondata sul colle di S. Angelo.

    Ci troviamo in una frazione della pieve di San Facondino, a Casale: il paesaggio ha subito molte trasformazioni: alla folta boscaglia sono succedute ampie distese digradanti verso la Flaminia dove la coltivazione del grano e della vite costituisce ancora l'unica risorsa di quegli abitanti.

     Di quell'epoca remota, tuttavia, rimangono due reliquie: le venerate spoglie di San Facondino e la torre campanaria del sec. XI che egli contemplò con occhi assorti.

     Purtroppo non resta alcuna traccia del « rustico tugurio» dove egli nacque. Vicino alla fonte del villaggio, viene indicata una casetta - oggi trasformata - che secondo una veneranda tradizione, sarebbe stata testimone della nascita e dell'adolescenza serena di quel meraviglioso fanciullo.

     I suoi genitori Ventura e Chiara - nomi d'inconfondibile sapore francescano - inducono a pensare a fervorosi terziari francescani, la cui presenza nelle nostre contrade risale al 1219, quando a richiesta di San Rinaldo, vescovo di Nocera, venne eretto, dai discepoli di San Francesco, in Santo Marzio, il primo convento francescano, il cui oratorio fu dedicato ai santi martiri Stefano e Lorenzo.

    La leggenda francescana dipinge Ventura « lavoratore di campi... obbediente alla legge del Signore, si procurava il pane con il lavoro e il sudore della fronte. Faceva l'elemosina di buon animo ai poverelli e se ne stava alieno dall'offesa a Dio e al prossimo ».

     La leggenda benedettina con due parole ci dà la fisionomia spirituale di Chiara, definendola « dolcissima madre ».

     Ci troviamo, dunque, sotto il tetto di un focolare umbro dove fioriscono l'amore e il timore di Dio.

    I genitori del Beato Angelo dovevano far parte della classe che noi oggi chiameremmo di coltivatori diretti. Avevano la casa, la proprietà fondiaria un gregge di pecore. Piccoli possidenti che godevano di una certa prosperità tanto è vero che mangiavano il pane bianco e potevano darlo anche in elemosina ai poveri.

    Quando Angelo decise di espiare l'inconsiderata risposta data a sua madre, la leggenda benedettina fa notare che: « riposte le scarpe in una cassa» se ne andò a piedi nudi a la tomba di Santiago di Compostella ». In quell'epoca soltanto le persone di una certa agiatezza avevano le scarpe; i poveri, generalmente, andavano a piedi nudi o con le ciabatte che, in inverno, spesso, erano sostituite da zoccoli di legno.

    Tali elementi sono sufficienti per sfatare la leggenda di una povertà familiare mai esistita. Ciò fa maggiormente apprezzare la generosità del nostro giovane che, per seguire Gesù, volle rinunciare anche alle buone condizioni economiche familiari che avrebbero facilitato la sua riuscita nel mondo.

     In un ambiente così sano: « Il bambino ben presto dette chiari segni della predilezione da parte di Dio. Era portato per inclinazione a bontà, era docile e innocente; molto si sentiva preso da viva compassione verso i poverelli. Giunto all'adolescenza i genitori gli affidarono la custodia del gregge. In questo suo lavoro se ne stava docile e paziente, obbediente verso i genitori con animo semplice e retto».

   Sulla scorta di tali elementi, riesce facile e piacevole alla nostra fantasia la ricostruzione dell'ambiente familiare in cui ebbe la grazia di vivere il nostro giovane.

     E' ovvio pensare che il piccolo Angelo dalle affettuose esortazioni e dall'esempio dei suoi genitori sia stato iniziato, fin dalla più tenera infanzia, ad una vita di pietà: le preghiere del mattino e della sera, prima e dopo i pasti, la frequenza alle cerimonie religiose della Pieve di San Fecondino, i pellegrinaggi ai santuari della Madonna di Taino e di San Pellegrino, la conversazione con anime consacrate a Dio dovettero costituire il nutrimento di quell'anima privilegiata che fin dall'infanzia ebbe in grande onore l'esercizio della carità verso i poveri e i sofferenti.

     Le cronache di quell'epoca in nostro possesso, non fanno supporre che nella casa di Ventura e Chiara vi fossero altri figli. Quindi tutto il loro affetto fu per quell'ammirevole creatura che cresceva in età e sapienza dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini.

      L'istruzione scolastica, in quei tempi, era un privilegio delle famiglie nobili.

La Leggenda 1, al riguardo, fa un cenno molto significativo perché afferma che Angelo "era illetterato".

     Ciò non toglie nulla alla ricchezza del suo spirito, alla vivacità della sua intelligenza e al suo buon senso di cui darà ampie testimonianze in tutto il corso della sua vita.

      Il piccolo Angelo dovette adattarsi alle necessità della famiglia e aiutare il babbo nei lavori dei campi e condurre al pascolo le pecore.

     Al mattino, prima ancora dello spuntar dell'alba, insieme ai suoi compagni, si metteva in cammino verso i monti. Attraverso la fitta boscaglia, raggiungeva i pascoli di Serrasanta, del Penna, di Monte Maggio. Egli dovette preferire le praterie di Valsorda perché poteva far visita agli eremiti e nutrire il suo spirito in conversazioni edificanti.

     I cronisti narrando quel periodo della sua vita, fanno cenno di un dettaglio ben significativo: il nostro pastorello spesso, invece, di abbandonarsi a innocenti trastulli come i suoi compagni, preferì appartarsi in luoghi solitari. Con due assi di legno formava la croce - a volte l'incideva nella corteccia degli alberi - dinanzi alla quale genuflesso, trascorreva parte del tempo in preghiera. Oh le innocenti elevazioni di quel ragazzo che con la sapienza del cuore sapeva intravedere il mistero ineffabile dell'infinita carità di Dio!

     L'irradiante effusione della grazia santificante, ogni giorno, con maggiore intensità, irrompeva nel suo spirito quanto mai attento e disposto alla più generosa corrispondenza.

     I segreti di quelle spirituali ascensioni se sfuggirono alla curiosità dei cronisti, invece non passarono inosservate ai suoi familiari e ai suoi compagni che si disputavano la gioia di stargli vicino, di seguirlo e imitarlo nella pratica dell'amore di Dio.

     E a mano a mano che il ragazzo cresceva, i genitori rimanevano stupiti delle sue osservazioni, che manifestavano una conoscenza delle cose di Dio superiore all'esperienza dei suoi ancora verdi anni.

     I genitori lo guardavano con una certa ammirazione e lo ascoltavano quasi trasognati quando, con lo splendore della sua innocenza e l'acutezza della sua intelligenza, raccontava loro i piccoli episodi della sua vita quotidiana, le sue personali esperienze e le sue preoccupazioni.

     Come la vita interiore di Gesù adolescente a Nazaret, anche quella del figlio di Ventura e Chiara a Casale, si riduceva ad una umile e oscura esistenza di un piccolo figlio di agricoltori, priva pertanto di movimenti prodigiosi che, a volte, si riscontrano nell'adolescenza di anime destinate a compiere eccezionali missioni nella chiesa santa di Dio.

     Peraltro la sua condotta e la sua vita di pietà, generosa e pura, come l'acqua delle sorgenti e il profumo dei fiori, non gli impediva di associarsi e di condividere con il maggiore entusiasmo, le manifestazioni - a volte alquanto rumorose - dei suoi compagni.

     Il piccolo Angelo amò intrattenersi, specialmente sul calar del giorno, con i suoi amichetti nella piazza del villaggio; conobbe e praticò con entusiasmo tutti i giochi che incantano i fanciulli; predilesse le passeggiate attraverso i boschi, ebbe tutte le curiosità dei suoi verdi anni, la sua fantasia si accese per le cose nuove e ogni scoperta suscitava nel suo animo viva ammirazione.

     Come per tutti gli adolescenti, sogni e ansie, trepidazioni e angosce, soddisfazioni e conquiste non furono estranei al figlio di Chiara e di Ventura.

     Per questo motivo, alla distanza di sette secoli, i nostri bimbi sentono loro accanto il Beato Angelo: lo hanno compagno dei loro giochi, lo seguono sulle cime delle montagne e nelle praterie delle valli, lo hanno ispirato consigliere dei loro piccoli sacrifici per amore di Gesù.

 

Angelo fu un giovane contestatore?

 

       Le vecchie cronache giunte fino a noi, mentre recano scarne notizie circa l'infanzia di Angelo, sono concordi in dettagli che descrivono: "nel bambino rinato alla grazia per il santo battesimo, ben presto cominciarono a vedersi in lui i chiari segni della predilezione da parte di Dio. Era portato per inclinazione a bontà; era docile ed innocente; inoltre si sentiva preso da viva compassione verso i poverelli".

     Egli, infatti, respirò l'atmosfera di un focolare profondamente cristiano. È lecito supporre in lui una speciale inclinazione per il servizio di Dio, un'attrazione per la preghiera, una docilità ammirevole verso i suoi genitori, inoltre le maniere gentili lo rendevano molto caro ai familiari e ai compagni d'innocenti trastulli.

     I suoi genitori gli inculcarono le prime nozioni della dottrina cristiana, completate, poi, dai sacerdoti che avevano cura dei fedeli di San Facondino. Con trepidazione egli dovette accostarsi, verso i dodici anni, alla prima comunione. Verso il 1284 il Beato Filippo di Antignano, vescovo di Nocera, gli conferì il sacramento della cresima. La sua anima trasse, certamente, molto profitto da quelle grazie sacramentali perché altrimenti non sapremmo spiegarci la delicatezza della sua coscienza. La Leggenda 2, parlando di tale periodo della sua vita, afferma: "Angelo, mansueto e di età ancora giovanile era sempre buono". La Leggenda 1 è ancora più esplicita perché afferma: « Avendo il santo giovane trascorsa la fanciullezza e l'adolescenza nel culto di tutte le virtù nelle opere buone e nel lavoro dei campi e custodia degli animali... ».

      Generalmente un alterco con la mamma è una ragazzata insignificante. Per il giovane Angelo, invece, costituì una perenne angoscia che non si seppe mai perdonare e che, anche dopo anni di dura penitenza, al ricordare quella inconsapevole risposta, ne sentiva atroce sgomento. La Divina Provvidenza ha i suoi imperscrutabili fini, quando sceglie vie eccezionali per chiamare, fin dalla giovinezza, alcune anime privilegiate destinandole a speciale edificazione del popolo cristiano.

     Il piccolo Luigi Gonzaga, benché la sua mamma glielo avesse proibito, invitò un soldato a fare esplodere nel cortile del Palazzo Ducale, una bombarda. La duchessa, spaventata per il pericolo corso dal bambino, non mancò di muovergli un serio rimprovero. L'aspirazione alla santità in Luigi Gonzaga ebbe inizio da quell'ammonizione materna.

     Il desiderio del martirio della piccola Teresa di Avila e di Rodrigo, suo fratello, li sospinse a fuggire di casa per incontrare i mori che li avrebbero inviati subito in paradiso. I loro genitori, Alonso e Ines, non vedendo i bimbi in casa si affrettarono a cercarli e li trovarono piangenti sulla sponda di un ruscello. Anche in questa circostanza il rimprovero severo dei genitori, apri a Teresa la via della riflessione, il desiderio della espiazione, la santità.

     Sembrò opportuno ricordare tali esempi per inquadrare, nelle sue reali dimensioni, l'episodio che ora ci accingiamo a narrare - un alterco tra madre e figlio - del quale si servirà il Signore per chiamare Angelo, il piccolo pastore di Casale, ad un'eccezionale via di espiazione e di preghiera.

     La Leggenda Benedettina parlando della famiglia del nostro Protettore narra: « Suo padre si chiamava Ventura e la moglie Chiara; essi nutrirono questo bambino Angelo durante l'infanzia; e giunto all'adolescenza gli affidarono la custodia del gregge. In questo lavoro egli se ne stava docile e paziente, obbediente verso i genitori con animo semplice e retto».

     Accadde più volte che alcuni pastorelli, suoi compagni, più poveri di lui, non avevano nemmeno il pane. Angelo, allora, con molta delicatezza - narra la Leggenda di Fra Paolo - "senza farsi accorgere da nessuno, passava il pane e il companatico ai poverelli, che la madre preparava per lui; non solo ma si toglieva il pane di bocca per darlo agli affamati". La sua squisita carità, fatta con tanta grazia, gli conquistò la stima e l'affetto degli altri pastori. Non tutti compresero la sua generosità. Come sempre, ci fu chi abusò della sua bontà, perché le richieste di pane si fecero sempre più frequenti, tanto da spingerlo a sottrarre di nascosto qualche fila di pane dalla madia. Fra Paolo nota che: "La madre per qualche tempo lasciò fare e non se ne preoccupò; poi visto che il figlio suo largheggiava oltre modo, e d'altra parte temendo che venisse a mancare in casa il necessario, per evitare liti in famiglia, si espresse con parole severe per convincere il figlio a moderarsi".

      La Ieggenda Benedettina fa presente che: « Si era a quei tempi in grande carestia ».

     Or bene, una mattina, di nascosto, Angelo tolse alcune file di pane dalla madia. Mentre stava per metterle nella bisaccia, venne colto di sorpresa dalla mamma, la quale, preoccupata delle ristrettezze provocate dalla carestia, non poté fare a meno di rimproverarlo amorevolmente.

     Purtroppo ci fu la reazione: tra madre e figlio si accese un alterco piuttosto vivace. La madre non chiese la restituzione del pane; si limitò a far valere - ed aveva ragione - i motivi del suo atteggiamento e per chiudere l'incidente, indicò al figlio la porta d'uscita, dicendogli : "Vattene, vattene per sempre; non tornare più a casa".

     Il giovane, allora, sovrapensiero, nella sua profonda umiliazione per essere stato scoperto dalla mamma, le rispose: « Che io tornando questa sera non ti trovi più viva».

    In analoghe circostanze, tutti abbiamo sentito dalle labbra delle nostre mamme, simili espressioni, ben sapendo che le parole non corrispondono ai loro reali sentimenti, alla loro sincera e immutabile tenerezza.

      Il giovane prese la via della montagna con il cuore gonfio di oscuri presentimenti. La distribuzione del pane ai suoi colleghi, fonte di tanta allegria, questa volta si trasformò in un'amarezza mortale. Appartato trascorse la giornata affrettando con il desiderio l'ora del ritorno per chiedere perdono alla sua madre. Madre e figlio accumunati in una indefinita angoscia. Quell'alterco mattutino per entrambi si dissolse in uno sconvolgente presagio.

    Mentre la Leggenda 1 tace lo sconcertante epilogo, la Leggenda 2, invece, parlando di quella memorabile giornata, scrive: « Sul far della sera Angelo ritornato a casa, come è costume tra i pastori, per ricondurre il gregge all'ovile, venne a sapere che la mamma sua era morta». Sembra ovvio pensare che, al tramontar del sole di quella memorabile giornata, Angelo, con un senso di sollievo, affrettò il passo per tornare a casa ansioso di chiedere perdono alla sua madre per le parole pronunciate al mattino. Incontrando lungo il cammino alcuni conoscenti, gli sembrò di osservare qualche cosa di strano nella maniera con la quale rispondevano al suo saluto.

      Dovette udire il mesto suono della campana: campane a morto!

     Strano! In una borgata, quando c'è un infermo grave, tutti conoscono la notizia e a Casale i malati non c'erano. All'improvviso, il ricordo delle parole grosse da lui pronunciate al mattino, gli si affacciò allo spirito, come un triste presentimento. E se quella imprecazione si fosse compiuta!? Cominciò a sentirsi colpevole e pianse amaramente.

     Affrettò il passo; giunse trafelato a casa dove incontrò il babbo i familiari e gli amici che lo guardarono con sentimenti di vera compassione. E' facile supporre la scena: le parole di conforto, gli abbracci di tutti lo rincuorarono alquanto. Nella preghiera trovò il conforto che Dio sa dare alle anime, che si rassegnano a compiere la sua volontà, nelle ore della prova.

       Nelle vicende degli uomini si danno avvenimenti che cambiano il corso dell'esistenza. Paolo, sulla via di Damasco cade cieco; il persecutore dei cristiani si trasforma in apostolo delle genti. Il giovane Ignazio di Loyola nell'assedio di Pamplona cade ferito. Infermo medita sulla caducità dei beni terreni e si consacra per sempre al servizio di Dio.

        Se Dio non avesse permesso quell'infelice alterco, il figlio di Bonaventura e Chiara, sarebbe asceso agli onori degli altari? Il suo nome non si sarebbe perduto tra quello della folla anonima dei suoi contemporanei? Con i limiti dei criteri umani, non possiamo giudicare le cause, che producono le misteriose trasformazioni delle anime destinate a raggiungere le vette della santità.

         Iddio volle fare alla chiesa e al nostro Comune il prezioso dono del Beato Angelo, per ricordare, ai gualdesi di tutti i tempi, l'obbligo di condurre una vita veramente cristiana.

     Nella solitudine dell'eremo, tra lo stormire delle frondi e lo scroscìo degli uragani, nelle nottate stellate e nei tramonti di porpora, nelle lunghe veglie della preghiera, Angelo, al ricordo della mamma sua, verserà lagrime di sincero rimpianto. Egli non potrà mai perdonarsi di averle inconsapevolmente mancato di rispetto.

    La dolce immagine materna, radiante come la luce dell'aurora, pura come le acque delle sorgenti montane vibrava in tutte le fibre del suo cuore. Ma quante volte - sempre - nell'ora della prova la mamma sua sarà tornata a farsi sentire soavemente, come le carezze degli angeli e il sorriso innocente dei bimbi, per incoraggiarlo, per confermarlo nella certezza, che la separazione era soltanto momentanea e che si sarebbero ricongiunti, quanto prima e per sempre, nella beata eternità.

 

 

Sulle strade d'Italia, di Francia e di Spagna

 

     "Avendo il santo giovane - scrive il cronista della Leggenda 1 - trascorsa la fanciullezza e l'adolescenza nel culto di tutte le virtù... e dato che le necessità della vita d'ogni giorno lo venivano a togliere dalle occupazioni spirituali e a privarlo della pace del cuore, venne nella decisione di lasciare il mondo e i genitori abbracciando la vita solitaria per imitare nell'umiltà e nell'indigenza Nostro Signore Gesù Cristo... onde avere questa grazia da parte del Signore e comprendere meglio questo dono, si studiò di chiedere l'intercessione dei santi e si industriò di ottenerla e quindi, con molto fervore, di spirito, vestita un'aspra tunica, a piedi nudi, si portò a San Giacomo di Galizia, e visitò con amore la sua chiesa dove riposa il sacro corpo dello stesso apostolo".

     In quell'alterco tra madre e figlio, è vero che, in un momento d'impazienza, corsero affrettate e pesanti parole che tuttavia erano ben lontane dall'esprimere i veri sentimenti di quella "dolcissima madre" e di quel figliolo "docile e innocente".

     Le anime innamorate di Dio, proprio perché bruciate dalla carità divina, hanno la delicatezza di coscienza che loro permette di sentire profondamente la malizia della offesa di Dio, anche in colpe veniali: dove entrano i raggi del sole - Dio - anche le ombre leggere e diafane debbono scomparire.

     Prima di intraprendere il viaggio, i pellegrini si procuravano il salvacondotto del vescovo che garantiva e raccomandava il pellegrino alle autorità civili ed ecclesiastiche del lungo cammino. Nel nostro caso fu il Beato Filippo dei conti di Antignano, vescovo di Nocera, che a richiesta del pievano di San Facondino, munì il nostro Beato del desiderato documento. Il pellegrino, poi si confessò, e in chiesa ricevette la tunica del romeo, il bordone e la scarsella.

     Tanto la Leggenda 1come la 2 non danno alcun dettaglio dell'itinerario seguito dal nostro giovane. Certamente dovette essere molto triste per i suoi familiari e per i suoi compaesani l'addio di quel meraviglioso giovane cui tutti si sentivano molto affezionati.L'itinerario del nostro pellegrino lo condusse per impervie vie, a volte funestate anche dai briganti, lungo le strade d'Italia, di Francia e di Spagna per oltre 3000 chilometri e sempre a piedi scalzi.

     Quante difficoltà nel cammino: in Francia e in Spagna anche quella non indifferente d'ignorarne l'idioma. Quanta stanchezza per un giovane di 16 anni, bisognoso ancora delle carezze materne. Quante volte lungo l'estenuante cammino, al nostro giovane sarà stato rifiutato, e in cattive maniere, un pezzo di pane, un angolo dove riposare. Allora - come oggi - vedendolo così fresco di età, quante volte lo avranno schernito gettandogli in faccia atroci insulti: "Tu cosi giovane... alla tua età non hai vergogna di mendicare! Ozioso: faresti meglio a dedicarti al lavoro; i fannulloni come te finiscono in prigione". Era tanto facile infierire contro un giovane macilento e indifeso. Anche i ragazzi delle strade a volte, dovettero scagliargli i sassi come si faceva con i lebbrosi. Peraltro, proprio quell'aspetto umile e dimesso, quel suo viso splendente di innocenza, gli valse, spesso, la benevolenza e la protezione delle mamme intenerite dalla dolcezza del suo sguardo e dall'umiltà delle sue maniere. Nulla può sfuggire al cuore d'una madre.

     Varcate le Alpi, il Beato Angelo attraversò Montepellier, Tolosa, Jaca, Leire, Puente de la Reina; crocevia dove s'incontravano i pellegrini francesi, italiani e del nord di Europa. In compagnia si proseguiva per Los Arcos, Logrogno, Navarrete Najera, Santo Domingo de la Calzada, Burgos, Fromista, Leon, San Martin del Camino, Astorga, Rabanal del Camino, Pontferrada, Valcarcel, Cebrero e finalmente Triacastela. Qui i pellegrini avevano l'abitudine di raccogliere alcune pietre per portarle fino a Compostella: servivano per la costruzione del santuario e tutti volevano avere l'onore di dimostrare con tale gesto la devozione al grande taumaturgo della Spagna. Giunti a Ferreiros, i pellegrini presi dall'ansia, affrettavano i passi per arrivare al « Monte del Gozo - Montagna della gioia » da cui, finalmente, si potevano scorgere, in lontananza, i campanili del santuario. « Santiago ! allo scorgere le tue torri scolpite che si elevano ardite verso il cielo, ci fu chi le definì un bosco di pietra. Un bosco di mistici cipressi, bagnati sempre da una fittissima pioggia, dolce come la rugiada nelle albe di cobalto ». (Julio Comba).

     Prima di entrare in basilica, i pellegrini facevano il bagno in una piscina appositamente preparata; poi attendevano il Legato e altri sacerdoti. Nel frattempo si confessavano e ricevevano le insegne del pellegrinaggio jacobeo: la conchiglia e l'immagine del grande apostolo. Finalmente tra canti liturgici, attraversavano la « Porta del Perdono ».

     "Santiago, città apostolica, eccellentissima, ricolma d'ogni delizia, perché conservi il corpo dell'apostolo Giacomo, sei la più felice, la più eccelsa città della Spagna". Un monaco di Cluny - Almerico Picaud - nel secolo XIII lasciò scritto: « In Santiago convengono i pellegrini da tutte le parti del mondo: francesi, normanni, scozzesi, irlandesi, gallesi, tedeschi, guasconi, baschi, goti, provenzali, lotaringi, bretoni, fiamminghi, frigi, italiani, pugliesi, russi, georgiani, rumeni, galati, efesini, medi, toscani, calabresi, siciliani, antiocheni, sardi, ungari, bulgari, mori, etiopi, elamiti di Mesopotamia, libi, cirenei... ed altre innumerabili genti d'ogni lingua...

     In sepolcro dell'apostolo Santiago risplende, da una parte si collocano i tedeschi, dall'altra parte i francesi e poi gli italiani con in mano i ceri accesi, in modo che la chiesa brilla come il sole in uno splendido giorno. Ognuno rimane con i suoi compatrioti in vigilia di orazione. Si odono i canti in tutte le lingue. Le veglie di preghiera sono ininterrotte, le porte del santuario non si chiudono mai: né di giorno, né di notte; lì non è mai notte, perché una luce splendida di candele brilla come il sole di mezzogiorno.

     I poveri, i ricchi, i nobili cavalieri, i plebei, i potenti, i ciechi, i prelati, gli abbati, alcuni scalzi, altri con catene di penitenza entrano in chiesa. Ci sono pellegrini che portano la croce sulle mani come i greci; altri distribuiscono le ricchezze ai poveri, alcuni portano ferro e piombo per la costruzione del santuario ». E' ovvio che anche il nostro pellegrino, con l'animo ricolmo di sante emozioni, compì, con il più grande fervore, tutte le pratiche di pietà prescritte per l'acquisto della sante indulgenze: si accostò ai santi sacramenti, baciò con devozione le reliquie del grande taumaturgo di Spagna, attraversò in ginocchio, umile e raccolto, la « Porta del Perdono».

     Una grande pace, allora, scese nel suo cuore: la pace del Signore che supera tutti i beni della terra; la pace che è pienezza di grazia preludio della felicità eterna, promessa da Gesù agli umili di cuore, ai poveri di spirito, ai perseguitati per la sua giustizia e per il suo regno di amore e di misericordia.

     Egli alloggiò nell'Ospizio detto più tardi di San Rocco, dove trovavano la più affettuosa accoglienza i pellegrini stranieri privi di risorse. Con il fervore del pellegrino orante e penitente, egli si aggirò tra le vie, le piazze di quella incantevole città: visitò le sue chiese, i suoi monasteri. Percorse le strade di Galizia che conducono sulle sue meravigliose colline, costeggiò i fiumi che scorrono in quelle incantevoli valli. Ammirò, con animo assorto, quel verde intenso dei suoi boschi, quelle borgate nascoste al fondo delle valli; rimase edificato dalla pratica di vita cristiana di quelle meravigliose popolazioni la cui fede si manifestava anche nello splendore delle sue chiese e nel fervore religioso di tutto un popolo acceso per la maggiore gloria di Dio e il bene delle anime.

     Quando prima dell'alba suonavan le campane, egli era tra i primi a varcare le soglie del santuario, il primo a visitare Gesù Sacramentato, il primo a inginocchiarsi ai piedi della Madonna e a venerare le reliquie di San Giacomo. In mezzo alla ressa dei pellegrini cominciarono ad osservarlo e a volergli bene perché egli era servizievole con tutti e, con le più belle maniere, si prendeva cura degli infermi. Nell'Ospizio di San Rocco, si parlava di lui come di un pellegrino eccezionale, di un servo di Dio molto edificante per la sua profonda umiltà. Molti nel contemplarlo assorto in preghiera o nel servizio degli infermi esclamavano: « Che meraviglioso giovane. Fortunata quella mamma che gli ha dato la vita. Benedetto quel paese dove egli è nato».

     Egli, peraltro, si sentiva sinceramente oppresso e mortificato per tutte le attenzioni che gli venivano usate.

    Non sappiamo quanto tempo trascorse il nostro giovane in Santiago. Certo dovette essere un soggiorno di qualche mese, anche perché egli aveva bisogno di riposo prima di riprendere le vie del ritorno. Era bello continuare a vivere presso quella gloriosa tomba del grande apostolo, come Pietro, Giacomo e Giovanni sul Tabor. Peraltro, anche Mosè, dovette scendere dal monte Sinai per tornare a vivere in mezzo al popolo tanto bisognoso della sua presenza.

     Inoltre, in fondo, egli sentiva una insopprimibile vena di nostalgia per la sua terra lontana, per la sua gente, per le chiese dove pregò con fervore fin da bambino, per il suo villaggio dove si svolse la sua serena infanzia, per il suo amatissimo libero comune di Gualdo. Con le mistiche elevazioni che gli cantavano in cuore, con l'animo ricolmo di cielo, con la certezza ormai e la decisione di rispondere con generosità alla chiamata di Dio, il giovane pellegrino, quasi trasfigurato, riprese il cammino del ritorno. Anno: 1290.

 

 

Preghiera e lavoro ...

 

     Il pellegrinaggio al santuario di San Giacomo di Compostella, dovette tenere lontano dalla sua patria, per ben due anni, il Beato Angelo. Quando egli tornò a Casale, alcuni avvenimenti succedutisi nella seconda metà del sec. XIII, segnarono la fine del Medioevo.

     Il cardinale Girolamo d'Ascoli - successore di San Bonaventura come Ministro Generale dell'Ordine Francescano - venne eletto papa prendendo il nome di Nicola IV (1288-1292). Le accese dispute suscitate dalle pretese messianiche dell'abate Gioacchino da Fiore, non si erano ancora del tutto spente. Fra'  Ubertino da Casale, con il suo opuscolo «Arbor vitae crucifixae Jesu » (1287-1289) invocava, con espressioni tutt'altro che riguardose, serie riforme della Curia Romana. Nei conventi francescani della nostra regione, l'interpretazione del voto di povertà provocava incresciose fratture. Il gruppo degli "spirituali", attraverso la voce di Fra Jacopone da Todi e Fra Pietro da Macerata, continuava ad agitare la necessità di trasformazioni nella struttura della Chiesa. La notizia della caduta di  San Giovanni d'Acri (1 maggio 1291) sotto il dominio islamico, gettava la costernazione in tutta l'Europa.

   La lotta tra guelfi e ghibellini insanguinava le piazze italiane; i liberi Comuni scardinavano i vincoli di sudditanza dalla giurisdizione ecclesiastica ed imperiale. Il "ghibellin fuggiasco", nel suo divino poema, faceva intravedere la nuova società che sarebbe sorta sulle rovine delle strutture medioevali.

     Il nostro pellegrino tornò in patria con il fermo proposito di consacrarsi irrevocabilmente al servizio di Dio. Ignoriamo il tempo che egli fece trascorrere prima di mettere in atto tale decisione. La Leggenda 1 ricorda « mortuo padre... hic vir Dei Angelus renuntiavit omnibus quae possidebat... morto il padre, questo uomo di Dio Angelo rinunciò a quanto possedeva e « andò dall'abate di San Benedetto di Gualdo... e si fece da lui dare l'abito monastico ».

    Qui sembra opportuna una breve digressione. A richiesta del conte Offredo di Gualdo, nel 1006, Placido, abate del monastero benedettino di Mugnano (Perugia) insieme con i monaci Giovanni e Stefano, si presero cura dei profughi gualdesi, dispersi nei monti, a motivo delle invasioni barbariche che calavano in Italia, anche attraverso la Via Flaminia.

      I figli di San Benedetto, in una proprietà loro donata dal conte Offredo, fondarono l'abazia di « San Benedetto il Vecchio », in vocabolo "Pomaiolo", di fronte alla chiesetta della Madonna delle Rotte. Eressero anche un oratorio dedicato a San Vito martire e San Nicolò. Ora risulta da una bolla pontificia che nel 1188, i monaci benedettini - ne ignoriamo i motivi - furono sostituiti dai monaci camaldolesi, fondati da San Romualdo.

     Nel 1256 i monaci di « San Benedetto il Vecchio » da pian di Cerreto si trasferirono sul colle di S. Angelo, dove si era iniziata da qualche anno, la costruzione della terza Gualdo, dopo il doloso incendio dell'aprile 1236 che distrusse la seconda Gualdo, sorta in vaI di Gorgo (S. Marzio). Possiamo, pertanto, supporre che, verso il 1290, il giovane Angelo venne ammesso come novizio tra i monaci bianchi dell'abazia di San Benedetto. Dalla lettura delle due Leggende si apprende che il Beato Angelo prima fu monaco all'abazia di San Benedetto; poi, eremita a Capodacqua ed infine anacoreta in VaI Romore, presso l'attuale convento dei Padri Cappuccini. Questi tre stati di vita spirituale rappresentano il cammino tracciato da San Romualdo per i suoi figli.

     Infatti, secondo la regola camaldolese, il religioso, a mano a mano che cresce nella divina carità, distaccandosi sempre più dagli ideali terreni, può abbracciare successivamente i tre differenti stati di vita religiosa: cenobitica nell'abazia insieme ai confratelli con i quali conduce la vita in comunità; eremita, in una piccola cella separata dalle altre celle, in un luogo solitario: gli eremiti, però, hanno alcuni atti di vita in comune: la recita dell'Ufficio Divino, la messa conventuale, le refezioni nelle principali feste dell'anno come il Natale, la Pasqua; anacoreta o « recluso» il religioso vive in solitudine per tutta la vita mantenendo i contatti con l'abazia per tutte le necessità spirituali e materiali.

     Sono vari stadi di una stessa vocazione, di uno stesso contenuto teologico e ascetico. La vocazione camaldolese si manifesta nel suo progressivo sviluppo per una sempre più esatta professione dei voti d'obbedienza, di castità e di povertà raggiungendo il grado eroico -concesso ad anime privilegiate -.nella vita di « recluso» per amore di Dio e delle anime.

     L'anacoreta realizza nella sua esistenza le parole di San Paolo: « Non sono io che vivo, ma è Gesù che vive in me perché in me porto le stigmate della passione di Gesù ». Il nostro giovane Angelo, aspirante alla vita religiosa, dovette fare il suo tirocinio, prima di essere ammesso alla professione dei santi voti per tutta la vita. Con la generosità delle anime chiamate a raggiungere le vette della santità, il nostro giovane, sotto la guida di sperimentati maestri di vita spirituale, seppe corrispondere generosamente alle divine ispirazioni.

     Aveva circa venti anni: la sua giovinezza nutrita dalle prove e dalla mortificazione, si apriva come i fiori in primavera, alle effusioni della grazia. La vita interiore lo teneva in costante contatto con Dio cui riferiva tutte le azioni della giornata. In lui nessuna manifestazione d'infantilismo perché la sua ferrea volontà lo conduceva rigidamente sulla via del dovere, senza rimpianti e senza tergiversazioni. La sua conversazione, sempre gentile e piacevole, era illuminata dalla luce di Dio ed aveva risonanze meravigliose quando si riferiva alla chiesa di Dio e al bene delle anime.

     Nella comunità era un modello di orazione: innamorato di Gesù Sacramentato trascorreva molto tempo dinanzi al tabernacolo, si accostava frequentemente alla S. Comunione, trovava le sue più care delizie nel servizio dell'altare nell'assistenza della S. Messa. Nella vita comune egli si distingueva per la regolarità con la quale compiva tutte le pratiche religiose e l'osservanza della santa regola. Quante notti egli trascorse in chiesa. I vecchi monaci, spesso, dovettero trovarlo assopito in coro: la sua debole costituzione giovanile non poteva sostenere sempre le lunghe veglie notturne. I monaci erano attirati dal fascino delle sue maniere, dalla sua umiltà, dalla precisione con la quale eseguiva le commissioni affidategli. Con l'incanto della sua conversazione, con l'affabilità delle sue maniere, con il suo portamento edificante riuscì a guadagnarsi la stima e l'affetto di tutta la comunità. Un fratello laico in un monastero, deve saper compiere molti uffici manuali: pulizie, muratore, imbianchino, falegname, fabbro, giardiniere.

     Il Beato Angelo nelle occupazioni affidategli dall'obbedienza rivelò sempre somma diligenza e capacità. Egli avrebbe voluto scegliersi i lavori più pesanti e umili. I suoi confratelli, invece, incantati dal fascino delle sue virtù, facevano a gara per evitargli un eccessivo lavoro. Mentre il Beato Angelo si santificava nella nostra abbazia, era ancora in via di costruzione l'attuale chiesa di San Benedetto, i cui lavori furono iniziati nel 1256 e terminati nel 1315.

     Entro le mura del cenobio, ferveva un vero cantiere: i carri, trainati dai buoi, trasportavano le pietre. Il picchiettio degli scalpellini turbava la quiete monastica. I muratori, sulle impalcature ponevano le ultime pietre sulle arcate romaniche e sulla facciata. E' logico immaginare che il nostro giovane monaco partecipò a quei lavori, forse come manovale. Per questo noi, entrando nella nostra cattedrale, possiamo ripetere: « Sono preziose, o Signore, le pietre della tua casa alla quale conviene la santità e la continuità nel tempo ». L'abbazia di San Benedetto con la vastità dei suoi fondi, in pianura e in montagna, era necessariamente anche un centro di produzione agricola.

     In occasione, poi, di feste e pellegrinaggi, entro le mura castellane, per iniziativa dell'abate, si tenevano fiere e mercati, che mettevano in agitazione i cittadini. Coloro che intervenivano alla fiera di San Michele Arcangelo (durava otto giorni) non pagavano le imposte. Antichissime erano le fiere di San Lazzaro e quella di San Egidio in Gaifana (ne parla il codice di S. Facondino N. 7853... quindi esisteva già nel secolo VII): i nostri artigiani - anche allora - s'imponevano per la loro abilità. In quell'epoca, ogni abbazia aveva i suoi « negotiatores » cioè i suoi agenti commerciali. Le antiche vie di Roma erano percorse dai carri dei monasteri carichi di prodotti agricoli. Il nostro giovane monaco, forse, dovette essere impiegato anche in tale settore dell'attività monastica.

     È bello immaginare il nostro inclito Protettore occupato nei più duri lavori manuali. Del resto fin dalla più tenera infanzia, come pastore, egli santificò il lavoro. La tanto decantata nobilità del lavoro e la promozione sociale non sono cose nuove nella chiesa santa di Dio. Gesù visse in una modesta casetta di Nazaret fino a tren'anni: quando si manifestò al mondo tutti lo riconobbero come figlio putativo di Giuseppe l'oscuro falegname d'una umile borgata di Galilea.

      Il Beato Angelo segui l'esempio di Gesù.

 

 

Nell'eremo dei Santi Gervasio e Protasio a Capodacqua

 

     L'ascesi benedettina contempla il passaggio del monaco a vita eremitica. Gli stessi patriarchi del monachesimo occidentale, San Benedetto, San Romualdo, fondatore dei camaldolesi, iniziarono la vita religiosa nascondendosi nel sacro speco di Subiaco, e in un'isola della laguna veneta. L'abbazia di San Benedetto possedeva, a Capodacqua, un eremo dove si rifugiavano, con l'autorizzazione dell' Abate, i monaci chiamati da Dio alla vita di pura contemplazione. L'eremo formato da diverse celle distanti qualche decina di metri l'una dall'altra, aveva la sua chiesa dedicata ai Santi Gervasio e Protasio, dove gli eremiti si riunivano, tutti i giorni, per recitare le preghiere in comune, per ascoltare la S. Messa e per tutte le altre pratiche di pietà prescritte dalla regola lungo il corso dell'anno.

     La chiesa dei Santi Gervasio e Protasio sorgeva in un declivio silvestre e solitario dell' Appennino gualdese, tra monte Maggio e monte Serrasanta, quasi a due chilometri di distanza e un poco più in alto dell'attuale convento dei PP. Cappuccini, in una località denominata Capodacqua, forse perché ivi ha la sua sorgente il ruscello Romore. Mons. Casimiri opinava che essa dovesse sorgere nei pressi dell'attuale casa colonica ora appartenente all' Amministrazione Mavarelli. L'abbate di San Benedetto, ogni mese, - anche più frequentemente se la necessità lo richiedeva - raggiungeva l'eremo e ivi trascorreva qualche giorno con gli eremiti bisognosi di direzione spirituale e d'incoraggiamento. Nella vita eremitica, il monaco deve sostenersi con una intensa vita interiore e il lavoro manuale.

     Angelo, dopo alcuni anni di vita religiosa, trascorsa nella preghiera e nel servizio delle anime nell'abbazia di San Benedetto, si sentiva chiamato ad una vita di maggiore mortificazione. Era poi, quasi ineluttabile e insopprimibile per un antico pastore il richiamo puro delle vette dove non giunge la voce dell'uomo, in alto, dove le nuvole e il cielo si confondono in un incontro che simboleggia l'intima unione dell'uomo con Dio. Dopo aver molto pregato e consultato il suo direttore spirituale, il giovane monaco chiese ed ottenne dal suo abbate di poter consacrare la sua vita a Dio, nella solitudine dell'eremo dei santi Gervasio e Protasio.

     In una conca, a mezza costa di Monte Maggio, le bianche celle degli eremiti spezzavano la cortina uniforme della immensa macchia di verde che si estendeva, in tonalità cangianti, lungo la valle del ruscello Romore. La vita degli eremiti di Capodacqua era di un'austerità straordinaria. Ogni eremita aveva la sua cella separata, dove viveva nella più stretta solitudine, durante la settimana. Gli eremiti si riunivano ogni giorno per compiere insieme i divini uffici: preghiere in comune, canto dei salmi, celebrazione della S. Messa. Essi si occupavano anche di lavori manuali. Le occupazioni più consuete, oltre alla coltivazione del campo da cui doveva raccogliersi quanto era necessario per poter vivere: frumento, legumi, frutta, impegnavano gli eremiti anche nella tessitura dei tappeti, nella preparazione degli ornamenti per le chiese e per gli altari, in lavori di falegnameria. Nell'eremo, quindi, bisognava abituarsi a vivere con il sudore della propria fronte. Però non doveva essere facile coltivare quell'impervia brughiera digradante a valle, sassosa e brulla, dove i raggi del sole penetravano con molta parsimonia.

     Il Beato Angelo conobbe cosi le sudate fatiche della preparazione del terreno, del disboscamento, dell'aratura, della semina, della potatura. Le sue mani recano l'impronte tipiche degli agricoltori. Conveniva affrettare il lavoro, specialmente nell'autunno, perché nella conca di Capodacqua scendevano presto le ombre della sera. E più di una volta, a motivo d'improvvise bufere di neve, il ghiaccio e le notti gelate, bruciarono le piantagioni. Allora per compensare il raccolto compromesso, bisognava ricorrere immediatamente ad altre semine. Ma il buon Dio che veste i gigli del campo e nutre gli uccelli dell'aria, non fece mai mancare il necessario al nostro eremita.

     L'eremo è l'anticamera del cielo: "la solitudine non costituisce l'essenza della perfezione - scrive San Tommaso - ma è il congruo strumento per la contemplazione e non per l'azione". Il Signore non si fa sentire in mezzo al turbinio del mondo. Mosè ebbe le rivelazioni sul monte Sinai. Gesù dischiuse i segreti del suo messaggio divino sulla collina delle beatitudini. San Benedetto e San Francesco, nello speco di Subiaco e sul monte Verna, ebbero le illustrazioni che rifulsero in tutta la vita di fondatori di monastiche famiglie.

     Anche l'anima del Beato Angelo si aprì ai misteri della contemplazione nell'eremo di Capodacqua, come i fiori si dischiudono in primavera. La diuturna elevazione della mente in Dio, la contemplazione amorosa dei suoi misteri gli fecero pregustare a sprazzi i raggi della luce beatifica. Autentico figlio spirituale di San Romualdo, egli sentiva in grado eminente il senso ecclesiale della stessa vita eremitica, cioè la coscienza di appartenere al corpo mistico di Cristo, conseguentemente anche la responsabilità di quanto avveniva nel mondo, dove tanti fratelli, distratti dalle preoccupazioni terrene, correvano il rischio di essere privati per sempre dei tesori della passione e morte di Gesù. Egli pertanto aspirava, quasi con volontà irriducibile, ad essere strumento di salvezza di tutti i peccatori ed offriva tutte le sue preghiere, tutte le sue penitenze per placare la misericordia di Dio implorandone il perdono. Con la sua dedizione totale, con il martirio quotidiano del cuore, egli dava il supremo testimonio della carità per l'umanità sofferente e traviata, per la conversione di quanti avevano la suprema infelicità di offendere la legge santa di Dio, per l'unità della Chiesa anche allora travagliata dalla discordia.

     Nell'eremo di Capodacqua c'era tanta pace! Il giovane eremita si vedeva immeritatamente - così lui credeva - circondato da tante gentili attenzioni dei suoi confratelli. In mezzo a una vita di tanta austerità, in una unione quasi ininterrotta con Dio, egli godeva della sincera stima degli altri eremiti che ne ricercavano la compagnia.

     Il Sillani riferisce: « Angelo spiccava fra quei buoni eremiti per la profonda umiltà con cui si riconosceva l'infimo di tutti, e a tutti prestava servigi, non meno che per l'eroica pazienza, con la quale tollerava allegramente i disagi inseparabili della vita solitaria, e qualunque altro sinistro accidente potesse mai accadergli. Gioivano quei fervorosi solitari, e benedicevano il Signore che avesse loro concesso un sì santo compagno, da cui apprendere potevano la maniera onde giungere alla perfezione più sublime».

     Peraltro, scrive il medesimo autore, « Il nostro Beato Angelo, malgrado tanta benevolenza di quei santi eremiti, sentiva ogni giorno di più un indistinto disagio. Già non avrebbe voluto più sortire dal romitorio, come prima faceva onde procurare il sostentamento quotidiano, e le altre cose necessarie alla vita, andando qua e là elemosinando dai fedeli per l'amor di Dio. Aveva conosciuto dall'esperienza che lo spirito non poco si distraeva in tale occupazione, e non si rimaneva in quella continua presenza di Dio, che è il fondamento della perfezione».

     I santi nel loro costante e irreversibile sforzo verso la perfezione, sono degli eterni insoddisfatti. La loro abnegazione, la loro inestinguibile sete di sacrificio, si ispira al precetto di Gesù: « Siate perfetti, come è perfetto il padre vostro che sta nei cieli».

      Quindi nello spirito del nostro beato si fece certezza che era più meritorio accettare integralmente la norma benedettina di cercare la perfezione monastica nella « singolarem pugnam» cioè di affrontare, con l'aiuto di Dio, il pressante invito alla solitudine, una vita esclusivamente interiore, addolcita dalla presenza di Gesù, della Madonna, degli angeli e dei santi. Una vita angelica in terra d'esilio, nell'attesa di raggiungere la beata eternità.

 

 

Trenta anni nella solitudine di Val Romore

 

     Le anime chiamate alla perfezione cristiana, fedeli e generose nella corrispondenza alla grazia di Dio, non sono mai soddisfatte del loro stato. Nella loro profonda umiltà, pur conoscendo le molteplici deficienze dell'umana natura, sentono un bisogno irreversibile d'imitare Gesù, di riprodurne fedelmente i lineamenti spirituali. E in una continua e irresistibile tensione verso l'ideale d'ogni perfezione, vibra appassionatamente tutto il dramma dei santi, la loro lotta quotidiana per il raggiungimento d'un ideale sofferto e affascinante per il quale arrivano ad immolare, senza alcun rimpianto, generosamente la loro esistenza.

     Il Beato Angelo, ottenuta la grazia di essere ammesso come fratello laico, nella Congregazione camaldolese, fin dall'inizio della sua vita monastica, prese la ferma risoluzione d'imitare lo spirito di San Romualdo nella solitudine, nella penitenza e nella contemplazione.

     La leggenda Francescana, riferendosi alla vita religiosa trascorsa dal nostro giovane nell'eremo dei santi Gervasio e Protasio, narra che « i monaci spinti dalla necessità di procurarsi il vitto e la legna, non di rado erano costretti ad uscire fuori dell'eremo e a frequentare il popolo vicino per elemosinare il necessario, perdendo in tal modo la tranquillità dell'animo. L'uomo di Dio - Angelo - desiderava, invece, starsene morto al mondo e alle sue vanità, per essere occupato soltanto nelle cose celesti e vivere sempre alla presenza di Cristo. Egli, pertanto, se ne doleva nel vedersi distratto dall'unione con Dio, per attendere alle preoccupazioni di questa vita terrena e temeva che con grande difficoltà sarebbe ritornato alla quiete dello spirito; inoltre il da farsi che si davano quei pii romiti aveva creato in loro una certa dissipazione. Dall'altra parte gli dispiaceva di mangiare il pane e vestire alle spalle altrui. Per cui il santo uomo, per non essere a nessuno d'inciampo e per non dar motivo a giustificate lamentele e in tal modo compromettere la carità fraterna, deliberò di andarsene a vivere recluso nella contemplazione di Dio... solo con Dio da cui si sentiva separato unicamente dal peso della carne ».

     Ottenuta l'autorizzazione dell'abate di seguire la vocazione di « recluso », il nostro giovane monaco - afferma la cronaca francescana - « chiese con benignità ai genitori che gli fabbricassero una celletta nei loro possessi, provvedendo anche al suo sostentamento ».

     Qui sorge una difficoltà: se i genitori erano già morti, come potevano costruirgli la celletta in VaI Romore? Lo Jacobilli risponde al quesito: la parola « genitori» deve essere presa in un senso molto esteso, cioè di "familiari". Infatti egli scrive: "vedendo che per necessità di vitto e di legna gli conveniva (ad Angelo) spesso uscir dall'eremo, e conversare fra secolari; essendosi esso già distaccato dal mondo, non voleva più ritornarvi; ma approssimarsi a Dio con la solitudine. Dimandò licenza ai suoi compagni, e domandò ai suoi qualche terreno, non volendo incomodare altri estranei: come essi benignamente fecero in un luogo solitario nella valle di Serra Santa, vicino a un rivo d'acqua".

     "Chiuso in cella, conduceva una vita angelica e solo intento alle orazioni, ai digiuni e alla contemplazione; da una finestrella metteva fuori una pertica alla cui sommità era legato un secchiello, e in questo modo attingeva l'acqua dal ruscello vicino".

     Nelle pareti della cripta del Beato Angelo, nella Cattedrale di San Benedetto, il prof. Ulisse Ribustini, in cinque pannelli, illustrò la vita del Beato Angelo trascorsa nella cella di VaI Romore. Al pittore sono sfuggiti due dettagli: la cella era certamente più squallida e l'abito indossato dall'eremita camaldolese era di color bianco. Indubbiamente si ispirò al colore dell'abito con il quale frettolosamente fu rivestito il corpo del Beato Angelo, dopo l'incendio sviluppatosi sul suo altare in San Francesco, nel 1887, dove era custodito durante i lavori d'ampliamento della chiesa cattedrale di San Benedetto.

     Come immaginare il nostro Beato, nel lungo periodo di oltre trenta anni trascorsi nella solitudine di VaI Romore?

     Egli, come tutti gli anacoreti del suo tempo, portava una corta barba, che negli anni giovanili gli conferì un aspetto austero e maturo, superiore a quello della sua età. Dopo anni di lunga ed estenuante penitenza, egli appariva pelle ed ossa: un fascio di muscoli vibranti di un'eccezionale vitalità.

    Sotto quel dimesso aspetto, splendeva una meravigliosa anima. Gentile, affabile. Due occhi rilucenti di cielo, abituati alla contemplazione estatica di Dio. La sua voce dolce e penetrante ispirava immediatamente fiducia ed effondeva in tutti i cuori, una misteriosa calda simpatia.

      Il digiuno e la penitenza non incisero mai nella sua salute; infatti gli storici non fanno mai cenno di alcuna malattia durante il corso dei suoi 54 anni. In una sana e robusta costituzione, egli conservò l'equilibrio delle sue ottime qualità umane, avvalorate dalla grazia e dalla continua vigilanza. Austero con se stesso e prudente in tutte le sue azioni, senza volerlo, manifestava una superiorità di spirito che incuteva rispetto e fiducia. Era benigno e servizievole con tutti. Non c'era persona che ricorresse a lui per chiedergli consigli o per deporre le angosce mortali nel suo cuore, che non ritornasse confortata e rassegnata. Affettuosamente paterno fu sempre con gli umili, e poveri, i peccatori e i bimbi, senza però mancare di severità, incitandoli al ravvedimento quanti erano venuti meno al proprio dovere.

      Per i figli prodighi, impegolati in disordini, spesso involontari, o trascinati al male ciecamente, aveva sempre parole dolci, indulgenti, confortevoli che aprivano le vie del ritorno alla casa del Padre che sta nel cielo dei cuori che a Lui tornano ravveduti.

      Come Benedetto da Norcia e Francesco d'Assisi, egli volle rimanere laico converso. Non pensò mai di compiere gli studi per divenire sacerdote; eppure Dio l'aveva dotato di una intelligenza superiore, che gli avrebbe permesso di compiere facilmente il tirocinio scolastico con ottimi risultati. Egli tuttavia una grande venerazione per i ministri di Dio le cui mani consacrate baciava con riverente grazia. Alla sua cella accorrevano monaci e sacerdoti per dispensargli i sacramenti della grazia e per edificarsi nello spirito alla luce dei suoi esempi e delle sue conversazioni. Vestiva una bianca tunica molto povera, sempre pulita ed ordinata, simbolo della limpidezza del suo spirito. La sua cella era costituita da due piccoli ambienti: in uno c'era il suo povero giaciglio, fatto di tavole sconnesse; nell'altro era stato collocato un piccolo altare ai piedi del quale egli faceva le sue pratiche di pietà, che lo tenevano impegnato per molte ore durante il giorno e spesso anche gran parte della notte in prolungate veglie.

      La sua vita contemplativa in cui egli viveva assorto, spesso, veniva interrotta dall'esercizio della carità. Da una piccola scintilla può scoppiare un grande incendio. La vita del Beato Angelo, in VaI Romore, infatti, con il trascorrere degli anni, si trasformò in una effusione di bruciante ed entusiasmante carità che varcò anche i confini di Gualdo e della stessa diocesi di Nocera.

       Infatti, alla sua cella affluivano ininterrottamente, anime in pena, uomini, spose, sconvolti dalle tragedie della vita, bimbi innocenti che attraverso le sue parole s'innamoravano delle verità eterne. La sua preziosa esistenza di « recluso» realmente ebbe una irradiazione apostolica. Innumerevoli furono le anime da lui incoraggiate al bene, da lui disposte ad accogliere rassegnatamente le prove più ardue della vita, da lui portate a credere fermamente all'amore di Dio che è luce, vita, speranza, salvezza.

      Come spiegare tanta efficacia della parola di un umile eremita analfabeta? Iddio benedetto che da tutta l'eternità aveva destinato, per i suoi imperscrutabili disegni, il Beato Angelo quale modello di vita per tutti i suoi concittadini, dovette averlo ricolmato di grazie speciali necessarie al compimento dell'eccezionale missione affidatagli: protettore e custode della vita cristiana del nostro Comune.

      Se il nostro inclito patrono fosse rimasto nell'abbazia di San Benedetto o nell'eremo di Capodacqua, avrebbe dovuto limitare la sua attività al compimento del suo umile ufficio di fratello laico e la sua personalità non avrebbe potuto manifestarsi interamente perché avrebbe dovuto passare quasi inosservata di fronte alla prudenza dei suoi con fratelli e alla saggezza dei suoi superiori. Iddio per tale motivo, con la vocazione speciale di « monaco recluso» pose il Beato Angelo sul candelabro e gli dette, nella solitudine, la possibilità di consacrarsi a una prodigiosa effusione di carità a vantaggio dei fedeli che accorrevano alla sua cella. Egli volle fuggire il mondo: ma l'umanità dolorante, con tutte le sue ansie e le sue pene, entrò nella sua cella in cerca di luce, di pace.

      Chi conosce il cammino del Signore?

    Il buon Abate di San Benedetto, nell'osservare lo spettacolo incessante dei fervorosi pellegrini che si recavano all'eremo di VaI Romore, nell'apprendere le manifestazioni della grazia che in quel lembo di cielo, miracolosamente operava il Signore, attraverso il ministero di un umile monaco, con animo colmo di gioia e di riconoscenza, alzava frequentemente, gli occhi al cielo e dal fondo del suo cuore esclamava: « lo Ti ringrazio, o Padre, o Signore del cielo e della terra e dei cuori, perché nascondesti tanti segreti ai sapienti ed invece li hai rivelati a frate Angelo, monaco analfabeta, cui hai dato la grazia dell'unzione della tua parola che conforta, della tua luce che illumina il cammino della preghiera e della penitenza.

 

 

La fisionomia Spirituale del Beato Angelo

 

    Quando il sole volge al tramonto, manifesta tutto il suo splendore, negli incantevoli riflessi della sua luce. Prima di chinarci devotamente sulle spoglie mortali del nostro Protettore, dopo averlo seguito nelle vicende più salienti della sua esistenza, a profitto delle nostre anime, cerchiamo di raccogliere gli insegnamenti della sua intensa vita interiore.

     L'eremita di VaI Romore che, dopo quaranta anni consacrati al fedele sevizio di Dio e delle anime, era riuscito a staccarsi dalle miserie di questa terra, si sentiva sempre più attirato verso il cielo e, con insopprimibile ansietà, verso l'intima unione con Gesù, andava sospirando con amorosa nostalgia: « Quando vedrò, o Signore, il tuo volto? Vieni, vieni presto o Signore e non tardare! È così triste la terra quando contemplo il cielo! ». Angelo nella sua umiltà cercava di nascondere la sua vita interiore che, peraltro, irrompeva silenziosa e raggiante in tutte le manifestazioni della sua esistenza, come il profumo dei fiori e le sorgenti montane.

      Grave, maestoso, dolce, affabile, Angelo ispirava a tutti confidenza e rispetto. Contemplando il suo volto, coloro che affluivano alla sua cella, si sentivano condotti irresistibilmente a Dio. Egli, infatti, in tutti i suoi atteggiamenti, rivelava un complesso di mirabili qualità: alta statura, costituzione robusta, squisita sensibilità, modi cortesi, affabili; fronte alta e spaziosa, sguardo vivo e penetrante, bontà e modestia nel tratto, voce suadente, carezzevole. Lo spirito ardente ed elevato, arricchito d'una acuta intelligenza, di volontà risoluta e d'una felicissima memoria, si nascondeva sotto le umili vesti di fratello converso e analfabeta. La vivacità, la pazienza, la forza e la dolcezza, la prudenza e la temperanza, formavano l'incanto di quell'eremita alla cui cella era un ininterrotto pellegrinare, specialmente negli ultimi anni della sua vita, di castellani, guelfi, ghibellini, nobili, cavalieri, poveri, infermi, vedove, orfani. Per tutti egli aveva il consiglio appropriato, l'esortazione convincente, il conforto che compensava le delusioni, la luce che diradava le tenebre del cammino, la parola che infondeva il convincimento, e a volte anche il rimprovero che suscitava sempre propositi di generosità e di ravvedimento.

 

 

La Sua Fede

 

     La sua fede era quella che il Signore chiede nel Vangelo: fede ferma che non vacilla, che non dubita mai e affascina le anime perché si trasforma in una fiamma illuminante di carità, spesso con il pregio di strappare al Signore anche il miracolo quando entra in gioco la salvezza delle anime o il ritorno alla casa del Signore di peccatori meritevoli di misericordia e di perdono.

     Rientra nell'esaltante trionfo della sua fede, il miracolo da lui ottenuto, avvenuto nei rigori d'un gennaio rigidissimo, del cestello di ciliege al fine di salvare un disgraziato condannato a morte da un giudice severo. I pellegrini che giungevano a VaI Romore, spesso erano stanchissimi perché venivano da molto lontano ed avevano bisogno di ristoro. Spesso il miracolo dell'acqua trasformata in vino generoso, serviva a confortare quelle anime assetate di verità le quali non si stancavano mai di ascoltare le sue esortazioni ispiranti fiducia e generosità.

     Nella solitudine, specialmente nella meditazione della sera, quando il silenzio facilitava gli amorosi slanci del suo cuore, la sua fede ardente gli rivelava i segreti delle realtà soprannaturali ed egli, allora, si sentiva come straniero in questa terra perché il suo cuore era già maturo per il cielo. La Leggenda 1 riferisce: « Il santo uomo vigilante custode del suo bene spirituale, era sollecito a confessarsi dai pii sacerdoti che si recavano a lui per avere opportuni consigli, e specialmente dal venerando suo padre spirituale, l'eremita Filippo il quale, nelle solennità, gli portava la Santa Comunione; l'uomo di Dio (il Beato Angelo) sciolto in lagrime e ripieno di grazia celeste, la riceveva con somma devozione. Egli, dunque, si cibava degnamente del pane disceso dal cielo, vita della grazia in questo mondo. Con l'apostolo Paolo egli poteva dire: « ormai non vivo più io, ma è Gesù che vive in me e, meritatamente, con il Salvatore: chi rimane in me ed io in lui, questi porterà molto frutto, perché senza di me non potrete fare nulla». E poiché l'Eucaristia è il memoriale della morte di Gesù, il nostro Beato Angelo fu molto devoto anche della passione di Gesù. Nella sua cella, egli, tutti i giorni, compiva il pio esercizio della Via Crucis, come aveva appreso da bimbo dalla sua mamma Chiara. Molte volte, su quel viso scarno, apparivano lagrime di sincera compunzione perché nella sua carne si ripetevano le sofferenze di Gesù.

     Egli nutrì sempre una grande devozione alla Madonna. Fin dalla più tenera età, la sua mamma lo condusse, frequentemente, ai piedi della miracolosa immagine della Madonna di Taino, la cui chiesa si trovava nei pressi di porta San Martino, dove attualmente sorge la chiesa di Santa Chiara che attende la comprensione e la generosità di qualche ispirato benefattore, al fine di essere restituita al culto, dopo tante penose e affliggenti malversazioni che fortunatamente, solo in parte ne hanno deturpato la facciata e l'interno.

     Santa Maria di Taino era la più antica chiesa sorta nel castello di Gualdo dove venivano battezzati tutti i bambini. Quel fonte battesimale - preziosa reliquia non sufficientemente ricordata - si trova tuttora nella chiesa abbaziale di San Donato: il suo fonte battesimale. Il nostro Beato Angelo fu anche molto devoto di San Michele Arcangelo, suo celeste patrono, protettore del castello di Gualdo, sorto, secondo una vetustissima tradizione, sul colle omonimo dove sarebbe apparso ad alcuni pastori.

     Egli venerò con particolare devozione San Giovanni Battista, i santi apostoli Pietro e Paolo, San Rinaldo, i santi protettori del nostro Comune: San Benedetto, San Facondino, San Gioventino, il Beato Maio, il Beato Marzio, San Francesco d'Assisi e Santa Chiara e in modo speciale San Romualdo, fondatore della sua diletta congregazione dei camaldolesi.

     Molto cara gli fu pure la devozione a San Giacomo di Compostella, al cui santuario aveva pellegrinato nella sua giovinezza e alla cui festa si preparava con particolari digiuni e orazioni.

     Pregava spesso per le anime del purgatorio, l'efficacia di tale devozione la sperimentò durante il corso di tutta la sua vita: il suo cuore si volgeva spesso, all'alba e al tramonto specialmente, alla chiesa di San Facondino, dove erano stati sepolti i suoi genitori Chiara e Ventura e tante persone a lui care.

 

La Speranza

 

     In mezzo a tante prove, inevitabili al perfezionamento d'ogni anima su questa terra, il Beato Angelo dimostrò di possedere, in modo ammirabile, la virtù della speranza. Egli, in ogni circostanza, sapeva abbandonarsi fiduciosamente nelle mani di Dio, come un bimbo si rifugia sicuramente nelle braccia della mamma. Quando si trattò della scelta dello stato, di abbandonare le agiatezze familiari, molto pregò e pellegrinò al santuario di Compostella. Confortato dalla speranza di Dio, per lo spazio di quaranta anni, compì la sua mortificata giornata terrena, vittima innocente accetta al Signore, benedetta dagli uomini affidati alla sua efficace protezione.

     Quando sorsero dubbi sulla sua austera vita, verso il 1305, dicono i biografi che fu sottoposto alla visita apostolica della Santa Inquisizione, la quale, ad esame compiuto, testimoniò che: « Angelo era autentico eremita e che santa era la sua vita; fu esortato a perseverare nel cammino intrapreso ».

     Non gli mancarono gli ostacoli; il biografo al riguardo ricorda che: «le molte tentazioni e difficoltà con le quali fu spesso combattuto e provato, non riuscirono a fiaccare la sua resistenza né ad affievolire il suo amore verso il Signore perché lottò virilmente da grande atleta di Cristo fino alla fine».

    Il demonio non poteva sopportare le opere buone compiute dal servo di Dio per la salvezza delle anime e, per tale motivo, con frequenti, spaventose tentazioni, cercò di condurlo allo scoraggiamento rendendogli la vita molto difficile.

     Mentre egli, dalla piccola finestra della sua cella, si accingeva ad attingere l'acqua dal vicino torrente, mediante un recipiente calato a corda, l'angelo delle tenebre cercava di spaventarlo apparendogli sotto l'aspetto d'un bellissimo serpente. Il servo di Dio, illuminato e sostenuto dalla fede, individuava l'insidia e metteva in fuga il demonio facendosi il segno della croce.

    Egli pure, come Francesco d'Assisi, nelle contemplazione della natura, trovò nobili motivi per l'elevate ascensioni spirituali. Egli ammirava la presenza di Dio nel firmamento, nel cielo stellato, nell'umile fiore del campo, nel canto degli uccelli, nello scrosciare dell'uragano, nel succedersi ammirevole delle stagioni, nel frumento biondeggiante che ogni anno rinnova la moltiplicazione del pane per i giusti e per i facinorosi, come la luce del sole e i fiori che sbocciano ogni anno a delizia dei buoni e ad ammonimento per i trasgressori della legge di Dio.

     Rientra in questa sua estatica ed intima comunione con la natura, il prodigio d'imporre al vento di tacere in una notte in cui sembrava deciso a voler travolgere la selva improvvisamente inferocita. Ascoltiamo il racconto narratoci da Fra Paolo (Leggenda 1): "L'altro ieri, spirando un gran vento, scuoteva gli alberi fortemente tanto da temere che dovessero cadere da un momento all'altro. Io miserello guardavo dalla finestra e preso da compassione per essi esclamai: Onnipotente Signore, ti prego per la tua grande misericordia di far tacere questa spaventosa tempesta perché gli alberi non abbiano a cadere a terra". E il vento immediatamente tacque.

      Il servo di Dio, nella sua umiltà, di fronte al prodigio, si pose la domanda: "Non ho forse peccato di presunzione chiedendo a Dio un simile favore?". Il suo spirito angosciato si tranquillizzerà soltanto quando il suo padre spirituale autorevolmente gli dirà.: « È cosa buona pregare perché la divina misericordia freni la peste, la tempesta, gli avvenimenti avversi che possono pregiudicare la nostra esistenza. Sono prove permesse da Dio offeso da tanti peccati: punizione per le empietà degli uomini ». Dio esaudisce sempre le preghiere di coloro che fermamente sperano in Lui. Chi confida nel Signore non rimarrà mai confuso.

 

 

La Sua Carità

 

      La carità verso Dio è il principio e la misura dell'amore verso i nostri fratelli: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore, e amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Questo è il massimo e il primo comandamento. Il secondo, poi, gli è simile: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Altro comandamento maggiore di questi non c'è. Da questi due comandamenti dipende tutta la legge e i profeti ». Quando Gesù benedetto, con la sua grazia santificante, prende possesso di un'anima non vi entra mai solo bensì con tutte le miserie affliggenti e purificatrici dell'umana natura.

   Tutte le sofferenze di quell'epoca tormentata della chiesa e della patria, tutte le affliggenti angustie dei suoi concittadini si ripercuotevano nel cuore generoso e compassionevole del nostro Beato Angelo. Egli avrebbe voluto, anche a prezzo della sua vita, lenire quelle sofferenze, asciugare le lagrime di quanti a lui ricorrevano e far sentire a tutti che la tranquillità di spirito si raggiunge soltanto nell'accettazione fiduciosa del divino messaggio delle Beatitudini: « Beati i distaccati dai beni terreni perché di essi è il regno dei cieli; beati i miti perché essi erediteranno la terra, beati gli afflitti perché essi saranno consolati, beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».

     Nessuno ama i poveri come li amano i santi, i quali possiedono il segreto della vera carità, che si dona generosamente senza esaurirsi mai. Come la fiamma che si trasmette indefinitamente senza perdere nulla del suo splendore. Prima di farsi religioso, Angelo donò tutti i suoi beni ai poveri, per divenire povero per amore di Gesù, nato e vissuto Lui pure in grande povertà.

     Tuttavia la Divina Provvidenza non gli fece mancare mai i mezzi anche per consolare quanti a lui ricorrevano perché nei poveri egli ravvisava la presenza di Cristo: « Quanto aveva fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. E quando avete negato qualche cosa ai poveri, in verità vi dico, voi l'avete negato a me ».

       I nobili, i feudatari dei castelli vicini, i cittadini di Gualdo non facevano mai mancare le loro offerte all'eremita di Vai Romore, perché egli potesse fare la carità ai poveri e consolarli nelle difficoltà. La sua carità era delicata ed ingegnosa, preveniente e non umiliante. Rifuggiva da ogni forma di ostentazione, perché ravvisava in colui che tende la mano la persona di Gesù. Tuttavia mentre era generoso nell'aiutare i poveri, continuava ad imporre a sé stesso un regime di rigorosa povertà.

       Fra Paolo (Leggenda 1) racconta un episodio che può lasciar perplessa la nostra attuale sensibilità. « Due eremiti che abitavano in una località più alta, stavano riparando la cella del Beato Angelo. Giunta l'ora della refezione, il nostro eremita, cominciò a frantumare con i denti il pane duro e a prepararlo per i due eremiti che avevano lavorato per restaurargli la cella. Gli eremiti nel vedere Angelo che spezzava il pane con i denti gli fecero osservare: «Fra Angelo perché fai questo? Noi pure abbiamo i denti per spezzare il pane e metterlo poi nei piatti».

        E il Beato Angelo: «Miei cari come la mamma prepara il cibo per i bimbi, io pure faccio la stessa cosa per voi».

       Il pane che il Beato Angelo si riservava era quello destinato dai ricchi ai poveri; bocconi di pane trascurato o lasciato indurire nella madia per vari giorni. Era un pane durissimo. Il nostro Beato lo spezzava con i suoi denti per togliere dall'imbarazzo i suoi casuali ospiti. L'esercizio della sua delicata carità, mirava sempre alla edificazione spirituale. Anche attraverso l'elemosina, pensava alle anime che voleva ricondurre a Dio innamorandole delle realtà soprannaturali.

      Apostolo di Dio sapeva accendere il sacro fuoco della carità divina in quanti anelavano ad una vita di maggiore perfezione. Anima delicata, era sempre molto attenta a non fare spegnere il lucignolo fumigante. Quando scorgeva uno sprazzo di buona volontà, ad incoraggiamento apriva subito il suo cuore suscitando nelle anime la gioia del ritorno a Dio, il rifiorire della speranza che conforta, lo splendore folgorante del cammino sicuro tracciato da Gesù con la sua parola e con i suoi esempi: via, verità, vita per quanti aspirano alla beata eternità.

     La vita del nostro Beato Angelo, specialmente verso il tramonto della sua vicenda terrena, si era trasformata in un affascinante messaggio vivente e vivificante di Dio. La sua parola conquistava i cuori. Tutti si sentivano stimolati irresistibilmente verso il bene. La sua cella era una scuola di perfezione cristiana; la sua cattedra: il davanzale di quella finestrella che si dischiudeva nell'orizzonte della patria celeste.

       A volte, per intere giornate, per intere settimane, i pellegrini, raccolti sotto improvvisate tende, rimanevano vicini a lui, malgrado i rigori della stagione invernale. Quel fortunato lembo di terra di VaI Romore, lambito da acque cristalline e accarezzato da soavi brezze, quell'incantevole valle protesa verso il Pian di Taino in un'ansia di più vasti orizzonti, con l'andar del tempo e con lo spargersi della fama di santità del nostro santo eremita, si trasformò in un cena colo di amore, in una fiamma di bruciante carità divina che trascinò a Dio innumerevoli anime.

 

 

Nello splendore dei Santi

 

     Il compianto Mons. Raffaele Casimiri, le cui spoglie mortali attendono la resurrezione dei morti presso la gloriosa tomba del Beato Angelo, nel 1921 pubblicò un opuscolo: « Un Codice Liturgico Gualdese del sec. XIV». Tale libro liturgico membranaceo, usato dai monaci dell' Abbazia di San Benedetto, risale al 1250 e fu ritrovato presso un venditore di libri vecchi a Roma. L'acquistò Mons. Roberto Calai Marioni destinandolo all' Archivio della nostra cattedrale dove è custodito gelosamente.

     E in quel documento - cronaca dell' Abbazia che fissava gli avvenimenti principali che a mano a mano si succedevano, nel monastero di San Benedetto, - sotto la data del 15 gennaio 1324, è scritto:

« OBIIT FRATER  ANGELUS VENTURAE VENERABILIS HEREMITA SUB ANNO DOMINI MCCCXXIV -

MORI' FRATE ANGELO, FIGLIO DI VENTURA, VENERABILE EREMITA L'ANNO DEL SIGNORE 1324 ».

     I fiori più belli e più delicati esposti al sole rovente dell'estate si seccano e muoiono. Anche le anime bruciate dalla carità divina finiscono per ripiegarsi su se stesse sotto gli effluvi incandescenti della grazia. L'ora del tramonto precede la pienezza del meriggio. La santità del Beato Angelo, all'età di 54 anni, aveva raggiunto la pienezza della grazia e della luce dell'occaso terreno e si perdeva negli splendori dell'eternità beata.

     Il popolo di Gualdo all'alba del sec. XIV, visse un'epoca d'intenso fervore religioso e di amor patrio. Mentre erano in costruzione le chiese di San Francesco e di San Benedetto e la Piazza Maggiore si arricchiva dei Palazzi dei Consoli, dell' Arengo, della Cancelleria e della Torre Campanaria, i nostri antenati si chinarono commossi sulle spoglie della Beata Anna, donna di grande orazione e di austera penitenza, dotata di celesti estasi, che trascorse la sua vita in un eremitaggio, nelle adiacenze della Rocchetta. Accompagnarono pure, con il trionfo destinato ai figli migliori, il corpo del Beato Marzio alla sepoltura: il muratore santo di Pieve Compresseto, morto a 91 anni, in uno speco di Serrasanta.

      L'Ordine Francescano, in quell'epoca, suscitò fiamme di generosità nelle nostre famiglie: il Beato Giovanni Ernicola morto il 22 aprile 1320, Fra Leonardo e Fra Salvetto, morti in concetto di santità, circa il 1305. Fra Paolo, a proposito della morte del Beato Angelo, scrive: « Cristo, poi, togliendolo dal mondo, se ne portò la sua bell'anima in paradiso con gli angeli, dove quell'anima santa (Angelo), ha, presso Dio, la sua eterna dimora ». La Leggenda Benedettina conclude: « Solo era vissuto per tanti anni al cospetto di Dio; solo alla presenza di Dio rese la sua santissima anima, morendo nella piccola cella, all'ora di compieta, il giorno 15 gennaio dell'anno del Signore 1324".

       I due cronisti non parlano di malattie: il Beato Angelo morì di amore, come muoiono i santi, come muoiono tutte le anime innamorate

di Dio. La candela si spegne e cessa di far luce quando la fiamma ha consumato tutta la cera. Le meteore scompaiono nel firmamento quando hanno compiuto la loro apparizione misteriosa.

      Il Beato Angelo morì nella solitudine dell'eremo, morì fedele, fino all'ultimo momento, alla sua eroica vocazione di "recluso" per amore di Dio.

     Lo Jacobilli parlando della morte del Beato Angelo scrisse: "Il Signore con la sua presenza lo visitò e lo richiamò alla vita eterna nell'ora di compieta del 15 gennaio 1324".

      Il santo eremita inginocchiato sulla nuda terra, con le mani elevate al cielo, trascorre gli ultimi momenti della sua vita, innalzando inni di lode a Dio, invitando tutte le creature a lodare l'Altissimo, anelando la morte, correndole incontro e raccogliendola come ospite gradita: "Ben venga - esclamava - la mia sorella morte". Oh quell'ultima visita del Signore al suo servo buono e fedele in quella squallida cella, nelle ultime ore del tardo pomeriggio del 15 gennaio 1324! Quanta irresistibile attrazione in quella voce celeste che lo chiamava: "Vieni servo buono e fedele, entra nella casa del tuo Signore: lo voglio essere la tua ricompensa eterna".

      In quel supremo istante, la tenerezza filiale tornò a rinverdire nel suo cuore stanco e si dissolse nel soave ricordo dei suoi genitori: Chiara e Ventura, che finalmente, dopo tanti anni, di attesa, avrebbe ritrovato, per sempre, nella luce di Dio.

     Entriamo spiritualmente in quella cella. Tutto intorno un vento impetuoso urla nel bosco. Il santo eremita, di momento in momento, sente venire meno le sue forze: il suo cuore bruciato dagli impeti dell'amore di Dio, ha vibrazioni misteriose. Una luce meravigliosa illumina la cella: lo splendore, pur aumentando in un crescendo continuato, può essere contemplato soltanto con gli occhi del cuore; raggi misteriosi avvolgono quel facile involucro: la sua santissima anima si scioglie nella carne per essere assorta nella vita di eterna luce; il corpo si addormenta nel Signore.

     E' l'estasi suprema: l'unione intima con Dio. Improvvisamente si spezzano i lacci che finora lo hanno trattenuto in questa terra di esilio. Alle ombre del tramonto terreno succedono irrompenti, travolgenti gli splendori dell'eternità beata nella visione beatifica di Dio.

      Era il 15 gennaio 1324: ora di compieta. E da quel glorioso transito quale insegnamento per noi tutti! Dopo tanti anni, permane in tutti i gualdesi un'immensa forza che traluce di generazione in generazione, in tutto ciò che è nostro e ci circonda e riemerge potente come un richiamo irresistibile, come un appuntamento immancabile. E' forse un momento, un istante, ma è tutta la nostra vita che spontaneamente confrontiamo con quella del nostro inclito Protettore: riconosciamo il nostro egoismo, la nostra pochezza, l'inconsistenza dei valori umani, il vuoto immenso di "questa aiuola che ci fa tanto feroci".

       E al ricordo del suo beato transito, irrompe nel nostro spirito l'irresistibile anelito verso l'eternità beata.

      Il Beato Angelo rivolse tale invito agli uomini del suo tempo, ai suoi fratelli nel faticoso itinerario verso il cielo; continua a rivolgerlo a noi tutti, ansiosi di un progresso sociale ed economico ma che si risolve, spesso, a detrimento della pace del cuore.

       I miei genitori Belisario e Giulia, ad ogni ricorrenza del Beato Angelo, quando ero bimbo, mi conducevano in cattedrale e, tenendomi per mano, mi facevano visitare la sua cripta affrescata dal Prof. Ulisse Ribustini.

      Alla distanza di tanti anni, mi sembra di sentire ancora la voce così calda e tanto persuasiva di mio padre. Egli nell'illustrarmi quei pannelli, mi narrava, a modo suo, forse come l'aveva appreso dalla sua mamma Ginevra, la vita del nostro inclito Protettore. Rimanevo profondamente meravigliato - nascondendo però la perplessità che finiva per tormentare il mio piccolo cuore - dinanzi al quadro raffigurante la morte del Beato Angelo che non scorgevo giacente a terra e con gli occhi chiusi, come tutti i morti, bensì inginocchiato e con lo sguardo rivolto verso il cielo.

     Una volta - forse il 15 gennaio del 1918 - non potendo più resistere all'opprimente dubbio che mi affliggeva, glie ne chiesi la spiegazione. Alla distanza di oltre mezzo secolo, ricordo nitidamente la saggezza di quello schiarimento che mise a tacere per sempre tutte le mie inquietudini e infuse nel mio animo una luce intramontabile.

      "Figlio mio - disse mio padre posando su di me quel suo indimenticabile sguardo carezzevole e persuadente - gli eroi che difendono la patria muoiono in piedi e con le armi nelle mani. I santi che amano il Signore muoiono in ginocchio e con le mani rivolte verso il cielo".

 

 

Due grazie recenti attribuite all' intercessione del Beato Angelo 

 

     Il compianto Mons. Antonio Ribacchi, nel suo opuscolo "Il VI Centenario della Morte del Beato Angelo" narrando i miracoli attribuiti al nostro inclito protettore, fa la seguente riflessione: "Queste sono le grazie prodigiose, pubbliche e legalmente riconosciute che operò il Beato Angelo nei giorni delle sue feste centenarie del secolo passato. Un simile ricordo di qualche grazia straordinaria, pubblica, non vorrà lasciarlo anche a noi in questo nuovo centenario? lo lo spero".

     L'anno scorso fu celebrato il VII centenario della nascita del Beato Angelo e ai gualdesi residenti ad Esch sur Alzette (Lussemburgo) tre sacerdoti gualdesi, recarono in dono, la riproduzione in ceramica della statua di argento del Beato Angelo esistente nella sua cripta della cattedrale di Gualdo Tadino.

     In quella circostanza i sacerdoti gualdesi trovarono la famiglia della signora Marisa Guidubaldi (Esch sur Alzette) afflitta da una grande angoscia. La signora Marisa, mentre attendeva un bimbo, scampò da un serio incidente automobilistico e dette alla luce, prima del tempo, una bimba di sette mesi. Già in condizioni molto delicate, quell'angioletto ebbe un improvviso attacco di difterite ed il medico curante immediatamente dispose l'internamento in una clinica, tra la costernazione dei genitori.

    Questo accadeva il 20 settembre 1970, quando i sacerdoti gualdesi, presenti ad Esch, ebbero modo di confortare gli angosciati genitori. Si fecero preghiere al Beato Angelo: si implorò fiduciosamente la sua protezione. Quando il 27 settembre, i sacerdoti gualdesi lasciarono Esch per ritornare in Italia, la piccola Tiziana era sempre in una incubatrice e sotto la tenda di ossigeno: le sue condizioni, sempre molto gravi, sembravano già in lieve miglioramento. Si esortarono i coniugi Guidubaldi a voler continuare a invocare la protezione del Beato Angelo, protettore dei bimbi. La signora Marisa, nell'ultima cerimonia svoltasi nella chiesa di Esch, volle baciare fervorosamente la reliquia del Beato Angelo e la seconda volta per conto della piccola Tiziana.

      In data 15 di ottobre, la signore Marisa scrisse: "Vi faccio sapere che la piccola Tiziana è fuori pericolo: sta veramente bene; l'hanno posta fuori dell'incubatrice; si trova in un lettino tutto suo e pesa Kg. 2.200. Ancora un buon mese di pazienza e poi la porteremo a casa e faremo la festa di ringraziamento al Beato Angelo".

      Il 28 dicembre la signora Marisa tornava a scrivere: "la nostra Tiziana si trova qui fra noi dal dieci di novembre. Non può immaginare la nostra gioia che abbiamo avuto nel vederla qui tra noi. Con l'aiuto del Signore e del Beato Angelo è riuscita a vivere. Dopo l'anno nuovo la faremo battezzare e le faremo festa. Che il Beato Angelo me la protegga per il suo avvenire. La bimba ora pesa Kg. 4.400. Il dottore ha detto che essa sta molto bene".

 

***

 

      Il Comm. Giovanni Spiti, il 4 ottobre 1970, narrò, per averlo tanto ascoltato in famiglia, il seguente favore attribuito alla intercessione del Beato Angelo. Il suo babbo Mariano nacque con un difetto di pronuncia: grande e insuperabile difficoltà per organizzare la parola che gli usciva di bocca in incresciose inceppature. I genitori tentarono, inutilmente, tutte le cure.

     Allora ricordando che al Beato Angelo veniva attribuita la protezione di quanti si trovavano in simili difficoltà, decisero di portare il fanciullo presso la gloriosa tomba dell'eremita camaldolese. Il bimbo aveva dieci anni: era l'anno 1894. Il piccolo Mariano fu condotto all'altare del Beato Angelo: insieme ai genitori si raccomandò vivamente alla sua protezione. Un sacerdote toccò con la chiave dell'urna del Beato la lingua del fanciullo, il quale immediatamente acquistò la scioltezza di eloquio. I genitori attribuirono il miracolo al Protettore di Gualdo. Il compianto Mariano Spiti, tutti gli anni, in compagnia del figlio Giovanni quando ebbe costui un'età adeguata, finché glielo permisero le forze, si recava a piedi da Casacastalda a Gualdo per ringraziare il Beato Angelo della grazia ricevuta.

     Il Comm. Spiti ricorda con commozione i pellegrinaggi fatti con il babbo alla tomba del Beato Angelo.

 

 

scritto nel 1982 da S.E. Mons. Righi Vittorugo - Arcivescovo di Bilta