Home | La rivista | Ricerca | Autori | Approfondimenti | I nostri link | Iniziative | Forum | Servizi | Chi siamo

 

SAGGI

Individuo e comunità: una questione mediterranea

di Andrea Spreafico


1. Convivenza mediterranea

La popolazione degli Stati che si affacciano sul Mare Mediterraneo supera i 420 milioni di persone; una cifra che mostra da sola la rilevanza di questo antico crocevia di culture per chi voglia studiare gli effetti che macro processi quali quelli di globalizzazione e quelli migratori hanno sulla convivenza umana.

L'importanza dell'area - per un dibattito che vede impegnate le scienze sociali nel comprenderne le dinamiche di conflitto reali e potenziali - è inoltre immediatamente evidente se osserviamo la grande varietà di gruppi etnici e religiosi presenti al suo interno, così come all'interno di molte delle singole società che la compongono1.

Per questi motivi possiamo parlare del Mediterraneo come di un laboratorio in cui sperimentare problemi che troviamo in tutto il resto della Terra e che hanno a che fare con lo sviluppo e con il superamento dei conflitti, ma anche con il semplice passaggio da coesistenze a convivenze. Da questo laboratorio e dagli incontri oltre confine possiamo attenderci dei suggerimenti per far sì che il nostro mare non rimanga solo uno "stato di cose" ma divenga un "vero progetto" (Matvejević 1998, 26) e forse anche qualcosa di più.

Un importante stimolo a fare del Mediterraneo un progetto che accomuni tutte le sue popolazioni ci è fornito ad esempio da Ulrich Beck. Il sociologo tedesco auspica la realizzazione di un dialogo transnazionale in vista di una società cosmopolitica che sia in grado di rispondere alle sfide proposte dalla seconda modernità. Il rischio ambientale e tecnologico, quello occupazionale, la perdita di legittimità dello Stato, il crollo dei mercati finanziari globali sono solo pochi esempi dei settori in cui può essere attuata una "condivisione del rischio" senza frontiere. Le comunità postnazionali potrebbero essere costruite come "comunità del rischio": potenziali comunità politiche che diano una definizione comune dei gradi appropriati di rischio. Lo stesso Beck (2000, 23) indica nei trattati ecologici regionali conclusi tra gli Stati bagnati dal Mediterraneo un esempio di tali comunità di condivisione con valori e obiettivi cosmopolitici.

Un progetto così ambizioso deve però prima confrontarsi con le differenze esistenti tra i popoli, economiche e culturali. A mio giudizio, infatti, la condivisione del rischio presuppone una comprensione dell'altro che la precede logicamente.

In quest'ottica mi propongo di svolgere qui una breve riflessione a partire da tre concetti (appartenenza, comunità e natura umana) attraverso i quali ritengo sia possibile aggiungere un piccolo elemento in più al dibattito sulla convivenza. L'interrelazione tra questi tre elementi può fornire spunti per pensare con maggiore fiducia ad aggregazioni più vaste di quelle immaginabili sotto la spinta delle opposte chiusure che ostacolano il dialogo Sud - Nord e Oriente - Occidente.

Tali chiusure presentano aspetti economici e religiosi di cui bisogna tenere conto. Lo fa, ad esempio, Franco Cassano (1996) quando ci ricorda l'errore che compiremmo riflettendo sul rapporto tra culture se non considerassimo il condizionamento che la cultura più forte esercita su quella più debole. Il modello economico, politico e culturale produttivistico e consumistico occidentale, indipendentemente dalle valutazioni che se ne possono dare2, tende ad espandersi attraverso l'imposizione del valore sviluppo economico, trascurando in gran parte le altrui differenze. Un risultato può essere la prostituzione della cultura subalterna, un altro la reazione integralista attuata attraverso la rivalutazione della tradizione religiosa e l'assolutizzazione dei suoi dogmi, in cui religione e politica tendono a mescolarsi.

Se il pensiero meridiano suggerisce di mettere in discussione l'intolleranza del modello occidentale, che "costringe tutti gli altri a cambiare per poter sopravvivere" (ivi, 75), io vorrei discuterlo prendendo in considerazione uno dei suoi aspetti: la concezione individualistica dell'uomo. Pensare gli individui a prescindere dai loro legami e dalle loro appartenenze, intendendoli a priori come libere entità separate, permette più facilmente di concepire lo sviluppo mettendo da parte i differenti principi organizzativi di chi non è ancora come noi. Se si vedono solo individui slegati è meno problematico concepirli come oggetti della colonizzazione, spesso ignorando la ricchezza delle loro tradizioni e del loro modo di pensare (è quando ci sforziamo di conoscere che spesso cominciamo, in ritardo, ad apprezzare).

 

2. I legami del singolo

Tra le critiche che i filosofi neo-comunitaristi - Alasdair MacIntyre, Michael Sandel e Charles Taylor tra gli altri - muovono alla teoria politica liberale vi è quella all'ipotesi, sostenuta da alcuni suoi esponenti, per cui ogni individuo va considerato come un'entità separata che "cerca di massimizzare i propri vantaggi operando scelte libere, volontarie e razionali, che non sono il prodotto delle influenze, delle esperienze, delle circostanze e delle norme connesse al contesto sociale e culturale" (de Benoist 1994, 7). L'individuo liberale non è mai definito dalle sue appartenenze, che possono essere sempre modificate e mutevoli e dalle quali ci si può sempre distaccare, poiché esistono solo associazioni volontarie frutto dell'incontro dell'autonomia degli interessi individuali.

Per i neo-comunitaristi un'idea presociale dell'io è sbagliata. Le appartenenze comunitarie degli individui sono costitutive della loro personalità. Per Sandel3 l'individuo viene plasmato dalla società in cui nasce, l'io è situato ed incarnato in una comunità che "è alla base delle scelte che egli effettua, nella stessa misura in cui contribuisce anche a fondarne l'identità: le istituzioni, i fatti sociali, le chiese, la famiglia, i sistemi politici ed educativi costituiscono la persona sin dall'infanzia" (ivi, 17). Secondo MacIntyre4 ciascuno si concepisce sempre come portatore di un'identità sociale specifica (che può essere quella di figlio, cittadino, appartenente a una data nazione o a una certa professione e così via). Per i comunitaristi l'io viene scoperto più che scelto, dato che ogni individualità è costituita da una serie di circostanze naturali e sociali date, che in parte determinano anche i suoi valori.

Anche sotto il versante della psicologia e della sociologia troviamo elementi che ci portano a constatare come l'appartenenza, in quanto bisogno individuale di "sentirsi parte" di un collettivo, sia un bisogno umano fondamentale. Già Charles Horton Cooley5 richiamava l'attenzione sul fatto che l'individuo non può concepire un'idea di sé senza fare implicitamente riferimento ad altri. L'identità di un individuo si forma anche attraverso il riferimento al gruppo o ai gruppi con cui entra in contatto. Erik Erikson6 ha chiarito come la possibilità di trovare riconoscimento in comunità e gruppi sociali più estesi permetta all'individuo, attraverso la valutazione e l'identificazione da parte di altri, di sviluppare l'autoriconoscimento e la capacità di integrare e ordinare gerarchicamente la molteplicità dei ruoli. Sono solo due esempi tra quelli che si potrebbero fare per mostrare che l'autopercezione e l'altrui riconoscimento del nostro appartenere a un insieme più vasto a noi esterno rispondono all'esigenza della costruzione dell'identità del singolo. Anche per questo Amitai Etzioni (1995/1998) sottolinea l'importanza della comunità, dei legami e dell'impegno sociale nel mantenere l'integrità psicologica degli individui e propone il ristabilimento dell'equilibrio tra io e noi, nel tentativo di frenare la diffusione delle tendenze individualistiche ed egoistiche dell'epoca contemporanea.

Sempre Etzioni introduce un tema di grande interesse nell'ambito del discorso che sto portando avanti: quello della così detta natura umana. Se è vero, come asserisce la filosofia postmoderna, che le persone sono costruite artificialmente dalla loro cultura e che il nostro modo di percepire la natura umana è influenzato dal fatto che la osserviamo all'interno di un particolare ordine culturale, bisogna anche considerare il fatto che, "quando determinati attributi si ripresentano in tutte le culture, è probabile che siano un riflesso della natura umana più che di altri fattori" (ivi, 25). Il sociologo statunitense si mostra propenso a credere che il bisogno di legami sociali ed affettivi e l'esigenza di regole civiche e morali cui riferirsi sia radicato negli individui7.

Nel prossimo paragrafo mi occuperò proprio di questo scivoloso argomento, prima però vorrei ancora fare un riferimento alle critiche alla concezione dell'individuo nel liberalismo. Ho concentrato la mia attenzione su questo aspetto, lo ricordo, perché sono convinto che, diffusa com'è nell'agire economico e politico, rappresenti un ostacolo per il dialogo tra i popoli e per il loro reciproco riconoscimento.

Michael Walzer - più propenso a introdurre le correzioni comunitarie all'interno del liberalismo, in modo da fornirne una versione sociologicamente più informata e psicologicamente più aperta - ritiene che in termini ideali (cui però i liberali non sembrano tutti rifarsi in concreto) "il liberalismo contemporaneo non si richiami a un individuo presociale, ma solo a uno capace di riflettere criticamente sui valori che hanno determinato la sua socializzazione" (1995/1998, 63). Tuttavia, nella prima delle Horkheimer Lectures tenute a Francoforte nel 1998, il filosofo americano ritorna sul fatto che la teoria liberale raramente riconosce l'importanza delle associazioni involontarie. Alla gran parte degli individui capita di trovarsi già in quelli che poi risultano essere i gruppi più importanti cui sentiranno di appartenere e che non sono stati loro a scegliere8.

Walzer ricorda come noi non siamo nati liberi né uguali e, fin dalle prime fasi della nostra vita, siamo assoggettati a vincoli involontari che "ci sospingono verso associazioni di un certo genere, quando non ci obbligano a farne parte; e anche se in una società liberale è possibile infrangerli, limitano comunque il nostro diritto di andarcene" (1999/2001, 15). Il nascere membri di una data famiglia, di un certo paese, di una determinata classe sociale, oltre al fatto di nascere uomo o donna e, dopo non molto, di venire dotato (ad esempio attraverso il battesimo) di un'appartenenza religiosa, già determina, anche se neghiamo queste appartenenze, il genere di persone che frequenteremo per il resto della nostra vita. La successiva socializzazione familiare, religiosa, politica e l'esperienza quotidiana della classe e del genere spingono verso la formazione di certi tipi di associazioni e non di altre nell'età adulta. Le associazioni che formiamo nel tempo tendono a confermare le nostre identità; queste ultime sono per Walzer spesso doni dei nostri genitori e dei loro amici. Ovviamente il mutamento sociale si ha anche perché c'è chi si impegna nell'autoformazione, ma esiste una tendenza diffusa ad associarsi all'interno degli schemi della società e della cultura che già possediamo.

Il carattere culturalmente determinato delle forme disponibili di associazione, il frequente coinvolgimento negli ingranaggi di un sistema politico cui non abbiamo in genere scelto di appartenere (esistono chiaramente delle eccezioni) ed alla cui progettazione non abbiamo contribuito, i vincoli morali che proviamo e che ci spingono ad entrare in certe associazioni e a rimanere in determinate associazioni involontarie, riducendo la nostra supposta libertà di scelta, sono le ulteriori argomentazioni che Walzer propone a sostegno della sua tesi. La libera scelta dipende dalla comprensione dell'esperienza dell'associazione involontaria; la libertà individuale è assoggettata ai vincoli della realtà della vita in comune e delle nostre appartenenze9, ma possiamo chiamarla ancora libertà. Credo che il riconoscimento dei legami, vincoli o forse risorse, delle nostre identità rappresenti un passo importante nell'incontro tra le diversità.

Tale incontro ha certamente bisogno di un ambiente sicuro, di una riduzione delle condizioni globali di incertezza e di diseguaglianza che le politiche neoliberiste hanno contribuito in maniera importante a produrre (Bauman 1999/2000 e 2001) - condizioni che a loro volta generano un bisogno di comunità10. Tuttavia la sicurezza che può fornire la comunità non mi sembra necessariamente inconciliabile con la libertà individuale, così come la tutela della differenza non necessariamente coincide con il trascurare la lotta alle disparità di condizioni socio - economiche11.

 

3. Cultura, ragione e natura

Come ho accennato in precedenza, vorrei riprendere in questo paragrafo un argomento - quello della natura umana - necessariamente legato al discorso sin qui condotto. Anche se in questo campo è meglio muoversi in maniera estremamente cauta, ritengo che accennarvi possa risultare utile per orientarsi nel pensare l'individualità del singolo.

Esiste un acceso dibattito tra i sostenitori del relativismo e del culturalismo da una parte, quelli del naturalismo dall'altra, e quelli del razionalismo da un'altra ancora. I referenti intellettuali dei primi vengono ad esempio individuati in Nietzsche, Boas, Geertz, Rorty ed i comunitaristi. I secondi si rifanno alla sociobiologia, alle recenti scoperte della biologia molecolare, della biochimica, della neurofisiologia, della genetica comportamentale e dell'antropologia evolutiva12. Una posizione ancora diversa dalle prime due (le quali hanno a loro volta diversi punti di contatto) è quella di chi, come Raymond Boudon (che si ispira a Weber e a Tocqueville), vuole sviluppare una teoria razionalista dei sentimenti morali e dei valori umani.

Non è qui possibile delineare più approfonditamente la varietà delle posizioni ed i punti di scontro, mi preme però sottolineare che parte delle argomentazioni dei contendenti riguarda le origini del comportamento dell'uomo ed i suoi eventuali condizionamenti o risorse.

Ad esempio, Boudon (1999/2000) ritiene che i sentimenti morali siano fondati su "ragioni percepite come forti" dai soggetti sociali e che la causa di ciascuno di essi sia da cercare nelle ragioni che i singoli individui hanno nell'assumerli, all'interno del loro contesto cognitivo. Prendendo questa posizione egli si è impegnato duramente a criticare gli eccessi delle teorie culturaliste e di quelle naturaliste, che individuano nella cultura e nella socializzazione al suo interno, da un lato, e nella natura umana, dall'altro, i fattori condizionanti l'agire e la produzione dei valori.

In questo modo, indipendentemente dalle ragioni o dalle critiche che si possono muovere alle sue osservazioni, il sociologo francese finisce, a mio giudizio, per assolutizzare ingiustamente le differenze tra i tre approcci, mostrandone un'immagine di distanza ed inconciliabilità. L'interazione di cultura, natura umana e razionalità mi sembra invece spiegare più accuratamente il nostro comportamento. Il comportamento collaborativo negli esseri umani ha una base genetica (come vedremo più avanti) e non solo culturale (in una data cultura veniamo educati a collaborare e, a volte, a collaborare in un certo modo), tuttavia ciò non esclude che in determinate situazioni sia possibile ricostruire razionalmente le ragioni che ci hanno spinto a considerare giusto o utile collaborare. Ad esempio: ho le mie motivazioni coscienti per collaborare in una certa situazione e le riesco a ricostruire razionalmente in base alla percezione che ho di questa; allo stesso tempo sono stato educato a collaborare in situazioni simili e la mia azione solidale non è esclusivamente frutto di un mio autonomo ragionamento, poiché il mio modo di ragionare non è indipendente dalla comunità in cui vivo e sono stato educato; non devo inoltre dimenticare che in diversi casi tendo a collaborare (anche se non è detto che poi lo faccia) perché è nella mia natura. Dunque, se lo stesso Boudon sembra (ivi, 219) sostenere l'ipotesi diffusa che il culturalismo sia solito accompagnare una "sensibilità di sinistra" ed il naturalismo una "sensibilità conservatrice", mi sembra che anch'egli presuma a priori una visione dell'individuo tipica dell'impostazione liberale: un individuo puramente razionale, senza legami né condizionamenti, capace sì di comprendere la ragione delle sue scelte morali all'interno del suo contesto cognitivo, ma astraendosi da ciò che influenza la sua razionalità ed i suoi atteggiamenti.

Senza con questo voler appartenere a uno dei tre supposti schieramenti, vorrei indicare alcuni elementi relativi alla natura umana che mi sembrano utili per sviluppare un'idea dell'uomo che tenga in maggiore conto le sue inclinazioni spontanee.

Le scoperte della biologia della seconda metà del Ventesimo secolo portano ad affermare che esiste una natura umana. Come nel campo della linguistica studiosi del livello di Noam Chomsky e Steven Pinker hanno teorizzato l'esistenza di strutture innate universali di apprendimento del linguaggio, cioè facenti parte del nostro patrimonio genetico biologicamente determinato, così le scienze naturali sostengono l'esistenza alla nascita di strutture cognitive preesistenti - cosa per altro pensata già nel 1781 da Kant nella Critica della ragion pura. Per il filosofo di Königsberg nell'intelletto umano esistono a priori alcune categorie della conoscenza13 che precostituiscono il modo in cui ciascun individuo percepisce la realtà; ne influenzano cioè costantemente il modo di conoscere il mondo14. La variabilità culturale esiste ma è meno grande di quanto si potrebbe pensare trascurando i condizionamenti biologici.

Recentemente, all'interno di un suo studio sull'ordine sociale, Francis Fukuyama (1999/2001) ha riportato i risultati delle ricerche sin qui condotte sulla natura umana. Vorrei di seguito citare un passaggio che mi sembra significativo per comprendere l'interazione biologia - cultura.

Nessun biologo che si rispetti negherebbe l'importanza della cultura e il fatto che spesso essa esercita un'influenza in grado di prevalere su istinti e impulsi naturali. La cultura stessa - la capacità di trasmettere regole di comportamento da una generazione all'altra in modo non genetico - è legata indissolubilmente al cervello umano e costituisce una fonte notevole di vantaggio evolutivo per le specie umane. Tuttavia questa componente culturale giace su una sottostruttura naturale che limita e incanala la creatività culturale per popolazioni di individui. Ciò che la nuova biologia suggerisce agli studiosi dotati di buon senso non è il determinismo biologico, bensì una visione più equilibrata dell'interazione tra natura ed educazione nel foggiare il comportamento umano (ivi, 208).

Spesso è la cultura a mediare le nostre disposizioni genetiche e vi è continua interazione tra questi due elementi nell'orientare il comportamento umano.

Nel comprendere le strategie attraverso le quali si passa da interessi egoistici a risultati di collaborazione, la teoria economica dei giochi utilizza le idee di fondo di liberali classici come Hobbes e Locke, per i quali, anche se con diverse intensità e modalità, lo stato di natura è una condizione in cui gli uomini sono soli ed egoisti, senza ampi istinti sociali naturali. Secondo le conclusioni della biologia siamo invece per natura creature politiche e sociali con istinti morali. La socievolezza umana e le capacità di cooperazione non sono altruismo indiscriminato ma convivono con la tutela del proprio interesse personale15. L'altruismo e la cooperazione sociale possono risultare vantaggiosi per il singolo; il comportamento collaborativo negli esseri umani non è unicamente un prodotto culturale o una scelta razionale ma ha una base genetica. La naturale socievolezza dell'uomo, la creazione di regole ed il loro rispetto, la punizione di chi infrange le regole della comunità e la capacità di distinguere tra chi collabora ed i truffatori16 sono infatti geneticamente codificati nel cervello umano.

La natura dell'uomo non è quella di isolarsi e parte del comportamento sociale non è appresa. La posizione di chi vede l'individuo come solitario portatore di diritti, senza inclinazioni alla vita sociale, pronto a collaborare solo per perseguire i propri interessi individuali, non sembra descriverne bene le effettive inclinazioni. Quest'ultimo sembra invece organizzarsi spontaneamente in famiglie, tribù e gruppi di livello più elevato, all'interno dei quali danno prova delle virtù morali necessarie al loro mantenimento (cfr. ivi, 219). Gli uomini si organizzano naturalmente in comunità.

La socievolezza umana comincia con la consanguineità ma si manifesta anche tra i non parenti attraverso l'altruismo reciproco (le teorie biologiche in questo secondo caso si rifanno alla teoria dei giochi ed al dilemma del prigioniero: la reciprocità si sviluppa più facilmente nelle specie che hanno potuto interagire ripetutamente nel tempo, sono longeve e cognitivamente in grado di distinguere i collaboratori dai traditori17). L'altruismo reciproco non ha solo origini razionali e culturali ma potrebbe anche essere stato evolutivamente favorito dalle condizioni di vita in cui si trovava l'uomo primitivo. La competizione con altri gruppi ed il raggiungimento di vantaggi hanno anch'essi un ruolo nello stimolare la cooperazione.

Anche il comportamento morale non può essere spiegato solo razionalmente: le emozioni sembrano svolgere un ruolo importante nella scelta razionale. Riprendendo le ricerche del neurofisiologo Antonio R. Damasio18, Fukuyama ricorda che gli esseri umani, guidati da emozioni, "adeguano costantemente le loro azioni tenendo conto dei sentimenti degli altri" e che "il cervello produce numerosi segnali somatici, sentimenti di attrazione o repulsione emotiva che aiutano il cervello a fare i propri calcoli, eliminando molte delle possibili scelte che si trova davanti" (ivi, 239). Le azioni che compiamo seguono fini intrisi di emozione. Anche l'osservanza delle norme appare associata alle emozioni. Al riguardo viene spesso ricordato il "gioco dell'ultimatum", in cui il soggetto non agisce secondo il modello utilitarista della scelta razionale ma agisce trascurando i suoi interessi a breve termine, osservando la norma condivisa dell'equità - usando cioè quella che secondo il criminologo americano James Q. Wilson19 è una delle componenti del senso morale: il senso di equità. Il senso morale è a sua volta per Wilson un ingrediente cruciale della natura umana. Mi sembra però corretto dire che le norme morali di convivenza sono il frutto dell'interazione tra natura, ragione e cultura.

 

4. Pluralità delle appartenenze

A questo punto ritengo che l'individuo configurato dalle osservazioni fatte nei due precedenti paragrafi abbia delle caratteristiche tali da non poterne trascurare le appartenenze. Ognuno di noi è in continua interazione con altri, e spesso insieme ad altri (abbiamo visto alcuni dei motivi che comportano queste unioni); con molti di essi condividiamo una o più appartenenze. La religione, la lingua, l'etnia e le sue componenti identificative, la professione, gli interessi, la cultura, sono un esempio di ciò che ogni giorno ci unisce e ci divide. In condizioni di sicurezza e di bassa tensione l'individuo tende ad identificarsi con più di una comunità, a moltiplicare le appartenenze e a dividere ed attenuare le passioni. Invece, quando cerchiamo di annientare la naturale tendenza degli altri a mantenere le proprie identificazioni particolari, senza confrontarci con esse, finiamo col radicalizzarle (Walzer 1991). Questo discorso vale per entrambe le sponde del Mediterraneo, ma anche per le diverse parti che compongono ciascuna sponda.

All'interno della sua esplorazione dei concetti di identità e di appartenenza, Amin Maalouf (1998/1999) chiarisce bene il punto. L'identità di ogni uomo è unica, anche se mutevole e costituita da più appartenenze di diverso tipo, a volte in conflitto tra loro. Essa è vissuta come un tutto ma si trasforma in seguito alla sovrapposizione, al dialogo, ai contrasti delle appartenenze che la compongono ed alle quali viene di volta in volta attribuita una certa preminenza nella sua formazione: a volte, quando gli individui si sentono minacciati nella loro fede, è l'appartenenza religiosa che sembra riassumere la loro intera identità; se invece sono la loro lingua ed il loro gruppo etnico ad essere minacciati, gli stessi individui sarebbero pronti a lottare contro i loro correligionari20. È dunque la concezione "tribale" dell'identità, che riduce quest'ultima a una sola appartenenza, che va combattuta, così come l'abitudine e la mancanza di immaginazione che la sostengono. Gli individui, così come le singole società21, dovrebbero assumere la diversità delle appartenenze che li forgiano ed abituarsi a considerare il rispetto della diversità come un sistema per ottenere altrettanto rispetto per la propria differenza.

Già Simmel (1890/1982) aveva messo in luce come la personalità di un individuo sia in grado di non essere completamente determinata da una appartenenza e sia pronta per più appartenenze, rispetto alle quali può però mantenere una certa autonomia22. Questa pluralità non va trascurata, così come non deve esserlo l'instabilità e la componente soggettiva dell'identificazione. Gli io divisi del nostro tempo dovranno convivere col permanere delle appartenenze e dei confini, ma se ci ricorderemo più spesso che le nostre sono in fondo comunità immaginate23 sapremo immaginarne altre, forse più leggere e composite, i cui confini saranno attraversati e non saranno fonte di esclusione. La possibilità di pensare quelle comunità del rischio condiviso di cui parlavo all'inizio dipende anche da questa immaginazione.

Pensare nuove forme di aggregazione non vuol dire perdere ogni radice e concepire individui senza legami, significa solo creare altre appartenenze che non escludano le precedenti e vi convivano. Vorrei concludere ricordando che Edgar Morin (1993/1994), quando immagina l'ardua realizzazione di una Terra-Patria, pensa alla simbiosi come passo importante per lo sviluppo di connessioni planetarie, e non si lascia intimorire dal pensare quella che viene solitamente considerata un'utopia, sebbene dettata da esigenze concrete; del resto, afferma, "tutto ciò che è accaduto di buono nella storia è stato a priori improbabile".

 

Note

1 I dati sulla popolazione e sulla sua composizione etnica e religiosa, così come gli aggiornamenti sull'evoluzione della situazione politica dei suddetti paesi, possono essere ricavati, ad esempio, da Statera e Gritti (1994) e dal recente De Agostini 2002 (2001). Se considerassimo anche l'area che insiste sul Mar Nero, prendendo della Russia solo la piccola fascia che si affaccia su di esso, dovremmo aggiungere un altro centinaio di milioni di persone al computo precedente. Anche la diversità etnica e religiosa, oltre che linguistica e culturale, si accrescerebbe.

2 Relativamente agli aspetti economici del modello occidentale, in particolare sulle contraddizioni del neoliberismo, si veda ad esempio il punto di vista critico di Chomsky (1999).

3 Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press, Cambridge, 1982. Trad. it. Il liberalismo e i limiti della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1994.

4 In Liberalism and Its Critics, New York University Press, New York, 1984, M. Sandel (ed.).

5 in Human Nature and the Social Order, Scribner, New York, 1902.

6 in Childhood and Society, Norton, New York, 1950. Trad. It. Infanzia e società, Armando, Roma, 1966.

7 Un atteggiamento critico lo ha invece Alan Wolfe (1995/1998).

8 "Il quadro ideale di individui autonomi che scelgono le proprie relazioni (e ne rifiutano altre) senza vincoli di sorta è un esempio di cattivo utopismo" (Walzer 1999/2001, 13).

9 Spesso i membri delle associazioni involontarie rivendicano il riconoscimento del diritto di rimanere se stessi, di mantenere le loro identità individuali e collettive, contro gli assimilazionismi e contro l'idea di un individuo senza storia.

10 Anche se non si tratta tanto di cercare la comunità quanto di assumere maggiore consapevolezza dei legami comunitari esistenti.

11 Cfr. The Future of Multi - Ethnic Britain, Profile Books, London, 2000.

12 Oltre all'affermarsi del relativismo culturale e dell'idea che ogni comportamento umano fosse socialmente costruito, "è stato il genocidio nazista a screditare completamente l'idea che la biologia sia in grado di dirci qualcosa di rilevante sul comportamento umano" (Fukuyama 1999/2001, 206).

13 Lo spazio, il tempo e la legge di causalità.

14 Il fatto che Kant fosse "uno dei più energici difensori della tesi che l'io viene prima dei ruoli e delle relazioni assegnategli dalla società" (Kymlicka 1990/2000, 232), e che parlasse di categorie innate della conoscenza, non esclude che la nostra natura ci spinga talvolta a fare cose che non sono sotto il nostro completo controllo razionale.

15 Entriamo nel campo della sociobiologia (termine, quest'ultimo, introdotto dall'entomologo statunitense Edward O. Wilson negli anni Settanta: si veda ad esempio Sociobiology: the New Synthesis, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1975. Trad. It. Sociobiologia: la nuova sintesi, Zanichelli, Bologna, 1979; On Human Nature, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1978. Trad. It. Sulla natura umana, Zanichelli, Bologna, 1980): su altruismo ed interesse personale si veda il modello di idoneità complessiva di William D. Hamilton in The Genetical Evolution of Social Behaviour, "Journal of Theoretical Biology", 7, 1, 1964, 1-52. Modello poi divulgato da Richard Dawkins in The Selfish Gene, Oxford University Press, Oxford, 1976. Trad. It. Il gene egoista, Mondadori, Milano, 1994.

16 Il cervello ha anche una struttura emotiva che può spingerlo a punire chi inganna sacrificando pure l'interesse immediato dell'individuo.

17 Si veda Robert Trivers in Social Evolution, Benjamin/Cummings, Menlo Park, Calif., 1985.

18 Descartes' Error: Emotion, Reason and the Human Brain, G. P. Putnam, New York, 1994. Trad. It. L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano, 1996.

19 The Moral Sense, Macmillan - The Free Press, New York, 1993. Trad. It. Il senso morale, Comunità, Milano, 1995.

20 "L'appartenenza che è in causa (...) invade allora l'intera identità. Coloro che la condividono si sentono solidali, si riuniscono, si mobilitano, si incoraggiano a vicenda, se la prendono con 'quelli di fronte'. Per loro, 'affermare la propria identità' diventa (...) un atto liberatore" (ivi, 33).

21 Per un interessante approfondimento dei diversi aspetti dell'identità collettiva, in particolare per la sottodimensione della coesione (ma forse abbiamo bisogno di identità collettive meno coese, più aperte), si veda Ferrara (1998/1999, 164-191).

22 Le appartenenze possono essere molteplici, parzialmente sovrapposte, diversamente sentite e conflittuali al loro interno. Simmel ricordava anche che è tipico dell'uomo un certo grado di bisogno collettivistico.

23 Si veda al riguardo l'importante contributo di Benedict Anderson (1983 - 1991/1996) che, riferendosi alla nazione, parla di "comunità immaginata", cioè generata dalla mente di un numero significativo di persone e caratterizzata dall'essere pensata in termini di fraternità. "È immaginata ogni comunità più grande di un villaggio primordiale dove tutti si conoscono (e forse lo è anch'esso)" (ivi, 27). Già Max Weber peraltro insisteva sul carattere di credenza soggettiva del riferimento alla comune origine etnica.

 

Riferimenti bibliografici

- Anderson, B. (1991), Imagined Communities, Verso, London - New York. Trad. It. Comunità Immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.

- Bauman, Z. (1999), In Search of Politics, Polity Press, Cambridge. Trad. It. La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, 2000.

- Bauman, Z. (2001), Voglia di comunità, Laterza, Roma - Bari.

- Beck, U. (2000), Il Manifesto Cosmopolitico, Asterios, Trieste. Ora in La società globale del rischio, Asterios, Trieste, 2001.

- Boudon, R. (1999), Les sens des valeurs, Presses Universitaires de France, Paris. Trad. It. Il senso dei valori, il Mulino, Bologna, 2000.

- Cassano, F. (1996), Il pensiero meridiano, Laterza, Roma - Bari.

- Chomsky, N. (1999), Sulla nostra pelle, Marco Tropea, Milano.

- de Benoist, A. (1994), I comunitaristi americani, in "Trasgressioni", IX, 2-3, (19), maggio-dicembre, 3-29.

- Etzioni, A. (ed.) (1995), New Communitarian Thinking. Persons, Virtues, Institutions and Communities, The University Press of Virginia. Trad. It. Nuovi Comunitari. Persone, virtù e bene comune, Arianna, Casalecchio (BO), 1998.

- Etzioni, A. (1995), Vecchie storie e nuovi stimoli, in Id. (ed.) (1995), New Communitarian Thinking. Persons, Virtues, Institutions and Communities, The University Press of Virginia. Trad. It. Nuovi Comunitari. Persone, virtù e bene comune, Arianna, Casalecchio (BO), 1998, 9-28.

- Ferrara, A. (1998), Reflective Authenticity. Rethinking the Project of Modernity, Routledge, London. Trad. it. Autenticità riflessiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica, Feltrinelli, Milano, 1999.

- Fukuyama, F. (1999), The Great Disruption. Trad. It. La grande distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale, Baldini & Castoldi, Milano, 2001.

- Kymlicka, W. (1990), Contemporary Political Phhilosophy. An Introduction, Clarendon Press, Oxford. Trad. It. Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Feltrinelli, Milano, 2000.

- Maalouf, A. (1998), Les identités meurtrières, Éditions Grasset & Fasquelle. Trad. it. L'identità, Bompiani, Milano, 1999.

- Manghi, S. (1998), Sociobiologia, voce dell'Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, vol. VIII, 193-203.

- Matvejević, P. (1998), La Méditerranée et l'Europe. Leçons au Collège de France. Trad. It. Il Mediterraneo e l'Europa. Lezioni al Collège de France, Garzanti, Milano, 1998.

- Morin, E. (1993) Terre-Patrie, Seuil, Paris. Trad. It. Terra-Patria, Raffaello Cortina, Milano, 1994. Con la collaborazione di A. B. Kern.

- Simmel, G. (1890), Über sociale Differenzierung. Sociologische und psychologische Untersuchungen, Verlag von Duncker & Humblot, Leipzig. Trad. It. La differenziazione sociale, Laterza, Roma - Bari, 1982.

- Statera, G. e Gritti, R. (1994), Il nuovo disordine mondiale. Introduzione all'analisi sociale delle relazioni internazionali, Franco Angeli, Milano.

- Walzer, M. (1991), La rinascita della tribù, in "Micromega", 5, dicembre-gennaio, 99-111.

- Walzer, M. (1995), La critica comunitaria al liberalismo, in Etzioni, A. (ed.) (1995), New Communitarian Thinking. Persons, Virtues, Institutions and Communities, The University Press of Virginia. Trad. It. Nuovi Comunitari. Persone, virtù e bene comune, Arianna, Casalecchio (BO), 1998, 45-64. The Communitarian Critique of Liberalism, in "Political Theory", vol. XVIII, 1, 1990, 6-23.

- Walzer, M. (1999), The Exclusions of Liberal Theory, Fischer Taschenbuch Verlag GmbH, Frankfurt am Main. Trad. It. Ragione e passione. Per una critica del liberalismo, Feltrinelli, Milano, 2001.

- Wolfe, A. (1995), La natura umana e la ricerca di comunità, in Etzioni, A. (ed.) (1995), New Communitarian Thinking. Persons, Virtues, Institutions and Communities, The University Press of Virginia. Trad. it. Nuovi Comunitari. Persone, virtù e bene comune, Arianna, Casalecchio (BO), 1998, 91-104.



Home | La rivista | Ricerca | Autori | Approfondimenti | I nostri link | Iniziative | Forum | Servizi | Chi siamo