1. Il sole continuava ad essere offuscato in quel percorso che andava man mano ampliandosi.
Dopo interminabili giorni ed lunghissime notti, finalmente Russel Mickellin, un chitarrista di basso successo e abituato alla vita da vagabondo, vide in lontananza l'inizio di una brughiera.
Una sinistra altura si innalzava davanti ai suoi occhi; poi, poco più distante si poteva scorgere la misteriosa e affascinante brughiera, dove in cima sembrava esserci un accampamento di nomadi.
Camminando, Russel notò sconcertato come fosse possibile che nonostante quella era un'afosa mattina di Luglio, il sole era stato dapprima offuscato, poi reso totalmente invisibile dalla fittissima nebbia scura che la brughiera sembrava emanare.
Passo dopo passo, avvicinandosi verso la popolazione nomade, Russel assistì, incredulo, a un episodio alquanto singolare:
la strana popolazione, composta da pochi elementi, tutti maggiormente anziani, avevano formato un cerchio e tra strani canti in lingue sconosciute, risate stridule e flebili singhiozzi, si dissolsero nell'aria con tutti i rispettivi accampamenti di paglia.
"Era forse quello un popolo di spettri? "
- Possibile ?!? -
Il giovane chitarrista, dopo attimi di smarrimento, concluse che doveva essersi trattato della sua immaginazione, che nessuna persona all'infuori di lui si trovasse in quella desolata e macabra boscaglia.
Ormai erano giorni che camminava senza mai fermarsi.
Non ricordava più il punto da cui era iniziato il suo lungo viaggio, quindi non sarebbe più potuto tornare indietro.
In quell'istante gli venne un brivido; capì che si era perso, che evidentemente non avrebbe più ritrovato la via del ritorno. Ma poi, d'un tratto, si calmò.
Cosa importava, ormai, la strada del ritorno?
Non sarebbe più tornato a casa; erano passati tre anni da quando la sua ragazza lo aveva piantato in asso per Ricky, il suo peggior nemico, e quando aveva litigato con i suoi, scappando di casa, ma alcune volte un parte di lui sperava che il suo destino cambiasse, che ritornasse finalmente a casa e ricominciasse daccapo una vita normale.
Ma non ora.
Non così in fretta, almeno.
Il pensiero della vista di Ricky e la rabbia che provava per la sua ex, lo fecero di nuova cambiare idea.
Doveva assolutamente proseguire il suo viaggio, anche se ad attenderlo fosse l'ignoto!
Sebbene stanco e affamato, Mickellin proseguì lungo ora zone immense ed impetuose, radianti di luce e circondate da fitta boscaglia, ora zone strette e buie, dove accalcati l'un l'altro, insoliti alberi, neri, essiccati e cavi, formavano oscurità lungo stretti viottoli.
Cercando di farsi strada nella nebbia Russel Mickellin scovò una radura e decise di riposarsi in una grande quercia cava. Al risveglio notò che l'oscurità più totale era incombata su tutta la brughiera e capì che era giunta la notte.
"Trasch… …Trasch… …Trasch".
Mickellin udì passi pesanti verso di lui.
I passi si facevano sempre più vicini; l'andamento era incerto, sinistro e Russel temé per la propria vita.
Il bagliore di una lanterna si innalzò all'improvviso fra lunghi alberi scheletrici e radici carbonizzate. Poi, ecco profilarsi l'incedere di un'ombra ricurva e incappucciata.
Il misterioso e losco personaggio sembrava dirigersi proprio dove si trovava il giovane, impaurito e turbato.
Poi, come colto da un'improvvisa crisi mistica, l'ombra incappucciata iniziò ad emettere strani versi; sembravano grugniti di cinghiale. Sotto alla ora debole luce della lanterna di quell'insolito individuo, Russel osservò, sconvolto, la raccapricciante mutazione che si presentò sotto ai suoi occhi: il mantello e il cappuccio, neri come l'oscurità stessa, iniziarono a vibrare e a scuotersi con crescente furia, come se che li indossasse stesse crescendo notevolmente, a dismisura, di dimensioni.
Da un metro e mezzo che prima poteva essere il misterioso sconosciuto, era ora diventato circa tre metri e d'aspetto all'incirca un quintale.
Alla vista di quella grande massa scura incappucciata, il giovane Russel decise di nascondersi dietro ad un cespuglio e aspettò, terrorizzato, che quello spaventoso essere demoniaco se ne andasse.
Un urlo sovraumano spezzò gli angosciosi minuti di forte tensione del giovane Mickellin, e in tutta la zona di brughiera che seguiva, si udirono all'improvviso richiami, echi e sussurri di animali che fino ad allora Russel ignorava l'esistenza.
Poi, d'un tratto, il cappuccio ed il mantello si strapparono, nonostante il misterioso indossatore non aveva mosso neanche un dito.
In quel mentre, un grosso fulmine saettò nel cielo, seguito subito dopo da altri che squarciarono i tetri alberi che circondavano Russel, il quale uscì fuori dal cespuglio, e impotente, fronteggiò un enorme cinghiale, più simile ad un essere umano che alla sua stirpe, ai cui piedi c'erano brandelli di seta neri ed un cappuccio.
Il macabro e grosso mammifero, tra un ringhio e l'altro voltò il suo tetro sguardo su tutta la radura.
I suoi occhi, tozzi e di una strana luce rossastra, osservavano con determinazione Russel crescenti di rabbia.
L'insolita creatura, annusando nella brezza della notte, mise in mostra i suoi canini: due robuste zanne da cui colava saliva verdastra.
Dopo essersi alzato su due gambe in segno di maestosa padronanza, l'enorme bestia si arrestò di colpo. La gigantesca creatura sembrava essersi bloccata, come se qualcosa lo avesse paralizzato.
Con tensione, Russel getto una rapida occhiata oltre le spalle del grosso cinghiale sovrumano e vide in lontananza, dove alberi spogli, cavi e centenari si intrecciavano in un groviglio inaccessibile confondendosi con l'oscurità della notte, una sagoma biancastra anch'essa incappucciata e vaporosa.
Questa, ondeggiando a mezz'aria, suonava un flauto.
La sinistra melodia, talmente triste e al tempo stesso straziante, fece accapponare la pelle al giovane chitarrista, il quale, in preda al terrore, riconobbe quel suono come la tetra danza de "Il richiamo della Notte Eterna".
Secondo un'antica leggenda del folclore celtico, quella danza a suon di spettrale melodia era intenta nel far ritornare letteralmente dall'altro mondo le anime inquiete su questa terra.
Ed ecco che, ad un tratto, decine di spettri avanzarono in lontananza verso Russel.
Sguardi cupi, espressioni tristi, struggenti; le braccia rivolte verso Mickellin, le spettrali mani, rugose e sbiadite, sibilavano nell'aria e cercavano un qualsiasi appiglio, forse una supplica al giovane chitarrista, che, atterrito, scappò nel più fitto della vegetazione. Corse per tutta la notte, corse il più lontano possibile; corse lottando contro l'orrore che lo sovrastava, contro il tempo che forse si era fermato.
Riuscito a sfuggire allo sguardo dell'orrenda creatura e alla tetra morsa di spettri che si lasciò alle spalle, Russel Mickellin giunse ad un bivio recante la scritta "Death City", e rabbrividì.
Poi, dopo aver distolto lo sguardo e aver guardato un po' più in là, il giovane rimase sbigottito; gli sembrava incredibile che al termine della brughiera, che prima sembrava non avere fine, ci fosse ora una città.
Proprio così, una vera e proprio città.
Il terreno erboso si intrecciava con l'asfalto di un ampia piazza, ai cui lati c'erano accalcate l'un l'altro, piccole casupole, talora in pietra talora in mattoni, che su tutto il colle cui si ergevano davano l'impressione di una piccola, fantastica città d'altri tempi.
Lunghi e bassi tetti spioventi ricoperti di muschio; grandi porte di ferro in stile antico, robuste pareti arcuate, grandi ponti, pozzi, vaste zone circondate da arcate coloniali, e in lontananza anche un edificio su due piani.

2. La luce d'aurora del nuovo mattino, era coperta, dalla nebbia scura che continuava ad espandersi sempre di più; Russel, cauto, si avvicinò al grosso fabbricato.
A quella distanza lo riconobbe come una locanda, o comunque un palazzo in cui poter prendere alloggio e su una grossa insegna in pietra, era inciso in caratteri ottocenteschi "House-Hill".
L'idea che quella era una "Città Morta", non ebbe più spazio nella sua mente. Ora i pericoli sembravano lontani, e non intendeva perdere altro tempo a gironzolare qua e là, senza meta.
Decise quindi di chiedere alloggio.
Si avvicinò a passi svelti, impaziente, verso la grande costruzione che ora si distingueva notevolmente davanti a lui, ma un ombra sospesa legata ad un albero lo paralizzò; un picchiettio insistente al suolo offuscò di nuovo la sua mente.
Scioccato, rivolse lo sguardo su un cadavere brutalmente aggredito: era legato a mò di coniglio, gambe e braccia unite con strette corde, testa reclinata all'indietro, un ampia ferita di coltello al collo da cui colava molto sangue. Dalla quantità in cui esso sgorgava, Russel dedusse che la vittima era stata "cannibalizzata" proprio in quel momento.
Trattene l'effetto di quello che di lì a poco sarebbe stato un conato di vomito e distolse lo sguardo, poi indulgente, si decise a bussare al vecchio, enorme portone di legno del palazzo, poiché alla nebbia si era ora aggiunta anche una tremenda tempesta.
La forte burrasca improvvisa, quasi piegò in due il portone, il quale in quell'istante si aprì con un sinistro cigolio, rivelando un oscuro corridoio.
- C'è qualcuno? -.
Nessuna risposta.
In fondo a destra il corridoio si inerpicava all'insù, dove condusse il giovane Mickellin in un vasto salone.
- Splash! -.
Sebbene lontano, Russel udì ugualmente il portone chiudersi con un gran frastuono.
Attimi d'angoscia accompagnarono Russel nell'esplorazione di quell'edificio.
Ecco che ai suoi timori, si unirono nell'oscurità tetre presenze cui Mickellin, sudante, cercò di scacciare dalla sua mente, ma non seppe attribuirle alle sue più vive e orrende paure o realtà.
Giù in fondo, il salone iniziava a distinguersi di più, come se ci fosse un po' di luminosità a schiarire sedie, tavoli, quadri ed una cattedra che il giovane chitarrista vedeva perfettamente.
E in effetti una strana luminosità c'era: una sorta di arcobaleno bianco attraversava in linea arcuata tutta la stanza, posandosi con i suoi affascinanti ma sinistri raggi su tutto ciò che incontrava.
Esso terminava sulla parete opposta a Mickellin.
Incuriosito, si avvicinò al misterioso fascio di luce soprannaturale; non riuscì a spiegarsi l'origine: non c'era appunto né l'origine, né la fine.
Era semplicemente un fascio accecante di luce sospeso nell'aria e che ai due bordi non aveva nessun nesso. Esso comunque andava da destra verso sinistra e qui, in fondo all'angolo, l'arcobaleno avvolgeva in un alone irradiante una vasta cattedra.
Una sinistra figura intenta ad osservare Mickellin, era apparsa dietro alla grande cattedra.
Era una vecchissima donna.
Faccia impressionantemente rugosa; gli occhi sottilissimi, quasi ridotti in due piccolissime fessure, intenti a scrutare l'espressione sorpresa del giovane avventuriero.
La vecchia, sebbene seduta, sembrava galleggiare e a tratti perdeva luminosità.
Questo fattore le dava l'aspetto di una figura irreale;
un unico velo bianco sembrava fungerle da soprabito; i capelli, bianchissimi e raccolti in una crocchia, sortivano a quella soprannaturale presenza un aspetto alquanto minaccioso.
Aveva le mani incrociate ed era assorta in un espressione cupa.
- H…é, po…possibile prendere alloggio qui? -, chiese titubante Russel
Gli occhi dell'anziana figura brillavano.
Il suo volto, in penombra, assunse un'espressione impossibile da descrivere, in quanto, per certo, poco rassicurante.
Con uno strano sorriso che fu mostra i sudici denti, l'enigmatica presenza iniziò a trasmettere i propri pensieri nella mente del giovane chitarrista e senza nessun suono vocalico né consonantico, senza pronunciare nessuna parola, riuscì a comunicare con Mickellin, che capiva perfettamente ogni cosa.
Gli narrò dell'incredibile passato di quel luogo e di una tremenda maledizione che gravava insormontabile, da secoli, in quell'antica locanda.
Gli riferì, inoltre che ogni persona che aveva avuto modo di accedere in quel posto, era incorsa in una morte tremenda.
A quel punto, lo spettro porse un fucile al giovane chitarrista, spiegandogli che gli era indispensabile per passare la notte nella stanza che ora gli avrebbe assegnato.
Dopodiché, gli porse una chiave alla quale era contrassegnato un numero: 13.
Dunque la stanza era la tredicesima.
- Perché proprio questa. Di solito in questi locali si esclude tale numero - chiese incuriosito e con un po' d'angoscia Russel.
Nessuna risposta.
Il chitarrista gettò un rapido sguardo alle vecchie scale in tufo che portavano su e dove evidentemente era posta la stanza.
Si rivoltò verso la sinistra presenza, ma al suo posto ora c'era uno scheletro ricoperto di ragnatele e insetti.
Qualche attimo dopo, sparì anch'esso.
Mickellin deglutì faticosamente.
Si diresse lento verso le scale e, mentre saliva, si chiese per quanto tempo sarebbe potuto restare in quel posto, ma anche se sarebbe sempre stato solo in quel posto, circondato esclusivamente da spettri, paure e il più assoluto silenzio.
Quando le scale furono terminate, il chitarrista poté tirare un sospiro di sollievo: davanti al lui c'era, di un avorio molto intenso, un unica porta. Era la stanza tredicesima.
Depose la chiave nella toppa e mandò giù un colpo secco.
Una smilza ondata di polvere uscì dalla toppa.
La vecchia porta si aprì lenta e, stavolta senza cigolii.
Depose sul materasso che si presentava davanti a lui il fucile e la chitarra e diede un'occhiata a tutta la stanza.
Tutto ciò consisteva in un piccolo tavolo posto al centro della stanza, due sedie laterali, un piccolo e consunto lavello, un grosso specchio situato sulla parete centrale, la stanza da bagno e in fine, in fondo ad un angolo dove c'era una finestra, stava il materasso.
La sua difficoltà maggiore, era poter misurare il tempo, dato che mesi fa aveva perso il suo orologio da polso e non sembrava essercene uno lì.
Di colpo Russel sussultò. Sentiva su di sé sguardi minacciosi e scrutatori.
- No, non è possibile. Non può essere! - pensò fra sé.
Aveva appena visto tutta la stanza riflessa nello specchio; sì, tutto si rifletteva, tutto era normale, tranquillo, regolare, a parte il fatto che solo lui non si rifletteva!
Nello specchio il tavolo era al suo posto, come le sedie, il lavello, lo specchio, la stanza da bagno, la finestra ed il materasso con la chitarra e il fucile, ma lui non era riflesso.
Poi, qualche attimo dopo, dovette trattenersi per non urlare di terrore. Gli sembrava di aver visto volti sanguinanti riflessi nello specchio.
Dato che lui era vicino al lavello, e sebbene fossero presenti solo i volti di quelle persone sconosciute a Mickellin quest'ultimi nel riflesso, si trovavano proprio accanto al lavello.
Russel rabbrividì.
Capì quindi che qualcosa di molto strano era proprio vicino al lui e chiuse gli occhi, sperando fosse solo un'allucinazione molto forte.
Riaprì gli occhi e questa volta non poté trattenersi nell'urlare con quanto fiato aveva in gola:
- Shiaila, nooooooooo! -.
Era stato un grido di rabbia o di paura il suo.
Lui stesso non sapeva, ma era certo in ciò che invece aveva visto riflesso nell'angolo inferiore dello specchio: la sua ex ragazza.
Questa aveva l'espressione terrorizzata; occhi vitrei e bocca aperta: lingua tumefatta.
Dalle narici le fuoriusciva sangue nero.
Mickellin urlò ancora.
Poi, come quando una persona si sveglia da un forte torpore o da un forte sonno, Russel non riuscì più a distinguere nello specchio quei volti sinistri e sconosciuti di quelle persone; tutto era scomparso e tornato alla normalità. Ciò favorì ad accrescere nell'animo del giovane chitarrista, un senso di inquietudine e insicurezza per sé stesso.
Dubitò che tutto ciò fosse accaduto realmente e classificò l'accaduto come suggestione molto emotiva.
Poi riguardò lo specchio.
Niente, la sua immagine ancora non si rifletteva.
A quel punto, gli venne un forte dubbio iniziò a tastarsi tutto il corpo; sì, era vivo e non stava sognando ma, riguardo alla strana faccenda dello specchio, beh, su quella Mickellin ci passò su.
In quell'istante qualcuno bussò alla porta.
Russel fu titubante, indeciso se andare ad aprire o convincersi di un altro orrore contro di lui.
Orami avvilito, il giovane aprì la porta e si trovò faccia a faccia con un insolito individuo.
Vecchio, alto e d'aspetto nobile, aveva i capelli tirati all'indietro, indossava un frack nero d'altri tempi e aveva un ampio colletto bianco.
L'uomo, cinicamente, porse un vassoio al giovane, augurandogli buon appetito.
Russel allora capì che costui era il maggiordomo del palazzo e non fece nemmeno in tempo a salutarlo che questi si voltò e scomparve nel corridoio, buio e umido. Ma prima di ciò, Mickellin osservò lo strano andamento di quel tizio: i gradini li scendeva senza porgere i piedi a terra!
Russel chiuse la porta e depose il vassoio sul tavolo.
In quell'attimo gli era sembrato di sentire un grido strozzato, seguito da un gemito lamentoso spettrale.
Poi un altro, ancora un altro e un altro ancora.
- Bastaaa! -, dichiarò ormai in preda al delirio il giovane, costringendosi a ignorare tutto ciò, cercando di concentrarsi sulla colazione che di lì a poco avrebbe voluto di ché saziarsi.
Vide che non c'era da bere, non c'erano tovaglioli e soprattutto non c'erano posate e sperò di trovare ciò all'interno del vassoio, quindi aprì il coperchio.
Un urlo muto gli uscì dalla bocca.
Nel vassoio c'erano, contorcendosi disgustosamente in un laghetto di sangue, due occhi umani con radici di ragno.
I disgustosi "oggetti di rigetto" si muovevano avanti e indietro; uno di essi che lo stava osservando, saltò sulla mano di Russel che, scioccato totalmente, lo scaraventò con furia cieca sul pavimento, schiacciandolo.
Il giovane andò a rifugiarsi sul materasso.
Rimase lì tremante e incapace di reagire per molto tempo, e solo poco più di qualche ora dopo, riuscì a dormire.

3. Dormì tutto il tempo, incurante della notte ormai vicina.
Questa trascorse insonnia e sinistra, colma di sagome umane orribilmente uccise che fuoriusciva dalle vecchie pareti consumate dal tempo, di volti scheletrici e privi di cranio, urlanti e mugugnanti sospesi per aria e di grida sofferenti e allucinanti.

L'aurora portò con sé residui orrendi della notte precedente.
Svegliatosi, Russel fu esente nel fuggire da quel posto maledetto.
Non intendeva restarci neanche un istante di più.
Scese dal materasso, raccolse le sue cose, aprì la porta e corse giù per le vecchie scale più velocemente possibile.
Oltrepassò correndo il salone che stavolta era privo di quel soprannaturale arco luminoso e in totale buio, e si portò nel corridoio.
Aprì dall'interno il vecchio, consumato portone centrale e corse in mezzo alla piazza.
La sua espressione era di nuovo scioccata.
Aveva tentato di fingere con sé stesso, ma alla luce dei fatti, non poteva mentire: era sicuro di aver avuto una relazione notturna con una splendida donna, emanante gelo e circondata da un'arcana luce gialla. Questa, dopo l'alba prima di scomparire, aveva cercato di ucciderlo, riuscendo però solo a stracciargli la camicia, già malconcia.
Invano Russel le aveva sparato contro, ma i colpi ogni volta ricadevano sul pavimento, intatti.
Dopo questa terribile esperienza, un funesto torpore lo aveva assalito.
Si era girato e rigirato nel materasso che, all'improvviso, gli era sembrato fradicio e ricoperto di insetti.
Ma ora era sveglio, ben conscio a scappare più lontano possibile.
Mentre correva, ignorò la sua camicia stracciata che confermava un orrore troppo grottesco per prendere spazio nella sua mente.
Correndo, Mickellin incespicò in una radicie che fuoriusciva dal suolo e cadde nelle acque grigiastre e fangose di uno stagno.
Rialzatosi faticosamente, ciò che vide davanti a lui, dove le prime luci del giorno rischiaravano la foresta, segnò per sempre il suo destino.
Poco più in là, proprio davanti a lui, un tetro sciame di tafani, di ordine dittero, avanzavano verso di lui.
Spalancando gli occhi e rimanendo con la bocca aperta per lo shock e l'insolito spettacolo, Russel non poté fare a meno di notare le orrende e sovrumane caratteristiche: avevano le dimensioni di un uomo, un solo paio di ali sviluppato, l'altro rudimentale che sibilavano nell'aria con crescente frenesia, e possedevano un apparato boccale succhiatore orribile.
Istintivamente il giovane e sfortunato ragazzo indietreggiò, ma scoprì ben presto che il suo corpo era sotto il totale controllo altrui, come se quelle orrende creature governassero il suo corpo; lo stesso effetto lo ebbe ben presto la sua mente.
Incapace quindi di compiere alcuna azione, Russel Mickellin non poté arrestare l'andamento di quegli insetti mostruosi e ormai vicini.
I loro corpi, bruni e ricoperti di peluria gialla, erano in crescente tensione; le loro teste, piatte e munite di due antenne, osservarono trucemente con i loro grandi occhi composti Russel, poi lo circondarono in una mossa che non avrebbe avuto seguito.
L'urlo atroce e sofferente del ragazzo echeggiò per tutta la campagna, arida e solitaria.
Mentre il suo copro era ormai in balia di quegli essere, Russel gettò il suo ultimo sguardo all'edificio maledetto e, prima di morire, vide ciò che realmente era quella locanda: lunghe fiamme divampavano ovunque, mentre persone chiedevano aiuto e si dimenavano, sofferenti e vittime di quel mostruoso incendio. Riconobbe alcune persone là sul quel terrazzo in fiamme, persone che avevano lasciato in lui orribili ricordi notturni in questo suo ultimo vagabondaggio.
Poco dopo, le fiamme ridussero in cenere tutto l'edificio e, mentre il suo corpo era cibo, sebbene insofferente e in scarsissima vitalità, vide che l'incendio non aveva lasciato nessuna traccia sul terreno, nessun residuo del vecchio palazzo.
Mentre un velo nero cadeva man mano sui suoi occhi, Russel vide l'apparizione della locanda fantasma, esattamente come la vide davanti a sé, in mezzo alla nebbia, quella sera.

Ruote di carovane solcavano il terreno, mentre un vasto gruppo di coloni si addentrava nella fitta boscaglia.
La mattina era appena sorta e l'estate era afosa.
Il gruppo sostò in una vasta radura, ma riprese subito la marcia a causa di strani, spaventosi ringhii, occulte presenze che si aggiravano per i folti cespugli, e nebbie improvvise.
Klahomà, che sedeva nell'ultima carovana, guardava stupita l'insolito panorama, mentre ascoltava incuriosita, un sinistro suono di chitarra che non le lasciava tregua da un bel po'.
In piena notte, i coloni giunsero nella spaventosa "Death-City", fermandosi davanti ad un grande edificio su due piani, una locanda d'altri tempi.
Non trovando altro posto migliore dove poter trascorrere la notte, il gruppo vi chiese alloggio.
Tempo dopo, quando coloni amici giunsero nella medesima città spettrale, spinti per l'assenza del loro ritorno, trovarono la giovane Klahomà a terra, semisvenuta e in seria avaria mentale; dondolandosi lenta e con gli occhi carichi di terrore, la ragazza indicava un punto nell'aria e farneticava fra sé frasi incomprensibili, eccetto una che sebbene incomprensibile, era forse la chiave di ciò che era accaduto al resto dei coloni precedenti, scomparsi nel bel mezzo di quella piazza senza lasciare traccia.
Il capo carovana, giunto insieme agli altri per dar loro soccorso, tese una mano verso Klahomà che, folle, gridò: - Salvate gli altri dalla locanda infernale!. Salvateli da "House-Hill" - .
La ragazza fu soccorsa e portata in una loro carovana. Anche gli altri pochi superstiti furono fatti salire nei carri liberi.
David, il capo carovana, fece cenno al gruppo e partirono via.
Arrivati su una pianura, l'anziano capo carovana, voltandosi per caso, vide in lontananza una vecchia locanda emergere tra la nebbia, esattamente nel punto dove Klahomà aveva inutilmente mostrato in vano.

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Storia di Giuseppe Gargiulo © 2002