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SAGGI
Impegno politico giovanile: verso una ridefinizione concettuale
di Enrico Caniglia
1. Giovani e impegno politico: un’ipotesi di ricerca
Il rapporto tra giovani e politica è senza dubbio uno dei temi più controversi e dibattuti nella recente sociologia della condizione giovanile. La complessità del problema dipende, in parte, dall’estrema varietà e settorialità degli approcci di ricerca normalmente impiegati per l’analisi della condizione giovanile e delle sue continue trasformazioni; in parte, tale ambiguità interpretativa è legata alla contraddittorietà che caratterizza le valutazioni, in merito alla politicizzazione/ spoliticizzazione delle giovani generazioni, che accompagnano le diverse prospettive di ricerca adottate. Riguardo alla settorialità degli approcci, la ricerca sociologica appare, nel complesso, orientata verso due principali direzioni di analisi. Una prima direzione di analisi, per certi versi microsociologica, tende a focalizzare il suo interesse esclusivamente sui processi di mutamento che hanno luogo all’interno della condizione giovanile, ignorando sistematicamente quanto avviene nel più generale ambito della politica. Una seconda direzione di ricerca sposta invece la sua attenzione ai macro processi politici, trascurando la specificità dei processi che si collocano all’interno dell’esperienza giovanile. Per questa seconda prospettiva interpretativa le dinamiche ricorrenti nella partecipazione giovanile hanno cioè radici lontane, rintracciabili nei mutamenti che investono il sistema politico in generale. Se nel caso dell’approccio microsociologico il principale limite è di ignorare i processi che legano la condizione giovanile con il resto del sistema sociale, nella seconda prospettiva si corre invece il rischio di negare in partenza autonomia e rilevanza al giovane come soggetto sociale.
E’ però riguardo alle valutazioni finali che emerge meglio l’ambivalenza presente nell’attuale rapporto tra giovani e politica. In generale, si individuano tre diverse e contrastanti rappresentazioni sociali della condizione giovanile. Nel dibattito sociologico, specialmente italiano, è ancora viva l’immagine del giovane come sinonimo di individuo politicamente impegnato e come soggetto centrale nei processi di mutamento politico, una rappresentazione in gran parte ereditata dalla fase movimentista degli anni Sessanta e Settanta. A questa rappresentazione fanno da contraltare molte indagini sociologiche più recenti che tendono ad interpretare la condizione giovanile come specchio di una crescente estraneità sistematica verso la politica. In queste ricerche, l’idea della condizione giovanile come elemento che predispone "naturalmente" al coinvolgimento politico cede progressivamente il passo ad una ben diversa immagine del giovane come soggetto simbolo della chiusura nel privato e dell’estraneità totale verso il mondo della politica. Altre indagini ancora assumono, invece, le giovani generazioni come protagoniste di un mutamento destinato a investire profondamente le forme e i contenuti della politica. I giovani cessano di essere il termometro attraverso cui misurare il crescente disinteresse politico della società italiana, per diventare il punto di osservazione privilegiato dei processi attraverso cui si modificano le modalità della partecipazione politica, nonché gli stessi contorni socio-semantici della sfera politica.
Un modo per sfuggire sia alla settorialità degli approcci di ricerca sia alla tendenza, insita nelle diverse rappresentazioni sociali, a dare giudizi troppo perentori sul grado di politicizzazione dei giovani, può essere quello di spostare l’attenzione sui mutamenti che riguardano i processi culturali a monte della politica e della condizione giovanile. In particolare, si può avanzare l’ipotesi che la complessità del rapporto tra giovani e politica vada più correttamente interpretata alla luce di una crisi essenzialmente di natura "motivazionale", una crisi riguardante cioè le ragioni e i contenuti di senso attraverso cui si alimenta quella che potremmo definire la "cultura dell’impegno".
La "cultura dell’impegno" è l’ambito entro cui sono racchiuse le direttrici di senso, i sistemi di valore e le rappresentazioni sociali che motivano a livello individuale e a livello collettivo l’impegno politico. La veste tradizionale della "cultura dell’impegno" viene identificata da Anthony Giddens nella cosiddetta emancipatory politics, secondo la quale la politica consiste in un insieme di richieste di emancipazione del singolo individuo da una serie di condizioni storiche di ingiustizia e di costrizione. Si parla infatti di emancipazione dal dominio economico, sociale e politico, emancipazione dalla tradizione morale e da quella religiosa (Giddens 1997). Questo ideale di liberazione contenuto nell’emancipatory politics ha fornito le dimensioni di senso e le basi motivazionali dell’impegno giovanile durante gli anni Sessanta e Settanta - i movimenti studenteschi, femministi e generazionali di quei decenni costituiscono un esempio significativo di forme di mobilitazione alimentate da una "cultura dell’impegno" di tipo "emancipatorio". A partire dagli anni Ottanta, nel mondo giovanile la rilevanza di questa forma di "cultura dell’impegno" appare sempre più in difficoltà per l’azione di due processi profondamente e reciprocamente intrecciati. Il primo processo attiene alle trasformazioni che investono direttamente la condizione giovanile: si tratta dell’individualizzazione, inteso come fenomeno che alimenta un generale processo di disincanto verso le tradizionali appartenenze e identificazioni collettive. Il secondo processo riguarda invece una dinamica di mutamento relativa alla trasformazione dei contenuti e delle funzioni del sapere, un fatto che, tra le altre cose, ha profonde implicazioni sulla tenuta dei tradizionali riferimenti ideologici nella sfera politica in generale. In particolare, si evidenzia come il recente mutamento culturale giochi un ruolo attivo nello svuotare di contenuti e di rilevanza sociale l’impegno politico attraverso la progressiva marginalizzazione della militanza e, in generale, dei ruoli di attivismo politico distinti da quelli legati alla politica professionale o alla semplice partecipazione episodica.
Questo processo di mutamento contiene una ambivalenza di fondo che consente di lasciare spazio alle più diverse interpretazioni sul destino della politica giovanile. Alcune interpretazioni tendono, ad esempio, a intravedere nella crisi giovanile della politica emancipatoria i segnali di un progressivo calo di tensione ideale, al punto da decretare la trasformazione del giovane come soggetto simbolo della chiusura nel privato e dell’estraneità totale verso il mondo della politica. Per altre "letture", l’individualizzazione giovanile e la trasformazione del sapere producono un ben più complesso processo che non va letto semplicisticamente in termini di impasse partecipativo dei giovani, quanto piuttosto come radicale riscrittura delle rappresentazioni sociali e delle motivazioni che sostengono e animano il coinvolgimento politico di questi ultimi, un passaggio da una tradizionale "cultura dell’impegno" ad una nuova in cui risultano profondamente ridefiniti i codici fondamentali dell’esperienza politica.
In queste pagine si proverà ad illustrare le radici teoriche e concettuali delle principali analisi che hanno alimentato nel tempo questa prospettiva interpretativa, per poi soffermarci in particolare sul dibattito esistente tra le diverse implicazioni relative al destino della politica giovanile.
2. L’erosione delle basi culturali dell’impegno politico
Fin dalla classica ipotesi abbozzata dal sociologo americano Daniel Bell il declino delle ideologie, intese come filosofie sociali sistematiche, è legato alla trasformazione del sapere e in particolare all’emergere del sapere scientifico come elemento centrale nella definizione e nella risoluzione delle questioni al centro della società postindustriale. Il nuovo ordine sociale, emerso con la fine della centralità del conflitto di classe, ha trovato nel sapere scientifico un elemento funzionale alla propria concezione dei compiti della politica. Ciò ha favorito l’emergere di una cultura politica caratterizzata: 1) dal diffondersi di un atteggiamento di tipo pragmatico che ha preso il posto dell’adesione ad obiettivi ideali e astratti o meglio non scientificamente dimostrabili o dimostrati, 2) dal prevalere di un sentimento di indifferenza che ha preso il posto del più classico modo "emotivo e intenso" di rapportarsi alle questioni politiche, 3) dal delinearsi di una predisposizione alla "apertura cognitiva" che prende il posto del dogmatismo o, in altri termini, di un atteggiamento in cui si privilegiano le credenze che risultano aderenti ai fatti, e 4) dal diffondersi di un atteggiamento di disponibilità a rivedere continuamente le proprie opinioni politiche in base a nuove informazioni (Sartori 1987). Tali atteggiamenti fondamentali si sono inizialmente diffusi nelle élite per poi estendersi alla cittadinanza nel suo complesso, riformulando così in maniera radicale le rappresentazioni sociali della politica e dell’impegno politico.
Lo sviluppo di una cultura politica laicizzata ha provocato delle conseguenze a cascata sull’agire politico che, da un lato, ha perso sempre più ogni suo legame, tipico della politica ideologica tradizionale, con i fini collettivi, ormai ridotti a mere illusioni, per trasformarsi in una paziente gestione "tecnica" dell’ordinario; dall’altro lato, i ruoli e le funzioni dell’uomo politico e delle istituzioni politiche ereditate dalle rivoluzioni democratico-rappresentative del Novecento - partiti di massa, parlamenti, elezioni - sono diventati fondamentalmente quelli di mediare tra la miriade di interessi sociali non più riconducibili ad una unica rappresentazione del bene pubblico. La politica finisce, cioè, per assumere esclusivamente il significato di attività mediatoria e il politico diventa una sorta di specialista, un professionista della mediazione, ovvero della risoluzione dei conflitti tra i diversi gruppi sociali. La famosa "autonomia del politico", espressione entrata in uso nel dibattito italiano degli anni Settanta, esprime bene questa idea della politica come arte del saper governare, come scienza della mediazione tra gli interessi sociali.
A sua volta, l’importanza assunta dallo specialismo scientifico nei compiti politici evidenzia come accanto al politico-mediatore si profili un ruolo e una valenza politica anche per l’esperto, inteso come titolare di un sapere specialistico che offre la sua competenza nella definizione e nella risoluzione in termini tecnico-pratici delle questioni inserite dell’agenda politica. Via via che l’agire politico perde il suo carattere di lotta per ideali e fini collettivi e si trasforma in gestione delle politiche pubbliche, il sapere scientifico e tecnico sostituisce il tradizionale sapere ideologico nella definizione dei fini dell’azione politica. Questo processo di riformulazione delle tradizionali questioni politiche nel nuovo linguaggio del sapere scientifico e tecnologico è ben testimoniato dal significato nuovo dei compiti della politica che emerge, ad esempio, dagli studi delle public policies. Ogni tema dell’agenda politica viene cioè de-ideologizzato e riformulato in termini di policies, vale a dire viene privato di ogni implicazione valoriale e conflittuale e trasformato in un problema tecnico, per essere infine assegnato agli esperti, vale a dire a soggetti privi di diretta legittimazione democratica ma dotati di un elevato sapere specialistico.
Il principale vantaggio riconosciuto a questa radicale trasformazione della politica democratica è individuato nell’attenuarsi di quelle forme di fanatismo e di estremismo tipiche dell’adesione emotiva e dogmatica (l’ideologismo appunto) che ha accompagnato, e per certi versi esasperato, il conflitto politico nei decenni passati. Tuttavia, riducendo la politica a scienza della mediazione e a risoluzione tecnica di problemi cosiddetti neutri, l’agire politico sembra perdere ogni relazione con valori o scopi collettivi. La politica, non solo si fa "Palazzo", si chiude in sé con il suo professionismo e il suo specialismo "scientifico", ma rischia di smarrire ogni riferimento con il dibattito sul bene collettivo. Così facendo, l’attivismo politico finisce inevitabilmente per perdere ogni capacità attrattiva nei confronti del normale cittadino, e il riflusso nel privato, il disinteresse per la politica e per il dibattito sulla cosa pubblica ne costituiscono l’inevitabile corollario a livello societario. Con la conseguenza che dentro i circuiti tradizionali della partecipazione politica, e in particolare dentro i partiti, troveremo soltanto chi ha scelto la politica come ambito professionale oppure chi offre consulenza specialistica e tecnica - gli esperti. Si tratta di un processo ben evidenziato dall’evoluzione dell’organizzazione partitica dai cosiddetti partiti di massa della prima metà del Novecento, modellati attorno ad un progetto di radicamento nel sociale, ai recentissimi partiti di cartello, che hanno abbandonato il versante societario della loro azione e si sono "installati" dentro gli apparati istituzionali dello Stato. Se i primi erano costantemente rivolti a produrre occasioni di militanza da cui traevano le principali risorse per il loro mantenimento e la loro azione, i secondi invece rinunciano ad un rapporto simbiotico e di radicamento con determinati contesti sociali, per rivolgersi funzionalmente all’occupazione delle istituzioni dello Stato. E’ ben evidente quanto ciò cambi e profondamente le stesse logiche della militanza e le finalità del reclutamento, in particolare quello giovanile.
Ovviamente, la figura del politico di professione è sempre stata presente nelle democrazie moderne, anzi si tratta di un elemento per certi versi necessario per assicurare un carattere continuativo al sottosistema della politica, specialmente nei ruoli di vertice e a carattere prettamente istituzionale. La vera novità riguarda il fatto che ad avvicinarsi alla politica, e in special modo ai suoi attori istituzionali principali, i partiti, sono ormai soltanto coloro che hanno compiuto una scelta in termini di carriera. Le leve giovanili di partito sono, cioè, costituite esclusivamente da quella ristretta cerchia di individui necessari per assicurare l’indispensabile ricambio generazionale (Turi 1999), come testimonierebbe il fatto che i giovani iscritti nei partiti, oltre che essere percentuali piuttosto ristrette, sono immediatamente ed esclusivamente orientati verso la cosiddetta gestione organizzativa interna e non certo alla mobilitazione. Nel circuito della politica, la classica figura del militante e con essa anche l’impegno politico che potremo definire di tipo civico o comunque non finalizzato alla politica come scelta professionale appaiono sempre più marginali, principalmente perché ormai del tutto privi di senso per le stesse organizzazioni partitiche contemporanee. Quello che la politica chiede è la delega, mentre il coinvolgimento diretto, l’impegno personale o la militanza disinteressata non trovano alcun spazio o una loro valorizzazione adeguata nelle istituzioni partitiche.
Per certi versi parallela alla tematica della politica postideologica è la riflessione avanzata dallo studioso dei processi culturali Jean F. Lyotard (Lyotard 1981). L’ipotesi di Lyotard prende le mosse da un’analisi sul problema della conoscenza, ma le sue conclusioni possono essere estese anche al campo politico. Lo studioso francese parte con il distinguere tra conoscenza scientifica (connaissance) e conoscenza intesa in termini generali (savoir) costituita da enunciati etici, estetici e di altro tipo. Quest’ultima è anche definibile come conoscenza narrativa perché rivolta principalmente a dare un senso generale alle cose e in quanto tale è composta da enunciati di natura prescrittiva. Alla conoscenza narrativa è sempre spettato il compito di fornire, sotto forma di metanarrazioni (meta-récits) o filosofie della storia, i contenuti di legittimazione necessari alla stessa conoscenza scientifica, nel senso che l’impresa scientifica tende a giustificarsi, e dunque ad apparire legittima, perché vista essenzialmente come lo strumento necessario per la realizzazione dei fini individuati dalle metanarrazioni - fini che riguardano l’emancipazione e il progresso sociale oppure la liberazione dell’umanità (l’equivalente dell’emancipatory politics di Giddens). Il sapere viene cioè interpretato come funzionale alla società e ai suoi bisogni fondamentali, un concetto esprimibile attraverso le equazioni tra scienza e verità e tra verità ed emancipazione sociale.
Dalla crisi di queste idee fondamentali e fondanti, lo studioso francese fa derivare lo spartiacque tra società moderna, un modello societario sostenuto e alimentato dalle metanarrazioni, e società postmoderna, nella quale, invece, non rimane più traccia dei miti della modernità che si sono ormai ridotti a parole vuote. Se per Popper e per Von Hayek è stato l’emergere della moderna riflessione scientifica a privare le ideologie marxiste di ogni loro pretesa di validità, gettando la luce del sospetto sulla particolare filosofia della storia in esse contenuta (Popper 1983), per Lyotard è la trasformazione della ragione in scienza alla base di questa radicale crisi delle metanarrazioni (Kumar 2000). Se nella fase della modernità la ragione, intesa come sapere razionale, individuava il mezzo con cui era possibile motivare e aver fiducia nell’ideale di emancipazione e di progresso, nella postmodernità la ragione, attraverso la sua identificazione con il sapere scientifico, vale a dire con un metodo di conoscenza o meglio con un linguaggio composto da enunciati di natura descrittiva e denotativa, ha perso interamente ogni tipo di capacità "legittimatoria" (Lyotard 1981). La scienza, rimasta ormai unica padrona del campo della conoscenza restringendo il contenuto del savoir alla connessaince, viene come a privarsi di ogni possibile ambito legittimatorio. O meglio la scienza è come chiamata a legittimare se stessa, con risultati altamente paradossali. Nel momento in cui, a partire dalla fine del secolo XIX e con maggiore sistematicità a partire dagli Cinquanta, gli strumenti della scienza si applicano, in una sorta di autoriflessività, alle sue stesse fondamenta, alle metanarrazioni, queste vengono sistematicamente spazzate via, privando così la conoscenza scientifica di ogni sua possibile base di legittimazione. "Per quale ragione dobbiamo credere all’emancipazione o al progresso?" "Quali sono le basi scientifiche, argomentative di queste affermazioni"? Sono queste le domande, su cui si è concentrato il sapere critico da Nietzsche a Wittgenstein fino a Feyerabend, che hanno dissolto ogni fiducia sui miti della modernità. La condizione postmoderna è dunque principalmente un effetto paradossale dello stesso sviluppo del sapere scientifico il quale lungi dal produrre maggiori certezze, le ha invece ridotte: "Specificando al massimo, possiamo considerare "postmoderna" l’incredulità nei confronti delle metanarrazione. Si tratta indubbiamente di un effetto del progresso scientifico; il quale tuttavia presuppone a sua volta l’incredulità" (Lyotard 1981, 6).
In estrema sintesi, il sapere scientifico neopositivista ha colpito a morte l’ideologia marxista e le dottrine ad essa collegate, ma l’idea di assegnare alla scienza i progetti di emancipazione e progresso sociale appare a sua volta messa radicalmente in discussione da un duplice processo di riflessività della scienza: da parte, l’azione di un sapere critico - Feyerabend, Kuhn, i post-strutturalisti francesi - che ha usato la scienza contro la scienza stessa e ne ha minato in questo modo le fondamenta epistemologiche (cfr. Kumar 2000); dall’altra parte, le conseguenze della riflessione scientifica indirizzata alle stesse applicazioni della scienza che hanno evidenziato il carattere discontinuo dell’impresa scientifica, soprattutto in termini di crescente produzione di rischi e incertezze piuttosto che di progresso e di maggiori benefici per l’umanità (Giddens 1994; Beck 2000a).
Per Lyotard il declino delle ideologie politiche non è altro che il corrispettivo politico di questo più ampio fenomeno della caduta di fiducia nelle metanarrazioni del sapere. Le grandi "narrazioni" relative al progresso umano, alla ragione, all’emancipazione sociale, alla base dell’impresa scientifica moderna, sono anche i principi costitutivi delle dottrine liberali, democratiche, socialiste e comuniste, con i rispettivi partiti e movimenti. La condizione postmoderna indica dunque l’apertura di una fase di crisi dei principi di legittimazione, sia in campo conoscitivo sia in campo politico. In tale vuoto si profila l’emergere della performatività come nuovo principio di legittimazione: la scienza, lungi dal promettere progresso o emancipazione, si trasforma in uno strumento rivolto unicamente a soddisfare bisogni sistemici. La performatività diventa il principio tipico delle società informatizzate, in cui la conoscenza viene costantemente ridotta a quantificazione, nonché impiegata come valore di scambio, e in cui il vero si ridefinisce in termini di efficienza ed operatività. La stessa previsione può essere applicata alla società nel suo complesso, più precisamente al problema della legittimazione del legame sociale o, se si vuole, al problema politico della definizione della "società giusta". Nella società postmoderna, una volta scomparse le metanarrazioni che offrivano risposte a tali questioni centrali, la politica si è trasformata esclusivamente in attività "funzionale", la cui fonte di legittimazione è ancora una volta la performatività, il miglioramento delle prestazioni nei confronti di una società che, come vuole il gioco linguistico delle prestazioni e dell’efficienza, viene sempre più intesa come sistema. Ma una politica che si legittima in termini esclusivamente tecnocratici, oltre a perde qualunque riferimento a fini ideali e a scopi collettivi, rischia di non riconoscere alcuna importanza alle opinioni e alla partecipazione dei cittadini, trasformandosi in un incessante ricerca e esercizio della potenza da parte di una élite di professionisti.
3. Individualismo, tra crisi della partecipazione e nuove forme di politica
Questa riflessione principalmente incentrata sul mutamento delle idee politiche fondamentali sembra portare lontano dallo specifico problema delle trasformazioni della politica giovanile. In realtà, tra i due processi esiste un nesso piuttosto stretto. Le trasformazioni che investono la politica a partire dalle sue basi, diciamo così, culturali e poi strutturali non risparmiano le rappresentazioni sociali e i sistemi valoriali che sovrintendono al relazionarsi tra individuo e sfera politica. L’attivismo politico giovanile si trova come "schiacciato" tra il ridimensionamento della dimensione ideologica e della militanza politica, tendente a togliere senso e occasioni all’impegno politico personale, da una parte, e lo sviluppo di un "individualismo radicale" che toglie valore e significato a tutto ciò che unisce gli individui, dalle relazioni civiche fino ai legami che sorreggono la comunità democratica (Bellah 1995), dall’altra parte. In altre parole, l’individualizzazione e il "disincanto della politica", l’erosione dei contenuti culturali legati ai grandi fini e scopi collettivi in grado di motivare l’impegno politico nei singoli individui, agiscono come una sorta di "effetto generazionale" (Bettin Lattes, 1999) che condiziona la socializzazione politica dei giovani spingendoli, da un lato, a svuotare di senso e di contenuti l’ambito della militanza e, dall’altro lato, verso una "cultura dell’edonismo" o "del narcisismo" (Lasch 1998).
La relazione tra crisi delle ideologie e cultura individualistica giovanile può essere interpretata in termini bidirezionali. Il tramonto delle ideologie ha portato con sé la fine di ogni tensione politica, nonché la perdita di centralità della politica nella vita del singolo individuo. Nella società postmoderna, il progressivo sgretolarsi delle fondamenta giustificative che stanno alla base dei progetti, dei valori e degli ideali politici moderni rende sempre più difficile promuovere progetti e ideali politici perché non c’è modo di motivarli in maniera argomentata, di farli riconoscere come "fondati", universali e dunque degni di essere perseguiti. Di conseguenza, si sostiene, alla condivisione dei fini si sostituisce il soggettivismo etico o, addirittura, dal nichilismo, tutti atteggiamenti che preparano il terreno all’indifferenza e alla disattenzione verso le istituzioni e i simboli politici. Inoltre, la presenza di una generazione individualistica rende del tutto anacronistica l’offerta di fini collettivi o di certezze ideologiche da parte di movimenti e di partiti politici, quasi un tentativo di offerta di beni di mobilitazione che è destinato ad essere perdente in partenza sia in termini di risultati elettorali sia in termini di coinvolgimento di base. Alla politica, le giovani generazioni chiedono ormai solo la gestione delle policies e non una risposta alle questioni relative all’identità, ai valori da adottare e ai contenuti dell’etica pubblica.
La diagnosi sottesa a questa linea interpretativa è semplice: mancano grandi cause per cui combattere, i giovani non hanno delle certezze ideali e morali a cui affidarsi, o non hanno più fiducia sul fatto che esista una direzione finale dell’azione politica - tradizionalmente indicata dall’uso di termini come "emancipazione" - di conseguenza le nuove generazioni abbandonano il campo della politica.
Tuttavia, non è affatto necessario leggere il processo di depotenziamento dei tradizionali sistemi simbolici della politica in termini di scomparsa dell’impegno politico. La crisi delle ideologie fa diventare certamente più problematiche le rappresentazioni sociali della politica, ma non elimina del tutto il ruolo dell’attivismo politico. Anche l’individualismo, lungi dall’essere esclusivamente sinonimo di chiusura egoistica, può essere letto come un processo che trasforma l’identità politica da tratto sociologicamente determinato ad onere che ricade interamente sul singolo e sulle sue scelte autonome. Non si nega che l’individualismo delle generazioni giovanili renda meno meccanico e scontato il rapporto con la politica, ma non per questo i giovani sono necessariamente spinti a perdere ogni capacità di dedizione a cause collettive, e a ridurre il mondo che conta al proprio ambito personale. L’individualismo, lungi dal sovrapporsi con l’egoismo, può anche essere inteso come ideale morale, come desiderio di ricerca della propria autenticità e autorealizzazione e in quanto tale non appare in contrasto con l’impegno politico e l’azione collettiva (Taylor 1999). In questa diversa ottica, l’emergere della soggettività giovanile opera più nella direzione di riformulare le ragioni individuali dell’impegno politico e, di conseguenza, anche le sue modalità realizzative, piuttosto che nella direzione di una completa rinuncia all’impegno personale.
E’ a questo processo di riformulazione delle matrici culturali della politica che occorre guardare per costruire un giudizio più equilibrato sull’impegno giovanile. Se ci rapportiamo alla politica giovanile attraverso le lenti della cultura politica tradizionale, misurando cioè il coinvolgimento politico di una generazione attraverso il suo spessore ideologico, la certezza nell’identificazione rispetto al tradizionale asse destra/sinistra, il tasso di iscrizione ai partiti, la frequenza agli appuntamenti elettorali, il livello di informazione sui leader politici, la fiducia nelle istituzioni rappresentative, la conclusione a cui si giunge è quella di un diffondersi inesorabile di disinteresse e di chiusura egoistica. Ma si tratta di un dato in gran parte fuorviante, perché la radicale riscrittura della "cultura dell’impegno" sta spostando su ben altre coordinate la politica giovanile. Quella che appare essere una crisi di partecipazione è in realtà soltanto un distacco da una forma politica che ha ben poco da offrire per un impegno politico che deve necessariamente declinarsi in termini di autenticità e di autorealizzazione personale per essere in sintonia con l’attuale esperienza giovanile. Le giovani generazioni si fanno portatrici di un bisogno di radicale riformulazione della politica e del modo di fare politica in cui risultino profondamente riscritti, se non del tutto abbandonati, gli elementi tipici dell’esperienza politica tradizionale. La centralità dell’individuo e la riscoperta della soggettività costituiscono il filo conduttore di questa riformulazione della politica e delle forme di coinvolgimento politico.
Sono diverse le possibili forme politiche alternative scaturite dall’impegno politico delle nuove generazioni. La prima forma è quella che potremo definire della politica dei sentimenti (Turnaturi 1991; 1999). Si tratta di forme di coinvolgimento le cui motivazioni non riposano più nell’adesione a sistemi ideologici oppure nella spinta derivante da un astratto ruolo civico, bensì proprio da elementi maturati nella sfera del privato: elementi tipicamente privatistici, come i sentimenti e le emozioni (Manconi 1990), i legami familiari e quelli di amicizia (Sciolla 1991). In altre parole, nel mondo giovanile, quel "privato" che nelle analisi sociologiche tradizionali appare esclusivamente foriero di disinteresse verso la sfera pubblica è invece in grado di svolgere un ruolo fondamentale nel far crescere la consapevolezza civica e nello stimolare un incontro tra politica ed esperienza giovanile.
La seconda forma politica può essere rintracciata nel modello della politica della vita (Giddens 1997) e delle strategie esistenziali (Hitzler e Pfadenhauer 1999). Si tratta di un modello di politica che affonda le sue radici nell’affermarsi della affluent society, un nuovo ordine sociale in cui gran parte degli obiettivi di emancipazione e di liberazione da parte dell’individuo dalle istituzioni sociali tradizionali si sono realizzati. In questa trasformazione, tuttavia, la dimensione della politica piuttosto che ridursi, come conseguenza dell’esaurirsi dei vecchi compiti, si è paradossalmente ampliata. Si sono aperte le condizioni per la politicizzazione del quotidiano, vale a dire le condizioni per la nascita di controversie relative a tutte quelle questioni, come la vita domestica, le relazioni tra i generi, le concezioni del corpo et alia, che in passato non erano oggetto di conflitto politico perché regolate da istituzioni non politiche - la morale tradizionale, la religione, l’ordine "naturale". Si tratta di controversie che possiamo definire "ad alto contenuto politico" perché riguardano temi e cambiamenti che incidono in maniera significativa sull’ordine sociale, oltre al fatto che richiedono alla fine un intervento regolativo in ambito politico. Emergono così "forme politiche di tipo esistenziale" (Hitzler e Pfadenhauer 1999) che riguardano la possibilità di costruire le proprie biografie in maniera del tutto sganciata dalle eredità sociali. Le politiche della vita e le strategie esistenziali appaiono strettamente intrecciate alle esigenze dell’individualizzazione e della soggettività giovanile, poiché vertono principalmente su questioni attinenti alla sfera privata - come la nascita, la morte, il corpo, la sessualità, la responsabilità verso la natura - vale a dire temi strettamente attinenti al bisogno di autenticità personale e di autorealizzazione individuale. Si tratta poi di questioni in cui la politica tradizionale si trova come "spiazzata", impossibilitata ad intervenire in via preventiva ma costretta a rincorrere processi di mutamento già avviati dall’azione di ben altri attori, come i movimenti sociali (Beck 2000a).
La terza forma politica è contenuta nell’ipotesi della politica dell’identità (cfr. Gitlin 1993). Per politica dell’identità si intende un tipo di politica i cui compiti non sono più quelli di natura distributiva, vale a dire limitati alla sola allocazione delle risorse e dei beni materiali, bensì si estendono a quello che viene definito il problema del riconoscimento. Politicizzare le identità dei soggetti significa, in primo luogo, individuare e mettere in discussione gli stereotipi e le norme che tendono ad identificare certe identità sociali come devianti; significa portare sul terreno della politica questioni del tutto inedite come quelle legate alla corporeità, ai simboli sociali e al linguaggio. In secondo luogo, politicizzare l’identità significa anche promuovere la politica della differenza o del riconoscimento (Taylor 1999), vale a dire spostare l’attenzione dell’impegno politico sulla questione del riconoscimento della differenza e delle identità come quelle legate al genere, all’etnia, alla religione. Le controversie che nascono su questo terreno assumono una configurazione "politica", oppure producono forme politiche postmoderne rivolte a mettere in discussione i codici e le convenzioni costruite socialmente e culturalmente, come nel caso delle controculture giovanili. Anche in questo caso è evidente l’intreccio che si viene a creare tra politica e bisogno di autenticità: la politica diventa il terreno privilegiato per affermare la propria identità e per avanzarne istanze di riconoscimento.
La quarta forma politica consiste nel cosiddetto modello del lavoro di impegno civile (Beck 2000b). Si tratta di una forma di impegno politico, principalmente incanalata nelle associazioni del cosiddetto volontariato sociale, che non è più motivata dal tradizionale senso del dovere, dall’altruismo di matrice cattolica e nemmeno dal principio ideale del bene comune, bensì da elementi come l’"essere attivi", "dare senso alla vita", "vivere una vita più interessante", in breve da elementi che riguardano direttamente il bisogno di autorealizzazione. "E’ proprio questo tanto vituperato individualismo - e non il tradizionale senso del dovere! - a racchiudere un tesoro ancora nascosto di disponibilità all’impegno, un immenso "capitale sociale" sopito nella nostra società" (Beck 2000c, 218). L’impegno civico muta pelle e si trasforma in un’attività che non è più la tradizionale militanza con la sua natura di attività disinteressata, gratuita, quasi una forma di sacrificio individuale. Piuttosto esso diventa fonte di autorealizzazione, e assume anche i contorni dell’attività lavorativa retribuita.
In tutte queste forme politiche, l’individualismo, lungi dal tradursi in allontanamento dalla politica, si trasforma in un fenomeno che può essere assunto come una valida risorsa per l’impegno politico e lo sviluppo di una consapevolezza civica nel mondo giovanile. In questo senso non è né egoismo né adesione al consumismo, bensì qualcosa di profondamente morale (Taylor 1999; Beck 2000b) e in quanto tale non è affatto antipolitico o impolitico.
4. Una nuova cultura della partecipazione: un breve dibattito
Alla nuova politica giovanile, nelle sue diverse forme sopra descritte, sono state mosse diverse critiche. Di fronte a coloro che enfatizzano gli aspetti di innovazione e di libertà contenuti nella politica giovanile, altri studiosi hanno individuato una lunga serie di limiti e di problemi. Un primo gruppo di critiche verte sulle implicazioni semantiche delle forme di coinvolgimento politico giovanile. Si fa notare come la nuova politica giovanile abbiano poco a che fare con la politica, in quanto riguarda soprattutto modalità di azione che si dovrebbe definire "sociali" e non strettamente "politiche": in molte delle interpretazioni relative alle nuove forme della politica giovanile è evidente la tendenza ad operare una sorta di "stiramento concettuale" (Armillei e Tirabassi 1992) dei concetti di partecipazione politica e di impegno politico allo scopo di ricomprendere fenomeni, come ad esempio l’azione volontaria o la "cultura del servizio", che riguarderebbero in realtà l’impegno sociale o l’impegno pubblico.
Un secondo gruppo di critiche nega che sia così facile e immediato leggere in termini di riformulazione dei codici politici le attuali preferenze giovanili in tema di impegno. Ad esempio, l’insistenza sulle modalità politiche differenti e la tendenza a trascurare le più tradizionali questioni di emancipazione e liberazione possono essere lette come espressioni di un sostanziale disinteresse giovanile piuttosto che come occasioni per esplicitare una maggiore soggettività (Garelli 1998). Allo stesso modo, l’insistenza sullo stile, sul modo di fare le cose, sulla pratica quotidiana piuttosto che sugli obiettivi finali, può essere benissimo letto come un pericoloso vuoto programmatico e di riferimenti generali nella politica giovanile. In altre parole, il prevalere di una prospettiva interpretativa in cui l’esperienza politica è principalmente vista come occasione per una crescita della consapevolezza personale e della propria "soggettività" potrebbe impedire di cogliere come sotto le spoglie di una politica intesa come espressione di autonomia personale o occasione di socialità si nasconda una sostanziale incapacità da parte dei giovani di confrontarsi sul piano delle conseguenze e dei risultati dell’impegno politico, un fatto che ne testimonierebbe l’impotenza politica (Ricolfi e Sciolla 1980).
Un terzo gruppo di critiche, infine, anche ammettendo che una radicale trasformazione sia effettivamente in atto, appare poco convinto delle valenze positive in genere riconosciute alla nuova politica giovanile. Tra l’altro, si sostiene che tali forme di impegno, lungi dall’aumentare le occasioni di coinvolgimento giovanile, di fatto agiscano nel senso di sottrarre risorse ed energie vitali alle forme di partecipazione politica che contano, segnatamente quelle partitiche (Segatti 1990). L’idea è che con l’ampliarsi della politica individualistica giovanile si stia assistendo ad un vero e proprio "spreco" di risorse di partecipazione, e ad un "prosciugamento" dei flussi partecipativi nei canali politici principali. A causa dell’enfasi sull’individualità e sulla soggettività, l’impegno giovanile resta di fatto come rinchiuso nel personale o al massimo nella logica del piccolo gruppo, senza riuscire mai a dare luogo ad identità collettive durature - come abbondantemente dimostrato dai movimenti studenteschi degli anni Novanta, incapaci di dotarsi o più semplicemente di finalizzarsi alla costruzione di forme associative stabile. In queste nuove forme di impegno collettivo quello che conta è essenzialmente la possibilità di alimentare la diversità di vedute tra i partecipanti e non la convergenza sui fini o lo sviluppo di un’appartenenza comune tipica dei partiti o, in generale, delle associazioni politiche tradizionali. In altre parole, si riconosce il fatto per certi versi inevitabile che la politica giovanile tenti strade diverse, come conseguenza di una carenza di beni ideologici o come risposta adattiva al processo di individualizzazione, ma non per questo, avvertono alcuni critici, la fragilità e la precarietà di queste forme di attivismo politico vengono meno (Segatti 1991).
Le critiche sono serie e costituiscono un’occasione per mettere meglio a fuoco le caratteristiche della nuova politica giovanile. Una risposta richiede una preliminare valutazione di quanto sia profonda e radicale la ridefinizione della politica apportata dall’individualismo e dalla soggettività giovanile, pena l’impossibilità di cogliere quanto sta avvenendo. Alcune delle critiche sopra menzionate prendono le mosse da una distinzione fondamentale tra l’azione politica, intesa come costruita attorno ad una funzione allocativa della politica e consistente nella distribuzione di beni collettivi attraverso decisioni vincolanti per tutti, e l’azione di volontariato, intesa come modalità allocativa di risorse ma del tutto priva di elementi di contatto con il processo politico. Quest’ultima si definirebbe più esattamente in termini di "altruismo sociale" (Melucci 1990) o di "dono asimmetrico" (Ranci 1990). La distinzione, tuttavia, dimentica come in tempi recenti anche l’azione dei gruppi di volontariato tenda sempre più a non estrinsecarsi esclusivamente sotto forma di "solidarietà non conflittuale" e come "azione di servizio" lontana dalla sfera in cui si compete per la distribuzione delle risorse - la sfera politica. Infatti, senza per nulla dimenticare l’azione di servizio, la pratica di parecchie associazioni giovanili di volontariato "non si sottrae alle vertenze e ai conflitti … concentrati prevalentemente sul sistema politico-amministrativo" (Manconi 1990). In generale, comunque, tali critiche sono poco convincenti perché restano legate ad una definizione della politica e della partecipazione politica che si adatta esclusivamente alla politica procedurale, alla politica ufficiale e corporativa (Giddens 1997; Hitzler e Pfadenhauer 1999; Beck 2000a) o politica degli interessi (Bellah 1995). La politica viene intesa, cioè, come un’azione di solidarietà volta a modificare gli esiti dei processi decisionali istituzionali centrali, vale a dire tutte le azioni e le pressioni rivolte a far sentire la propria voce dentro i meccanismi procedurali, istituzionali e ufficiali. Si restringe, così, già in partenza il campo dei significati della politica a quello procedurale e di mediazione corporativa di interessi.
Molte critiche non sembrano tenere adeguatamente in conto la discontinuità che caratterizza l’impegno politico giovanile odierno rispetto al modello della militanza politica, specialmente di sinistra, dei decenni passati. L’individualismo presente nella cultura giovanile agisce nel senso di riscrivere profondamente l’impegno politico tradizionale sia dal punto di vista delle sue modalità organizzative sia dal punto di vista, diciamo così, culturale, vale a dire dei significati e delle motivazioni di fondo. Dal punto di vista organizzativo, l’individualismo giovanile sancisce una visione critica, o addirittura il rifiuto, delle classiche e tradizionali modalità di impegno politico come la militanza partitica o sindacale. L’individualismo spinge, infatti, i giovani a preferire forme di impegno politico in cui possano conservare il controllo e l’autonomia della propria azione e, di conseguenza, a tenersi alla larga dalle gerarchie e dalle logiche burocratiche tipiche degli apparati di partito. Le preferenze giovanili vanno verso una modalità di impegno nei movimenti oppure legate al mondo dell’associazionismo civico. Agli occhi dei giovani, che sono poi la parte più consistente della loro membership, i movimenti permettono una maggiore spontaneità ed una più significativa autonomia nel coinvolgimento politico. Il mondo associativo e i piccoli gruppi, da parte loro, garantiscono un impegno più flessibile e autodiretto. Si tratta di forme esplicative dell’impegno politico che, a differenza dei partiti, vanno cioè incontro alle esigenze della cultura individualista e soggettiva presente nei giovani.
Dal punto di vista culturale, l’individualismo giovanile modifica radicalmente la visione classica dell’impegno pubblico. Si rifiuta l’idea, tipica della militanza tradizionale sia di sinistra sia cattolica, che l’impegno significhi necessariamente sacrificio di sé e l’obbligo di operare delle rinunce rispetto alla propria individualità; oppure comporti dedizione completa. Al contrario, l’impegno viene inserito dentro un’ottica più legata alla soddisfazione personale, alla gratificazione immediata, in cui si ridà centralità all’individuo e alle sue esigenze di autorealizzazione. La politica giovanile riesce a conciliare e a mettere insieme due elementi in genere consideratati in opposizione, vale a dire l’autorealizzazione e l’impegno per gli altri, dentro una formula che può essere definita di "individualismo altruista" (Beck 2000b). In secondo luogo, si respinge l’idea che l’impegno significhi necessariamente appartenenza ad una qualche organizzazione politica, in special modo partitica. Al contrario, l’impegno politico può estrinsecarsi in forme assai diverse, senza che la stessa "non appartenenza" indichi automaticamente passività e rifiuto della politica.
In terzo luogo, si mette in discussione che l’impegno politico comporti automaticamente l’adesione ad un progetto ideologico definito. Questo rifiuto di un compattamento ideologico produce, da un lato, lo spostamento di attenzione dal contenuto ideologico e dagli scopi ultimi al modo di fare le cose e alla pratica quotidiana, che diventano l’autentico perno su cui gira il rapporto tra identità personale e coinvolgimento politico; dall’altro lato, favorisce una presa di distanza da qualunque ideale di miglioramento predeterminato e a valenza collettiva. In questo modo, la politica individualista e soggettiva dei giovani non soltanto critica i modelli culturali dominanti, ma si rivolge anche contro la vecchia contestazione, contro i "critici di professione" (Hitzler e Pfadenhauer 1999) della vecchia sinistra, di cui si mette in discussione il monopolio del significato ultimo dell’impegno e della politica. La critica, il dissenso, o anche l’aperto rifiuto, per certi aspetti della società continuano cioè ad essere presenti in buona parte della politica giovanile, specialmente nella controcultura di sinistra, ma non appaiono più motivate dall’adesione ad una specifica ideologia, piuttosto sono alimentate da più ampi e sfumati riferimenti culturali (Rebughini 2001).
Infine, viene ridefinito il rapporto tra privato e pubblico. Nella politica tradizionale l’impegno si collocava nella sfera pubblica e si definiva in termini antitetici rispetto al privato, che indicava invece l’area del disimpegno in quanto inteso essenzialmente come privacy (Turnaturi 1999). Nella politica giovanile tale distinzione non regge più, in quanto le due sfere appaiono alquanto interconnesse e non più rigidamente separate: l’impegno politico prende corpo all’interno di un contesto che assume contorni "privatistici" grazie appunto all’essere strutturato anche attraverso legami amicali e affettivi. Inoltre, lungi dall’essere fuorvianti rispetto alla sfera politica, i temi del privato alimentano le motivazioni dell’impegno politico. Vicende strettamente personali di deprivazione o di sofferenza vengono reinterpretate nell’ottica della difesa di valori universali e alimentano l’impegno del singolo individuo in campagne di sensibilizzazione collettiva e di pressione politica. In altri termini, l’impegno pubblico personale è basato ampiamente sugli investimenti affettivi del singolo (Turnaturi 1991). Una ulteriore prova della ridefinizione dei rapporti tra pubblico e privato è data dalla fine della netta distinzione tra le vittime delle ingiustizie sociali e coloro che si mobilitano in loro favore. Le nuove forme politiche vedono infatti il protagonismo diretto delle vittime del disagio, il cui impegno affonda le radici nel proprio vissuto e in cui la ricerca di una soluzione non passa attraverso azioni individualistiche e privatistiche, come l’attivazione di reti clientelari, ma attraverso le forme della politica democratica, costruendo così nuovi "discorsi pubblici".
Diventa allora fondamentale, prima di passare al differente e delicato problema di misurare l’ampiezza della popolazione giovanile politicamente attiva, adottare altre concezioni della politica, pena l’impossibilità di studiare gli effettivi percorsi relazionali tra giovani e politica e di ridurre l’analisi ad un perentorio giudizio negativo su un’intera generazione che invece appare tutt’altro che alienata dalle dimensioni collettive del vivere sociale.
Riferimenti bibliografici
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