Fabio de Nardis - Anno I, Numero I, 2000

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Saggi

Il disagio della politica moderna

di Fabio de Nardis

1. La politica nella società incerta

    Con il crollo del muro di Berlino e la fine della storica contrapposizione tra est e ovest del mondo, c'è chi vide profilarsi la fine della politica; altri addirittura parlarono di fine della storia. In realtà, con la globalizzazione non si è avuta una crisi decisiva della politica ma, altresì, si è resa indispensabile una sua collocazione all'interno di un quadro sovra-nazionale. I fenomeni della globalizzazione danno la possibilità alle imprese di riprendere azione svincolate da qualsiasi controllo di tipo politico, superando la vecchia impostazione fondata su un capitalismo addomesticato.

    L'economia, che agisce su scala planetaria, finisce con lo scalfire i fondamenti della politica nazional-statale, provocando, in certi casi, una sorta di sub-politicizzazione che spesso produce conseguenze imprevedibili. L'azione planetaria delle imprese distrugge dalle fondamenta, non solo la politica nazional-statale e l'attività vertenziale dei sindacati, ma anche l'intero apparato di uno Stato voluto nella sua forma minimale. Stupisce, dunque, l'enfasi posta da molti politici nella direzione di un'esaltazione del sistema-mondo così impostato; essi, nota Beck (1999), rischiano di diventare i becchini di se stessi, sostenendo un sistema che porterebbe, nel suo compimento, alla loro più completa distruzione. Si crea così una sorta di società mondiale svincolata dall'apparato statuale, un sistema metapolitico, privo di legittimazione democratica e quindi privo di responsabilità politica. Le società moderne sono, per definizione, società non politiche, dal momento che l'agire politico viene in genere ricondotto ai confini nazional-statali.

    Anche le principali teorie sociologiche hanno assecondato l'immagine che lo Stato dava di se stesso, vedendolo come una sorta di container del sociale; ma in realtà, oggi, una simile visione non è più condivisibile e si deve ragionare di uno Stato che ha perso la sua originaria sovranità sul sociale che sembra scavalcarlo nella direzione di una società globale di tipo transnazionale. Diventano sempre più evidenti le tendenze di una emergente società civile nella direzione di un sistema-mondo unico, organizzato sulla base di movimenti sociali transnazionali, sul tipo di Green-peace e Amnesty International. Eppure, l'assioma di una società mondiale senza uno Stato mondiale, va ad essere ricondotta verso i rischi di una società nuova non organizzata politicamente, quindi, senza regole e senza alcuna rappresentanza democratica. In un simile contesto prevale nettamente un quadro socio-politico caratterizzato da una sostanziale incertezza. La complessità sociale si associa a frequenti meccanismi di frammentazione culturale e al riemergere, al tempo stesso, di localismi e gruppi di comunità primaria che reagiscono violentemente alla spinta di omologazione proveniente dalle dinamiche di globalizzazione.

    Il terzo millennio si apre sull'onda dell'incertezza e della crisi d'identità, senza valori dominanti che possano fornire nuove sicurezze, dove la tecnica fine a se stessa sembra essere l'unico effettivo motore del progresso sociale e, contemporaneamente, la causa di un apparentemente ineluttabile spersonalizzazione dei soggetti. L'individuo, privato di riferimenti certi, si ripiega su se stesso in un'attività introspettiva senza sbocchi sicuri, s'interroga su se stesso e sulla propria essenza e non riesce a trovare risposte che possano placare la sua ansia. La modernità, fondata su un razionalismo tecnicistico esasperato, aveva posto il problema dell'identità individuale come mancanza totale di limiti e come indiscussa supremazia dell'individuo sulla natura. Occorreva individuare un'identità stabile e certa e questa veniva identificata nella capacità dell'individuo di gestire il progresso e di costruire il proprio mondo sociale. Ma il progetto della modernità ha retto fin quando hanno retto le idee e le personalità che lo sorreggevano. Con la caduta dei grandi apparati ideali e con la crisi della politica, scevra del tradizionale consenso ideologico, gli individui si sono trovati immersi in un flusso di confusione e ansia esistenziale, senza garanzie sul futuro, senza ideali, senza la sicurezza di un lavoro stabile, di una pensione che possa garantire loro una vecchiaia dignitosa, senza più valori in cui credere.

    L'individuo, nella sua opposizione inconsapevole alla supremazia della tecnica, è alla continua ricerca di nuovi orizzonti e nuove certezze da perseguire, ma difficilmente riesce a svincolarsi dalle dinamiche sociali, completamente schiacciate sotto il peso del razionalismo economicistico e di un culto dell'immagine basato sul superfluo. Eppure l'individuo ha bisogno di una identità per controllare il suo comportamento; esso non può rinunciare alla ricerca di una capacità autonoma di identificazione dell' Io, per potersi riconoscere e per riconoscere gli altri distinti da esso. Da questa situazione emerge la tendenza della politica ad assecondare l'emancipazione individuale degli attori sociali promuovendo politiche ultra-liberiste di tagli al welfare state e di assenza dello Stato nelle politiche sociali ed economiche. Eppure l'individualismo economico e la società di mercato non sembrano aggiungere nulla alla libertà di chi già è libero. L'eccesso di individualismo nelle politiche economiche è dimostrato che porti a un progressivo aumento delle sacche di esclusione sociale, incrementando quello iato sempre più marcato tra ricchi e poveri del mondo. Lo stesso Beveridge, da liberale quale era, affermava che la libertà individuale non poteva assolutamente prescindere da una forma di protezione sociale; mentre oggi molti di coloro che professano il liberalismo sostengono la necessità che la libertà individuale debba spezzettare qualsiasi rete di protezione tessuta collettivamente. Nelle politiche tardo moderne la libertà individuale diventa il valore supremo usato come parametro di valutazione e di giudizio universalmente condiviso. Ma la libertà è un diritto che deve valere per tutti e non solo per quei pochi che già l'hanno conquistata; e per consentirlo non si può prescindere da un minimo di azione collettiva che permetta pari opportunità e pari condizioni di partenza. Non si può dunque prescindere da una comunità politica organizzata e comunemente riconosciuta.

2. La società moderna tra localismi e globalizzazione

    Da tempo, l'attenzione dei sociologi si è incentrata su quello che sembra essere l'aspetto principale di questa tarda modernità, ovvero la "globalizzazione" della cultura e dell'economia. Ma quali sono i suoi aspetti e, in modo particolare, i suoi effetti sul sistema sociale? A questo riguardo, ci si è resi conto che, a fronte di una sfrenata globalizzazione culturale determinata soprattutto dallo straordinario sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, si è verificato il ripiegamento di larghe fasce della popolazione, in strutture culturali locali che sembrano porsi in drastica contrapposizione con un simile sistema di predominio economico sulla cultura di massa standardizzata. Qualcuno di noi sembra gettarsi a capofitto nel flusso della comunicazione di massa, mentre altri cercano di costruire comunità locali che possano proteggere la propria identità. Per Robertson, la globalizzazione in atto, così come quella rappresentata dai media, è comprensibile solo se si tiene in considerazione il suo carattere profondamente ambivalente: la dimensione locale e quella globale non si escludono reciprocamente ma rappresentano, altresì, due facce della stessa medaglia; esse si integrerebbero in un'unica dimensione definita "glocale", dove il locale viene inteso come un aspetto specifico del globale. Globalizzazione, dunque, non vuol necessariamente dire annullamento di ogni forma di manifestazione locale ma andrebbe considerata come unione di diverse culture locali (Robertson R., 1992). La modernità è già di per sé globalizzante e lo dimostrano le caratteristiche di riflessività e disaggregazione di cui parla Antony Giddens. Il livello di distanziazione spazio-temporale è molto più elevato rispetto alle epoche precedenti e la relazione tra forme ed eventi distanti e locali subiscono una forma di stiramento che crea una rete di rapporti che coinvolge tutto il pianeta.

    La globalizzazione è dunque l'intensificazione dei rapporti sociali mondiali. La trasformazione locale è una delle componenti della globalizzazione rappresentando l'estensione laterale delle connessioni sociali nel tempo e nello spazio (Giddens A., 1994). Sempre secondo Giddens vi è un rapporto diretto fra le tendenze globalizzanti della modernità e i cosiddetti processi di trasformazione dell'intimità. Questi ultimi possono essere intesi come instaurazione di meccanismi di fiducia in cui lo sviluppo dell' Io diventa un progetto riflessivo.

    Si possono distinguere tre linee principali d'interpretazione di questi processi: 1) la prima, più conservatrice, vede nella modernità la distruzione dei vecchi modelli di "comunità" a detrimento delle relazioni interpersonali. Il risultato è il soffocamento della vita personale che viene privata di saldi punti di riferimento, spingendo l'individuo alla ricerca di punti di riferimento in sé stesso;2) la seconda, di matrice marxista, afferma che le istituzioni moderne hanno invaso vaste zone della vita sociale privandole del significato che avevano un tempo. La sfera privata ne risulta dunque fortemente indebolita; 3) la terza, rappresenta una variante della seconda, legata alle posizioni di Habermas che riprende Horkheimer: quest'ultimo sostiene che nel capitalismo organizzato l'impegno personale con gli altri rimane piuttosto un hobby e uno svago per il tempo libero. (Habermas J., 1986). Il problema di questo dibattito sta nel modo in cui è stato condotto, in maniera tale che il "comunitario" fosse contrapposto al "societario", il "personale" all' "impersonale", lo "Stato" alla "società civile" e così via, come se non fossero tutte varianti di un unico fenomeno. Effettivamente, con lo sviluppo dei sistemi astratti, la fiducia nei principi impersonali diventa un elemento essenziale alla sopravvivenza individuale; mancano i sistemi premoderni di istituzionalizzazione dei rapporti personali.

    Dunque, nella trasformazione dell'intimità si può rilevare un rapporto intrinseco tra tendenze globalizzanti della modernità ed eventi locali della vita quotidiana (Giddens A., 1994). Ormai i capitali, le merci e le informazioni, attraversano le frontiere sconfiggendo ogni barriera spazio-temporale. Spazio e tempo si comprimono e il passato diventa presente mentre il futuro rimane incerto e indefinito. Per effetto dei mezzi di comunicazione di massa milioni di individui seguono la stessa moda, guardando gli stessi programmi televisivi, adottando la stessa rappresentazione simbolica del reale. Le caratteristiche principali di simili meccanismi di globalizzazione è che essi sono completamente svincolati da una forma di organizzazione sociale che ne possa regolare o limitare lo svolgimento. Essi non sono legati a nessun sistema sociale e a nessuna cultura in particolare, anche se generalmente esiste un apparato culturale che tende ad essere predominante nella sua diffusione (vedi la cultura Usa). Come nota Touraine, questa sorta di desocializzazione dei rapporti di massa si limita alla trasmissione dei segni della tarda modernità impedendo ogni forma di comunicazione interpersonale; ne fuoriesce una cultura totalmente emancipata dall'organizzazione societaria e politica nazionale. In breve, la nostra cultura non sembra più in grado di influenzare l'organizzazione sociale ne, tanto meno, la sfera tecnica ed economica che ha acquistato un'autonomia crescente, negli anni, fino a produrre un inevitabile appiattimento della sfera sociale e politica (Touraine A., 1998). Tutto ciò ha determinato il dissolvimento dei vecchi sistemi valoriali e culturali fino ad annullare lo stesso concetto di società, almeno come tradizionalmente lo si poteva intendere. Assistiamo, dunque, a un'inevitabile separazione degli oggetti della globalizzazione, dalla cultura, ai valori e alla memoria storica di una nazione, che dopo aver perso la propria funzione strumentale hanno anche cessato di costituire una società. Essi tendono a ripiegarsi su se stessi rifiutando ogni meccanismo di globalizzazione, schiacciandosi sul culto della tradizione; si viene quindi a creare una sorta di dicotomia esplosiva che vede contrapposti, da un lato, le innovazioni scientifiche e tecnologiche; dall'altro, i sistemi culturali e i costumi tradizionali.

    Dunque, dalla crisi delle società moderne fuoriesce un quadro incerto caratterizzato, per un verso, dalla crescita dei diversi circuiti della globalizzazione che includono le dinamiche economiche, tecniche e della comunicazione di massa; per un altro, da un ritorno localistico alla "comunità" intesa come insieme di costumi, culture e poteri soggetti ad autorità, per così dire, carismatiche, di matrice religiosa, etnica o politica. Più siamo immersi in una vita pubblica globale e più sentiamo bisogno di costruirci forme stabili di identità culturale per fuggire dalla morsa del messaggio mediatico e della comunicazione di massa. Questo ritorno alla comunità risulta, tra l'altro, una delle cause primarie di un riemergere preoccupante di razzismi e xenofobie; perché quando si convive in società complesse caratterizzate dall'incontro pacifico di diverse culture, le differenze non sono un problema; mala vita in comunità, in cui si condividono credenze, tradizioni e storia, quasi inevitabilmente, determina l'istinto alla difesa di tale apparato culturale, che tradotto nella vita concreta, significa paura del diverso e chiusura settaria nei confronti di ogni forma di contatto esterno. È da questo punto di partenza che nasce l'interrogativo di Touraine: Come si può vivere insieme se il mondo è diviso in due blocchi contrapposti incapaci di comunicare: quello della globalizzazione e quello rappresentato dalle diverse comunità?

    La desocializzazione della cultura di massa ci immette nel contesto della globalizzazione e di un'apparente assimilazione mondiale delle culture ma, nel contempo, ci spinge nella direzione di una localizzazione dei nostri rapporti più intimi e frammentati, in una posizione di difesa ad oltranza di una identità che a noi stessi appare incerta e velata, tanto da ricercarla all'interno di un'improbabile coesione culturale di gruppi primari. Dunque, la vita dei soggetti individuali sembra del tutto dissociata e appiattita su due dimensioni culturali; o ci si limita a forme di comunicazione del tutto impersonali plasmate dalle dinamiche spersonalizzanti della tecnologia e della cultura di massa omologata, o ci si chiude in gusci culturali prodotti da una localizzazione della vita personale e pubblica e da un rifiuto dei meccanismi della globalizzazione; tertium non datur. Questa scissione tra tecnica e valori sembra attraversare ogni ambito della vita pubblica e privata, tanto che non sembra più possibile una forma d'integrazione attraverso le istituzioni, la lingua, la memoria storica, che un tempo contribuivano a farci sentire partecipi della società produttiva.

    La politica sembra incapace di resistere a una simile situazione che la vincola a una strenua ricerca del buon governo senza un progetto di lungo periodo che la caratterizzi. Le istituzioni, così come ogni legame sociale, s'indeboliscono, creando uno iato tra pubblico e privato, uno spazio crescente all'interno del quale trovano sfogo localismi culturali e forme di organizzazione volontaria della società civile. Scrive Touraine: Siamo al centro e nella periferia, dentro e fuori, in luce e in ombra. È una localizzazione che, non riferendosi più a rapporti sociali di conflitto, cooperazione o compromesso, offre un'immagine astronomica della vita sociale, come se ciascun individuo e ciascun gruppo fosse una stella o una galassia caratterizzata dalla sua posizione nell'universo. (Touraine A.,1998, p.16)

3. La politica delle appartenenze

    In questo contesto, la politica rimane chiusa nel suo mondo localistico legato al territorio nazionale, spesso regionale, dimostrando una palese incapacità riformistica. Eppure, il riformismo democratico è l'unico elemento che sia in grado di garantire una certa evoluzione politico-istituzionale, quello stesso tipo di sviluppo che ha consentito, nel corso dei secoli, in Francia, come in Inghilterra, il raggiungimento di un assetto istituzionale stabile ed efficiente. La classe politica sembra, dunque, inabile a viaggiare sull'onda di un nuovo spirito riformistico che possa determinare uno sviluppo in senso progressivo delle istituzioni democratiche. Essa deve essere disposta a mettersi in discussione e a rinnovarsi, in modo tale da poter riacquistare legittimità nei confronti della società civile, perché la crisi dei partiti è, in primo luogo, riconducibile a una crisi di legittimità del pubblico identificato nelle istituzioni politiche. La politica ha perso la capacità di risolvere i problemi della collettività, anzi, spesso capita che ne produca ulteriori immettendosi in un deleterio circolo vizioso dal quale diventa sempre più difficile svincolarsi. Esistono ragioni profonde di disaffezione politica che difficilmente potrebbero essere risolte da una semplice riforma elettorale (de Nardis F., 1999). Il crescente tasso di astensionismo elettorale, dimostra l'esistenza di un'ampia fascia di cittadini che non provano alcun interesse per la vita politica e questo è, senza dubbio, uno degli effetti della fine del voto di appartenenza. Tradizionalmente, le sub-culture, ovvero le diverse forme di appartenenza politica collettiva, in Italia, hanno avuto l'importantissimo ruolo di mediazione tra società civile e istituzioni politiche. La loro crisi ha determinato profondi problemi relativi al rapporto tra cittadinanza e istituti della politica. Il voto di appartenenza non è stato, dunque, sostituito da un'adeguata fiducia nelle istituzioni politiche che si concretizzasse in una rinnovata partecipazione popolare alla politica, forse anche perché i cittadini si sono trovati impreparati di fronte alla necessità di dimostrare una capacità di giudizio che fosse veramente autonoma dalla mediazione partitica. Per poter risolvere questa situazione di stallo, la politica dovrebbe essere in grado di recuperare la sua funzione originaria, rinnovando la propria rappresentazione simbolica del reale. Solo così sarebbe possibile creare nuove forme di appartenenza, non più dirette verso forme mistico-simboliche della politica ma verso le istituzioni democratiche. Ma per creare questo nuovo senso dello Stato è necessario che la classe politica smetta di rincorrere a tutti i costi una riformulazione normativa delle istituzioni democratiche e s'impegni, invece, a ricreare le condizioni per cui possa tornare ad essere una guida assiologico-valoriale. La politica dovrebbe essere in grado di proporre alla società tutta dei programmi ideali che non si limitino al raggiungimento di semplicistici risultati di breve periodo, finalizzati ad avvantaggiare elettoralmente questo o quell'altro partito. Non si può chiedere al paese di recuperare fiducia nello Stato attraverso il perseguimento di una tecnica elettorale, come apparente fine ultimo della politica.

    Un tempo la classe politica, pur nei limiti storico-contestuali, era capace di proporre delle weltanschauungen in grado di rivitalizzare ed entusiasmare gli animi. Si trattava di quelle grandi visioni del mondo che venivano perseguite con passione e per il raggiungimento delle quali, intere generazioni di militanti o liberi cittadini hanno dedicato e spesso sacrificato la loro vita. E a questo punto, la domanda provocatoria, forse retorica, e già per questo anti-scientifica, sorge spontanea: chi mai sarebbe, oggi, disposto a morire per una qualsiasi tecnica di ingegneria politica? Nella cultura moderna la politica svolge un ruolo di sintesi tra gli interessi nel processo di rappresentazione simbolica del reale. Essa ha la funzione di organizzare il tempo sociale spesso assumendo su di sé la sacralità di una missione di salvazione umana. Questo apparato quasi mitologico della politica si è radicato per via delle ideologie costruite attorno ai diversi movimenti politici e sociali. Il tempo non è più individuale e, con l'affermazione della democrazia, da tempo sociale si trasforma in tempo pubblico, concretizzato nel conflitto tra partiti portatori di diverse ideologie. Dunque, appare difficile immaginare un contesto democratico svincolato dal confronto ideologico.

    Le ideologie rappresentano la linfa vitale della democrazia così come per altri regimi politici tale linfa è rappresentata dalla coercizione (Sue R., 1994). Un altro principio fondamentale nella concezione democratica moderna è il principio di"cittadinanza" attorno al quale le diverse ideologie si sono edificate. Tale concetto ha sostituito quello di sudditanza abbinandosi all'altro elemento democratico, ovvero la "rappresentanza" che, per dirla con Mongardini, giustifica il dominio democratico ricamandolo con i principi di legittimità e di consenso (Mongardini C., 1998). Con la fine dei grandi apparati ideologici, non più sufficienti a fornire un'adeguata interpretazione e rappresentazione simbolica della società complessa e massificata, anche il tempo ideologico si è trasformato, o meglio, è stato sostituito dal tempo economico. L'effetto di questo passaggio di staffetta è quello di una marcata ed esasperata contemporaneità estrinsecata nel controllo dello spazio e nell'esaltazione della precarietà del momento. L'ideale viene sostituito dal freddo confronto degli interessi appiattito in un meccanicismo razionalistico, spesso esasperato e sempre cinico. È chiaro che in questo contesto la politica appare in difficoltà dovendo fronteggiare una società di massa sempre più mediatizzata, una sorta di "società virtuale" ad essa ostile e difficilmente inglobabile all'interno dei tradizionali confini democratici. La cultura del presente, oggi, sembra voler negare la politica affermando una democrazia virtuale e dell'immagine al posto di quella rappresentativa.

    Una cultura sociale che punta all'emancipazione dalla rappresentanza politica è, dunque, una cultura antidemocratica e come tale va considerata e analizzata. Occorre, quindi, un rapido ripensamento della stessa teoria democratica tenendo conto degli sviluppi sociali degli ultimi anni, non per adeguarla ad essi ma, al contrario, per arginarli. Per far questo la politica dovrebbe essere in grado di fornire una nuova rappresentazione simbolica del reale, una visione del mondo alternativa o più visioni del mondo contrapposte; perché la democrazia rappresentativa è possibile solo di fronte al conflitto sociale tra due o più blocchi ideali. Contemporaneamente, la politica dovrebbe mantenere una visione laica della vita senza scadere, come è accaduto nel passato, nei dogmi e negli ideologismi. Quando si parla di ideologia, in questa sede, non s'intende il termine come falsa coscienza e mistificazione del reale, ma come progetto ideale da perseguire, dal latino pro-iciocio è tendersi innanzi. Le idealità si trasformano in falsa coscienza ideologica quando si fanno dogma, quando sono chiuse e autoreferenziali e non sono disposte ad adeguarsi al continuo mutamento del divenire sociale. In questo caso, s'intende un progetto ideale di lungo termine in cui la società, o parte di essa, possa identificarsi nel tentativo di guardare a un futuro che sia qualcosa di più di un presente esteso. L'ideologia, dunque, si fa idealità quando si trasforma in progetto, quando si tende innanzi, appunto. Essa non va confusa con i programmi perché li precede. La politica moderna sembra schiacciarsi sulle piattaforme programmatiche senza avere idee da perseguire e in cui credere; ma è dalle idee che nascono i programmi e non viceversa. Se le piattaforme programmatiche non vengono poste all'interno di una visione globale del mondo che dovrebbe essere, o che si vorrebbe che fosse, difficilmente esse potranno ottenere un ampio seguito e difficilmente la politica riuscirà a recuperare la legittimità perduta. Perché la politica senza idee non è in grado di giustificare il suo potere. È necessario procedere a un recupero del tempo della politica affermando con questo che la politica ha il compito di rappresentare il nostro tempo che, in quanto tale, è storicamente determinato, espressione di un divenire storico in cui tutte e tre le dimensioni del tempo hanno valore (Mongardini C., 1998).

4. Per una democrazia conflittuale

    Ma come si può definire, oggi, la democrazia? A fronte di un secolo di totalitarismi essa non può non essere identificata con le libertà pubbliche che limitano l'arbitrarietà del potere politico. L'errore e il rischio tardomoderno sta però nella tendenza a ridurre la democrazia a mere procedure istituzionali. Questo determina un forte indebolimento della politica nell'ambito dell'attività di gestione della vita economica e sociale e il trionfo del cosiddetto liberalismo economico che, a torto, è spesso confuso con la democrazia politica, il più delle volte sortisce l'effetto di ridurre gli spazi di libertà sociale subordinando gl'interessi di un'intera nazione a quelli di chi è meglio posizionato sul mercato. Se da un lato, non possiamo non gioire del crollo dei regimi autoritari, dall'altro, non possiamo considerare l'affermazione dell'economia di mercato come una sorta di trionfo della democrazia.

    Nella nostra concezione di democrazia tendiamo a voler conciliare il principio della sovranità popolare, che definiamo "cittadinanza", con il rispetto dei diritti umani. Da questa unione sortisce una concezione pluralistica della democrazia che si concretizza nel rispetto delle minoranze. Questa sorta di complementarietà fra cittadinanza e rappresentanza dei diversi interessi è stata tradizionalmente perseguita con cui si tentava di individuare l'equilibrio tra individui e le categorie sociali rappresentate nelle sedi istituzionali, il tutto in nome del principio universale della ragione laica, intesa come relegazione nella vita privata di credenze e tradizioni religiose. Ma la crescente dissociazione tra economia e cultura e il conseguente indebolimento delle istituzioni democratiche rappresentative ha determinato anche una forte crisi dell'idea repubblicana così intesa. Tra globalizzazione economica e frammentazione culturale sembra si stia annullando ogni spazio di libertà sociale e politica: la ragione laica diviene mero razionalismo economicistico che sfocia in un drammatico cinismo sociale; individuo e società si scindono e non trovano più alcun equilibrio all'interno del principio di rappresentanza. I partiti, da sintesi politica degli interessi sociali dei cittadini, sono diventati semplici cartelli elettorali o imprese propagandistiche al servizio di singoli candidati che perseguono interessi personali.

    Il trionfo della società dell'immagine abbinata al principio maggioritario ha creato un mix terrificante che ha spinto la politica a deteriorarsi sotto la pressione del mercato e degli indici di ascolto. Il conflitto sociale è confuso e frammentato anche perché difficilmente gli interessi dei cittadini possono essere catalizzati all'interno di apparati ideali sempre più eclettici e sempre meno di parte. Occorre recuperare una dimensione del conflitto. Che si voglia o no, senza conflitto sociale, inteso come contrapposizione ideologica di due o più branche sociali, la società non è possibile, in quanto non esisterebbero fini comuni che possano garantire l'equilibrio sociale determinato dal perseguimento di un progetto che prescinda dall'individuo; così come non è possibile la democrazia. La democrazia rappresentativa perde terreno quando i partiti politici non sono più in grado di rappresentare gli interessi dei cittadini nelle sedi istituzionali. In breve, la democrazia rappresentativa diventa inefficace quando i partiti (e molti non si definiscono neanche più tali) smettono di essere "di parte" e rappresentare un blocco sociale definito. Essi si trasformano in lobby elettorali caratterizzate da un forte movimento centripeto che li rende sempre più simili l'uno all'altro. Occorre dunque arrestare questo movimento della politica nella direzione di una sua rapida dissoluzione, schiacciata sotto il peso imponente della globalizzazione economica e della sua stessa incapacità di ricondurre in unità la frammentazione sociale e culturale.

    Non può esservi democrazia senza identità culturali definite, né può esservi politica democratica senza un aperto conflitto sociale da rappresentare nelle sedi istituzionali. La politica dovrebbe dunque recuperare due o più visioni del mondo alternative che si contrappongano in Parlamento e che tornino ad essere "parte" di qualcosa che prescinda da semplici interessi razionalistici e personali. La democrazia non può essere ridotta all'organizzazione di libere elezioni ma deve essere anche capace di accogliere una politica in grado di rispondere con efficacia e convinzione alle istanze sociali, altrimenti lo sbocco verso l'autoritarismo è facile e non del tutto improbabile, specie qualora potere economico e potere politico si dovessero concentrare nelle mani di un singolo individuo. Il tutto chiaramente presuppone un sistema politico che sia in grado di coniugare la differenziazione degli interessi materiali con un principio laico e universale di unità sociale. Dice bene Touraine quando si domanda: "come è possibile, dunque, parlare ancora di democrazia quando la polis è stata rimpiazzata dal mercato globale, dalle autostrade del consumo e della comunicazione che attraversano le frontiere?" (Touraine A., 1998, p.257). La politica sembra incapace di guidare la società e si fa succube di un'opinione pubblica traviata dalla superficialità dei media e sfiduciata nei confronti del principio di rappresentanza.

5. L'Italia tra struttura e cultura

    Il caso Italia è paradigmatico per comprendere il disagio della politica moderna. Sono numerosi anni ormai che la politica italiana appare in forte crisi. Gli indicatori del "disagio" sono palesi: apatia, astensionismo elettorale, crisi della forma-partito, incapacità di mobilitazione collettiva, crisi ideologica e valoriale, disaffezione politica da parte di una società civile sempre più inquieta e frammentata, primato dell'economia. In questo contesto, la politica sembra incapace di recuperare terreno, schiacciata com'è sotto il peso di una mentalità economicistica che si fonda sul calcolo razionale e sul profitto immediato. Si assiste dunque a un mutamento della cultura politica, dove l'interesse privatistico e di breve periodo prevale sul consenso e sui progetti di più ampio respiro. La politica senza idee si riduce alla gestione tecnica del sistema e a una sorta di enfatizzazione a-critica del mercato globale e del sistema economico mondializzato. La stessa sindrome delle "terze vie "non rappresenta altro che il grande disagio di una politica che riesce con difficoltà a contenere e governare i processi di globalizzazione del capitalismo moderno.

    Un ruolo fondamentale, in questa fase, è giocata dai mezzi di comunicazione di massa che, consentendo una maggiore visibilità del politico, invece di favorire una maggiore trasparenza, sembra determinare una sorta di mercificazione della politica, riducendo la dialettica democratica a uno scontro tra leader. La società civile, d'altro canto, stenta ad organizzarsi all'interno dei confini nazionali. Essa è alla ricerca di una propria strada e, nel frattempo, è in balìa di un mondo virtuale rappresentato dai mezzi di comunicazione di massa, in cui l'individuo è ridotto ad "altro generalizzato" e l'unica vera certezza sembra essere la sostanziale incertezza. La società stessa si svincola dalla politica e snobba i partiti, ma con essi anche le dinamiche della democrazia rappresentativa, escogitando inedite forme di partecipazione collettiva alla vita sociale. Lo iato tra società e istituzioni politiche si estende a macchia d'olio ei partiti sembrano incapaci di elaborare una diagnosi di questa fase critica. Ci si limita a sostenere sterili e confusionarie ipotesi di riformulazione normativa e istituzionale seguendo una logica ingegneristica ed esterofila con il sostegno, tra l'altro, della comunità scientifica e dei cosiddetti "tecnici" dell'analisi politica. In realtà, quella che viene individuata come una crisi della macchina politica appare, più che altro, come una crisi culturale della politica italiana, emergendo chiaramente la drammatica debolezza di una cultura politica nazionale. Da questo punto di vista sembra riattualizzarsi lo storico dibattito tra "strutturalisti" e "culturalisti". È la struttura politico-istituzionale e creare la cultura o viceversa? In realtà il processo è reciproco, come ogni rapporto dialettico, anche se non può essere ridotto a come è accaduto ad autori, come Almond e Verba (1963) che hanno pur avuto il pregio di riportare il discorso sistemico della politica su una dimensione anche culturale. Ma cosa s'intende specificatamente con l'espressione "cultura politica"? In realtà le definizioni sono state molte, e per lo più discordanti, ma non è questa la sede per soffermarci su di esse.

    In primo luogo, bisogna distinguere tra "cultura politica d'élite" e "cultura politica di massa" o "civica". Secondo Pye, la dimensione culturale della politica sarebbe strettamente connessa al livello di sviluppo socio-politico (Pye e Verba, 1965).In generale, secondo l'autore, nei paesi caratterizzati da un livello di sviluppo inferiore, si assisterebbe a una sostanziale crisi della leadership; dunque, partendo dalla prospettiva che il livello di sviluppo sia strettamente connesso alle capacità direttive delle élites politiche, si comprenderebbe il perché studi rivolti a realtà come quella turca, egiziana o etiope si siano concentrati prevalentemente su una dimensione culturale di tipo elitario. Al contrario, in paesi più sviluppati e con una struttura democratica maggiormente stabile, diventerebbe particolarmente importante sondare i sentimenti della popolazione nei confronti del sistema politico, fondamentali alla riproduzione della struttura sistemica di tipo democratico. L'errore di Pye sta, probabilmente, nell'aver incluso la realtà italiana tra quei paesi denotati da una struttura politico-democratica stabile e in cui la capacità di orientamento della leadership politica passerebbe in secondo piano rispetto alla cultura politica di massa(da qui si spiegherebbe anche il perché degli studi effettuati essenzialmente su quella dimensione della cultura politica). In realtà, pur prendendo per buona l'intuizione di Lucian Pye, secondo cui la cultura politica sia strettamente connessa al livello di sviluppo sistemico, va notato che, se nel '65, l'epoca in cui lo studioso statunitense scriveva, si poteva assistere effettivamente a una crisi di leadership perlopiù nei paesi meno sviluppati, oggi, la stessa crisi delle classi politiche è presente nella maggior parte dei paesi considerati più sviluppati. Dunque, sarebbe interessante analizzare il perché di tale studiando la cultura politica delle élites. Inoltre, per quanto riguarda il caso italiano, un'attenta analisi storica dimostra che nella penisola ha prevalso essenzialmente una impostazione culturale soggetta alla spinta propulsiva delle classi politiche, fin dall'unità nazionale avvenuta nel 1860; nonè un caso che le principali teorie elitiste si siano sviluppate nella penisola (vedi gli studi di Pareto, Mosca, Michels).Al contrario, la cultura politica civica difficilmente, nel caso italiano, può essere definita anche "di massa" essendo rimasta quasi sempre vincolata su un livello caratterizzato da una forte impronta localistica di carattere addirittura subculturale (vedi gli studi di Almond e Verba, Banfield, Putnam, Bagnasco, Inglehart ealtri).

    Detto ciò, appare chiaro che, nel caso italiano, sia più sensato adottare un approccio analitico che si concentri sulla cultura politica propriamente d'élite, analizzandola attraverso una prospettiva storica. La classe politica italiana, nel secondo dopoguerra, è stata fortemente condizionata da una cultura di tipo industrialista, fondata sulla teoria del valore-lavoro di Smith, Ricardo, Marx e concretizzata nel conflitto "liberal-laburista". Questa impostazione comincia a vacillare verso la fine degli anni Sessanta quando sarà sostanzialmente contestata a livello internazionale dai nuovi movimenti di massa. La crisi si acuisce negli anni Settanta, quando si comincia a discutere di società postindustriale, nonché di complessità sociale. Una simile impostazione subirà un ulteriore colpo di grazia con l'ondata liberista degli anni Ottanta, fino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino e della crisi, ovunque, dei partiti comunisti. In virtù di quanto appena rilevato, è possibile suddividere la storia dell'Italia post-bellica in tre aree problematiche che vanno a coincidere con le tre fasi storiche della vicenda italiana, all'interno delle quali la cultura politica è mutata con il mutare delle contingenze socio-politiche.

    1. Dal 1945 fino al 1973, periodo di maggior sviluppo della cosiddetta cultura industrialista, tradotta, in termini politici, nel conflitto liberal-laburista; in termini economici, nel sistema fordista di produzione; questa fase vede il conflitto politico fortemente incentrato su materie economiche e sulla contrapposizione "capitale/lavoro".

    2. Dal 1973 fino al 1989, periodo in cui la vecchia impostazione culturale di tipo industrialista comincia a vacillare decisamente, non riuscendo più ad interpretare gli sviluppi dell'epoca moderna. Si tratta della fase che va dalla fine dei parametri di Bretton Woods, fino alla caduta del muro di Berlino, fase in cui si mette in discussione il sistema fordista di produzione, dando inizio ai primi esperimenti fondati sull'accumulazione flessibile di capitali; emergono contemporaneamente nuove tematiche d'interesse politico che prescindono da quelle strettamente economiche (newpolitics), in cui si comincia a discutere sul senso della complessità sociale e in cui si sfaldano gradualmente gli equilibri bipolari del mondo. In questa fase, i tradizionali partiti a vocazione ideologica perdono terreno perché non si rendono conto del mutamento strutturale in atto; sempre in questa fase ha inizio quella crisi delle appartenenze che sfocerà poi nelle vicende italiane degli anni Novanta.

    3. Dal 1989 ai nostri giorni, periodo in cui, sotto il profilo del sistema di produzione, un certo modo di concepire il Welfare State è messo in discussione un po' da tutti, emerge la cosiddetta new economy che si contrappone alla old economy e, da complessità sociale, si comincia a discutere di"globalizzazione". Si tratta di una fase culturale particolare in cui la classe politica fatica a rintracciare i parametri per un rinnovamento culturale, fortemente indebolita dalla fine delle appartenenze e dagli scandali giudiziari. Con la fine delle ideologie il primato politico cede il passo all'economia e anche la cultura si fa economicistica, fondata sul calcolo razionale e di breve periodo. Cadute le vecchie ideologie, la classe politica non è più riuscita a recuperare una spinta progettuale che garantisse una rappresentazione simbolica della realtà, vincolandosi a una "cultura del presente" concretizzata in un'attività politica priva di spinte progettuali e fortemente orientata alla mera gestione tecnica del sistema. Questo, se sotto il profilo dei comportamenti politici non può fare altro che produrre politiche di breve periodo caratterizzate da una cultura di tipo economicistico, sotto il profilo prettamente istituzionale finisce con lo scadere in un sorta di formalismo giuridico inteso come enfatizzazione indebita delle forme giuridiche e degli "atti"(vedi il caso delle riforme istituzionali) senza alcuna considerazione per la struttura effettiva del sistema politico inteso come fenomeno storicamente determinato. Si tratta di una tendenza a schiacciarsi sotto il peso di un normativismo esasperato, in linea con l'idea che la "giusta norma" rappresenti la panacea del sistema politico. Inoltre, la classe politica, cosciente della necessità di rinnovare il proprio apparato teorico, non è ancora riuscita a svincolarsi dal retaggio della teoria industrialista del "valore-lavoro" che attribuisce dignità ontologica al solo lavoro manuale, a fronte di un'epoca in cui la valorizzazione del lavoro intellettuale e della ricerca scientifica vorrebbe dire più occupazione e maggiore crescita economica. Inoltre, con la fine delle ideologie e con esse dei riferimenti etici su cui si è soffermata la cultura politica italiana nei primi quarant'anni dal dopoguerra, i "nuovi politici", invece di rivalutare l'immensa portata etica rappresentata dal sistema democratico e dalla sua concretizzazione politica nello Stato democratico di diritto, hanno preferito rispolverare i vecchi odi ideologici, impedendo così il confronto politico nel rispetto di una matura dialettica democratica. In questo contesto, la crisi culturale della politica si è risolta nel trionfo dell'economicismo inteso come ideologia totalizzante della tarda modernità. Se la democrazia non è vissuta come un valore in sé, solo le ideologie possono importare una tensione etica dentro di essa. Cadutele ideologie rimangono solo le procedure. La politica, incapace di "tendersi innanzi", si riduce alla gestione tecnica del sistema, in base alla cultura del calcolo razionalistico e dell'interesse immediato.

6. Cultura politica e formazione

    Gli anni Novanta hanno sancito la fine delle culture politiche e delle identità. Con la caduta delle ideologie, la politica non è stata in grado di rinnovarsi sotto il profilo di un'elaborazione programmatica che prescinda dalla mera gestione del sistema. Il culto dell'immagine e il personalismo politico hanno impregnato la politica di una pseudo-cultura dirigistica. Si è smesso di fare riferimento alla tradizione culturale e all'osservazione critica dei processi sociali di modernizzazione, schiacciandosi in una sorta di metafisica dell'immagine e del tatticismo politico fine a se stesso. I partiti hanno cessato d'investire in cultura e le campagne elettorali sono affidate alle agenzie pubblicitarie. I diversi leader politici hanno assecondato la mentalità imprenditoriale dell' antipolitica e ne sono rimasti inghiottiti. Si spendono milioni per retribuire esperti di marketing che consiglino ai politici come vestirsi, come acconciarsi, addirittura come truccarsi e comportarsi di fronte alle telecamere, ai limiti di un narcisismo individualistico che ha del ridicolo. La politica della sostanza e della cultura sembra essersi trasformata nella politica del superfluo, così schiacciata sotto la spinta di un'improbabile e irrealistica concezione estetica del sociale.

    La cultura politica dominante nella moderna società occidentale è divenuta la mitologia dello spot pubblicitario e degli slogan senza contenuti. È la cultura del presente, dunque, del caduco, del temporaneo; è la cultura dell'anti-cultura, perché annulla le tre dimensioni del tempo schiacciandosi in un presente senza storia, dove il passato diventa mito e il futuro è quasi inesistente, assomigliando, tutt'al più, a un presente esteso (Nowotny H., 1993). È la nuova ideologia postmoderna dell'interesse di breve periodo e della politica al dettaglio, la cosiddetta "politica delle intese" di cui parlava Luhmann. La realtà sostanziale è ridotta a un mero formalismo politico e la stessa comprensione e gestione del reale è ricondotta a materia tecnica. Le decisioni non sono prese alfine di perseguire un progetto politico di ampio respiro, ma si fondano sugli interessi particolari di breve periodo, in base a un ipertatticismo ingegneristico utile a soddisfare l'ambizione personale di qualche dirigente di partito. Eppure non è possibile costruire un progetto esclusivamente su materie tecniche e si finisce con l'appiattirsi sulla congiuntura, per definizione, capace di produrre politiche di corto respiro, prive di qualunque substrato assiologico. La globalizzazione non viene analizzata, non viene interpretata, così come i più elementari processi di modernizzazione; essi vengono altresì assecondati, subiti, e ci si schiaccia su un'acritica esaltazione del mercato, anch'essa di natura puramente tecnicistica, sull'onda di una mentalità contabile di impianto economico-ragionieristico. La stessa fine del partito di massa non fa che collocarsi all'interno del quadro delineato di cessazione di ogni cultura politica e il partito si trasforma in sigla, in cartello elettorale, come a dimostrare la sua inconsistenza sotto il profilo dell'elaborazione teorica e della produzione di idee. È latitante, a sinistra come a destra, un tentativo serio di rielaborazione di un'identità ideale e di partito, limitandosi ad organizzare congressi di facciata che puntano a risvegliare la passionalità politica dei militanti, attraverso l'elencazione brutale, ma pur sempre evangelica, dei mali del mondo, senza però identificarne la causa. La politica si carica di nuovi simboli, sul tipo di video, attrici, cantanti, che poco hanno a che vedere con la vita reale. Ai grossi pensatori e agli intellettuali del passato si preferiscono i v.i.p., le sex symbol e i personaggi del mondo dello spettacolo, perché fanno più audience, magari stimolando le "poliedriche pulsioni fisiologiche "dei cittadini più qualunquisti. È scomparsa la cultura dello Stato e il pubblico si trasforma in pubblicitario, dove l'apparente diviene il solo valore di una società superficiale e consumistica che non viene criticata più da nessuno. La confusione è tanta, specie sotto un profilo prettamente ideologico: i socialisti si dicono liberali, i liberali si dicono socialisti; le categorie rimangono le stesse di sempre ma le personalità e i movimenti che se ne appropriano cambiano al cambiare delle stagioni. Socialismo e liberalismo vengono utilizzati a sproposito, proprio perché non ci si ricorda, probabilmente, il loro significato, introducendoli nell'ambito della propaganda politico-mediatica. Così c'è chi, prima si definisce liberale e liberista, poi decide di aderire al partito popolare europeo, o chi predica la necessità di superare le vecchie categorie politiche ottocentesche e poi aderisce a un movimento inscritto nelle fila del partito liberale europeo che, se vogliamo, trova le sue radici molto prima, nel XVIII secolo. È divenuto indispensabile fare chiarezza, perché in questo modo la politica rischia di entrare in un vortice di incoscienza assiologica che rappresenterebbe il dissolvimento dello stesso spirito democratico, fondato sulla cittadinanza e sulla rappresentanza degli interessi. Socialismo e liberalismo hanno rappresentato per quasi due secoli la gran parte della teoria politica internazionale, ma oggi le cose sembrano essere cambiate. Sempre più spesso si sente parlare di socialdemocrazia e di liberaldemocrazia per significare che entrambe le categorie politiche non possono più prescindere dal fare riferimento a quel soggetto tipicamente moderno rappresentato dallo Stato democratico. La vecchia dicotomia non sembra più adeguata ad interpretare il divenire sociale; essa, senza dubbio, va aggiornata, anche se questa necessità non può assolutamente legittimare l'indebita e strumentale operazione di chi vorrebbe confondere i due temi, inevitabilmente contrapposti. Essi si devono, dunque, rimodellare sulla democrazia senza per questo dimenticare la loro essenza e peculiarità.

    Mentre il liberalismo prefigurava un tipo di società per così dire "robinsoniana", funzionale a un individuo autosufficiente, bianco, maschio, scaltro e cristiano, il socialismo si poneva di fronte al sociale in maniera del tutto differente, in una visione della realtà come prigioniera dell'ineguaglianza sociale determinata da un sistema di produzione profondamente iniquo e contraddittorio; solo una seria presa di coscienza degli operai, intesi come l'unica vera forza produttiva, avrebbe consentito di superare un simile stato di oppressione, verso la formazione di una società senza Stato e senza classi, una società dell'uomo per l'uomo. Di entrambe le scuole di pensiero, come nota Cerroni, l'elemento ormai superato dalle vicende storiche è rappresentato dalla celebre teoria del valore-lavoro di Smith, Ricardo, ma anche di Marx. La teoria tendeva ad enfatizzare la funzione meramente garantista dello Stato nei confronti della proprietà privata e, nello stesso tempo, accentuava il ruolo fondamentale del lavoro manuale come unica fonte di produzione vera(Cerroni U., 1996). Nell'era postindustriale appare evidente che una simile teoria non potrebbe mai essere considerata valida, dal momento che il lavoro manuale, come era inteso all'epoca di Marx, quasi non esiste più, lasciando il passo a un lavoro intellettualizzato, congruente allo sviluppo tecnologico delle società complesse. Lo Stato liberale viene generalmente identificato con il modello kantiano di "repubblica" basato su quattro elementi fondamentali:

1.la ragione: lo Stato liberale classico si fonda dunque su presupposti illuministico-razionali;

2. il diritto: lo Stato liberale è, in primo luogo, uno Stato di diritto, fondato, quindi, su regole di convivenza chiare, articolate attorno a principi razionali individuati dall'uomo;

3. la rappresentanza: esso è uno Stato rappresentativo basato, non tanto, sulla rappresentazione, quanto sulla surrogazione nelle decisioni in base a presupposti razionali, da qui la tendenza liberale ad optare per il censo di cultura;

4. la sovranità popolare: è uno Stato, cioè, dove il popolo è definito da leggi di ragione, dunque discriminato in ordine alle diverse soggettività (donne, analfabeti, giovani, lavoratori dipendenti sono cives sine suffragio). Il socialismo si oppone alla discriminazione razionale operata dai principi liberali, proponendo una visione più democratica, che nel corso dei secoli ha portato all'ottenimento del suffragio universale senza discriminazioni di censo, sesso e cultura.

    Le grandi novità della seconda metà del XX secolo mettono in crisi, quindi, la struttura dello Stato liberale di matrice kantiana, opponendo ad esso una concezione democratica più partecipata e meno discriminatoria. Il merito del liberalismo sta nell'aver posto l'attenzione sulle libertà individuali che rimangono, comunque, del tutto formali e spetterà al movimento socialista consolidare l'idea di uguaglianza sociale e di pari dignità per tutti. Il liberalismo ha conservato, inoltre, una forte anima tradizionalista, chiaramente avversa a simili innovazioni, ed è stato compito del socialismo arginare storicamente i rischi di derive conservatrici di una simile tendenza. Il liberalismo, come nota Cerroni, finisce con l'ancorare le regole del gioco ai valori tradizionalmente individualistici e, in questo modo, si dimostra incapace di trainare la democrazia verso sponde più progressive. Che il socialismo scientifico abbia fallito, questo non vuol dire assolutamente che le tesi di Marx, molte delle quali si sono rivelate infondate, siano tutte fallite allo stesso modo. Critici e seguaci di Marx, abbagliati dall'immensa potenza pratica del socialismo, ne hanno spesso rielaborato le categorie per renderle più congeniali ai diversi contesti e alle diverse congiunture storico-sociali; questo ha fatto sì che il pensiero di Marx venisse spesso confuso con le interpretazioni dei marxisti. Sarebbe dunque il caso di rianalizzare criticamente l'opera marxiana. Non si può negare che la società capitalistica sia ancora, e non potrebbe essere altrimenti, fondata sulla differenziazione ineguale tra portatori di forza-lavoro e proprietari dei mezzi di produzione. Compito di un moderno socialismo sarebbe quello di individuare le cause di una simile contraddizione del sistema capitalistico per contenerne gli effetti, spesso deleteri per l'intero sistema di produzione, oltre che per la vita individuale dei lavoratori. Il concetto dell'emancipazione umana dalla schiavitù del lavoro rimane un problema esistente e pressante, ancor di più nel momento in cui il tradizionale lavoro meccanico di matrice fordista si è avviato nella direzione di una maggiore flessibilità strutturale; essa crea, infatti, nuove forme di dipendenza e di oppressione dell'uomo sull'uomo, seguendo le linee tracciate da una concezione sociale di un individualismo sfrenato e di una concorrenza darwiniana senza pietà per i più deboli.

    Il capitalismo postindustriale è un sistema di produzione profondamente imperfetto che finisce con il cozzare violentemente anche con i principi primi della teoria democratica. L'unico obiettivo della politica tardomoderna sembra essere il raggiungimento di posizioni dirigistiche e di gestione sistemica; eppure, come nota giustamente Michele Prospero, una macchina che comanda e non produce idee non può essere spacciata come partito, ma al massimo come sistema di potere istituzionalizzato senza alcun legame con quel tessuto sociale che dovrebbe invece rappresentare. Perché la democrazia possa funzionare occorrono partiti veri e una vera politica che non si limiti ad essere un'aleatoria "politica dei valori", ma che si renda conto che i valori in sé servono a poco se non sono ricondotti a interessi reali. Si rischia, altrimenti di scadere nella retorica, ovvero in quel discorso svuotato di significati e rattrappito nelle forme verbali, senza sostanza, dunque, senza idealità da trasmettere e da tradurre in concrete politiche pubbliche. Non esistono più riviste di partito, aree culturali organizzate in sezioni tematiche, centri di elaborazione teorica sul tipo delle vecchie e rimpiante scuole di partito per la formazione dei quadri dirigenti. Senza valori veri, senza idealità, senza capacità di osservazione e di critica, la politica diventa solo un termine, una sigla senza contenuti che difficilmente sarà in grado di governare con saggezza e lungimiranza. Non ci può essere politica forte se mancano identità culturali altrettanto forti e radicate in uno spirito nazionale, pronte a confrontarsi con la realtà sovra-statale del mondo globalizzato. Una politica incolta diventa una politica mercificata, priva di legittimità sociale, di fronte a una società civile irrequieta che non si riconosce più nella classe politica, considerata distante dai problemi reali. Non c'è Stato politicamente ed economicamente forte che non spenda risorse nella promozione culturale e nell'innovazione scientifica. L'Italia è uno dei pochi paesi che ancora fa distinzione tra Ministeri del lavoro, dell'istruzione e della ricerca scientifica; in tutte le società complesse essi sono considerati i tre aspetti di un'unica figura geometrica, perché non può esserci crescita economica senza innovazione e ricerca scientifica, così come non può esserci aumento dell'occupazione senza che il cittadino venga messo nelle condizioni di soddisfare lad omanda di un lavoro specializzato, intellettualizzato, appunto, rispondendo alle sfide della moderna società sviluppata e informatizzata.

7. Recuperare lo spazio della politica

    In epoca tardomoderna si sente tanto parlare di libertà individuale ma può anche essere che un eccesso di libertà individuale coincida con una sostanziale impotenza collettiva. Manca assolutamente un ponte che metta in comunicazione la sfera del privato e la sfera del pubblico. Secondo Bauman, l'opportunità di mutare situazione dipende da una riconsiderazione del ruolo dell'agorà che rappresenta l'unica dimensione tradizionalmente sia pubblica che privata, capace dunque di conciliare i due aspetti. Si tratta dello spazio in cui la dimensione delle preoccupazioni personali si emancipa dalla possibile deriva privatistica immettendosi nello spazio pubblico attraverso concetti sul tipo di "bene pubblico", "società giusta", "valori comunemente condivisi"(Bauman Z., 2000). La politica sembra incapace di giustificare la sua crescente insignificanza e di recuperare una spinta progettuale; lo stesso liberalismo che un tempo rappresentava lo strumento del "balzo in avanti" della politica moderna appare oggi semplicemente come il mezzo per trovare giustificazione a una resa. Esso si riduce, a quanto pare, al semplice credo della mancanza di alternative, come ha affermato Cornelius Castoriadis, una sorta di filosofia del "meno peggio". Il ruolo della politica democratica, intesa come arte del governare e del rappresentare, è quello di abbattere i limiti posti alla libertà dei cittadini ma anche quello di renderli abbastanza liberi e responsabili da potersi autolimitare per il bene collettivo. Eppure questo concetto di autolimitazione è interpretato, oggi, come una pretesa autoritaria e liberticida della politica nei confronti dei soggetti individuali.

    I politici sembrano del tutto incapaci di governare un processo di riformulazione assiologica e si schiacciano in un' enfatizzazione indebita del mercato che da tempo ha portato a una sorta di dittatura dei consumi. È una situazione che genera angoscia, dal termine tedesco di Unsicherheit che vuol dire allo stesso tempo, "incertezza", "insicurezza esistenziale", "mancanza di garanzie personali". Le istituzioni sono ormai preda delle dinamiche di mercato e sono dunque incapaci di generare una maggiore sicurezza. Le decisioni vere vengono prese in uno spazio alternativo alla tradizionale agorà e così anche in uno spazio alternativo a quello pubblico organizzato politicamente. La verità è che la politica è incapace di recuperare terreno perché ha smesso di interrogarsi sul reale, ha smesso di porsi domande e qui subentra la sociologia che dovrebbe orientare il mutamento nella direzione di una concezione della libertà individuale, come qualcosa che può essere raggiunta solo attraverso uno sforzo collettivo. Dunque, i modelli di "vita buona" devono essere nuovamente rivolti nella direzione della "società buona". Il potere è sempre più estraneo alla politica e questo spiega anche il crescente disinteresse che sfocia in apatia. Nessuno crede più che il miglioramento delle condizioni di vita possa provenire dai palazzi della politica apparentemente incapaci di contenere l'esplosione incontrollata delle dinamiche del mercato globale. È necessario che si recuperi un istituto di governo dell'economia e della politica sovranazionale. Un tempo riflettendo sul modo in cui si trattavano le questioni internazionali si parlava della necessità di regole universali che venissero universalmente applicate, c'era quindi la volontà di governare e controllare i processi di modernizzazione; oggi, si sente esclusivamente parlare della "globalizzazione" come qualcosa che ci capita e che subiamo, senza alcuna possibilità di immetterla all'interno di una rete di confine normativo gestito dallo sforzo della collettività internazionale. La flessibilizzazione della vita, la sua crescente "plasticità", per dirla con Kenneth J.Gergen, produce quel senso di marcata insicurezza dell'individuo che si traduce in un ansia esistenziale, intesa come prodotto tipico della tarda modernità. Trasparenza e flessibilità garantiscono maggiore certezza per chi si trova a vivere la condizione di "globale" per scelta", quelli che Beck definisce i vincenti della globalizzazione, ma non per la stragrande maggioranza rappresentata dai "locali per necessità", cioè coloro che non reggono il peso di una concorrenza sfrenata e priva di regole, fruendo dell'altra faccia della medaglia della globalizzazione, identificata in una crescente emarginazione e pauperizzazione sociale. Quello che impressiona non è tanto la tendenza a vivere in una costante incertezza parziale ma è il coro neoliberale che ci esorta ad abbattere tutti quegli istituti costruiti con fatica e che per decenni hanno rappresentato una barriera contro le spinte aggressive delle dinamiche del mercato globale che oggi prevalgono, svincolandosi completamente da qualsiasi forma di controllo pubblico nel nome di un egoismo individualistico eretto a valore universale. La solidarietà sociale, che in tutte le società è storicamente servita da garanzia di sicurezza per il cittadino, rappresenta oggi la principale vittima della campagna portata avanti dalle forze del capitalismo globale. La stessa Margaret Thatcher quando si trovò ha esporre il proprio credo neoliberale e neoliberista lo riassunse con una frase ormai celebre: "Non esiste una cosa come la società", esistono, altresì, unicamente singoli uomini e singole donne liberi discegliere la propria vita e di autodeterminarla, ed esistono le famiglie. Effettivamente la scelta di immettere la famiglia all'interno di un contesto di assenza di solidarismo sociale appare una scelta contraddittoria, dal momento che, come sostiene Stuart Hall, il ruolo del mercato è proprio quello di sciogliere ogni vincolo di socialità e di reciprocità, quegli stessi vincoli di cui la famiglia come istituzione si nutre necessariamente. Inoltre, quando si parla di libertà di scelta occorre specificare cosa si intenda.

    Le scelte individuali sono in genere limitate da due vincoli: l'agenda delle opzioni e il codice di scelta. Nel primo caso si tratta delle possibili alternative offerte all'individuo, mentre nel secondo si tratta di quell'insieme di regole non scritte che orientano l'individuo nella scelta. Per tutta la fase classica della modernità lo strumento di definizione dell'agenda è stata la legislazione, cioè i legislatori facevano la loro scelta prima degli individui per offrire loro una serie di alternative concrete che fossero in linea con le loro opzioni. Il principale strumento moderno per definire un codice di scelta è tradizionalmente stato l'educazione, intesa come strumento istituzionalizzato per addestrare l'individuo-cittadino ad utilizzare correttamente l'arte di scegliere tra le opzioni offerte dal legislatore. Entrambi gli istituti stanno perdendo terreno e così anche la loro capacità di definire agenda e codice. Queste funzioni vengono gradualmente cedute a forze che prescindono dalle istituzioni politiche democratiche e in questo senso il potere si separa dalla politica con tutti i rischi destabilizzanti che ne possono conseguire. Sia agenda che codice sono oggi predeterminati dalle pressioni del mercato lasciati in balìa di uno spontaneismo sociale frutto, in realtà, della più bieca operazione di eterodirezione dell' individuo. Ma gli individui non possono essere liberi se prevale l'idea che la società è una cosa che non esiste; se è loro impedito di costruire un sistema di relazioni sociali fondato sulla reciprocità e la solidarietà pubblica. Per far questo, cioè per far sì che l'individuo sia veramente autonomo è necessario avere una società autonoma dove l'oikos greco, della dimensione privata, riesca a conciliarsi con l'ecclesia, della dimensione pubblica e della politica, attraverso il collante dell'agorà, inteso come il luogo del conflitto dialettico finalizzato alla trasformazione degli interessi privati in questioni pubbliche e dove queste ultime divenute "interessi sociali" si fanno diritti garantiti. A questo riguardo si dovrebbe perseguire una concezione di politica che, come afferma Castoriadis, dovrebbe essere: attività limpida ed esplicita volta alla fondazione di istituzioni desiderabili e della democrazia come regime di autoistituzione il più possibile limpida ed esplicita, come regime delle istituzioni sociali che dipendono da un'attività collettiva esplicita. Non è necessario aggiungere che questa autoistituzione è un movimento che non ha mai fine, che non aspira a una "società perfetta" (un'espressione perfettamente insensata), bensì, a una società che sia il più possibile libera e giusta. È il movimento che io chiamo progetto di una società autonoma, e che, se dovesse avere successo, avrà il compito di istituire una società democratica (Castoriadis C.,1997, p.4).

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