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Osservatorio sociale


Quel che resta dei media.
Democrazia, pacifismo e informazione nella guerra in Irak.

di Andrea Cerase, Valentina Martino



1. Media, guerra e opinione pubblica

La guerra moderna non può prescindere dai media. Da quando la democrazia ha iniziato ad affermarsi, da quando il popolo ha acquisito cittadinanza con il diritto al voto e soprattutto con la coscrizione obbligatoria, la possibilità di fare una guerra si è legata a doppio filo alla possibilità di ottenere consenso da parte delle opinioni pubbliche, e dunque al ruolo stesso del sistema mediale.

Dal punto di vista del rapporto con questi ultimi, il recente conflitto in Iraq ha sollevato almeno tre ordini di problemi. In primo luogo, vi è il controverso ruolo dei mezzi di comunicazione, chiamati istituzionalmente a fare da "cuscinetto" tra l'orientamento delle istituzioni politico-militari e quello delle opinioni pubbliche nazionali e internazionali. In secondo luogo, vi è il problema dello spazio di cittadinanza, del diritto alla parola che gli umori popolari esercitano nella determinazione della politica estera degli Stati in relazione alla guerra: un diritto che si concretizza anche e soprattutto nella visibilità delle posizioni pacifiste all'interno dell'agenda mediale. Quindi - ed è un aspetto che riguarda in modo particolare il nostro paese - vi è la questione istituzionale che riguarda il ruolo del sistema dei media e del servizio pubblico in particolare, come arena elettiva in cui si proietta e si elabora quasi naturalmente il dibattito politico sull'opportunità della guerra.

Il prerequisito fondamentale di ogni democrazia è che, alla base delle scelte politiche, possa esserci un dibattito che coinvolga l'opinione pubblica, a condizione che tutte le opzioni in campo possano essere discusse e valutate. Nelle democrazie occidentali, i sistemi dei media costituiscono complessivamente la principale (se non l'unica) arena all'interno della quale può avvenire questo confronto e la mediazione tra le diverse istanze emergenti all'interno della società. Tuttavia, vi sono chiari segnali che questa generale linea di principio, più che costituire la normale prassi dell'interazione politica, ne rappresenti nel migliore dei casi un'eccezione, se non una pura aspirazione.

L'incombenza di una guerra ha certamente l'effetto di radicalizzare questa fisiologica contraddizione. La centralità dei media come agenti della propaganda bellica è ben nota agli studiosi di comunicazione: già in una prospettiva storica, l'evoluzione delle tecniche per ottenere consenso e legittimazione attraverso i media di massa costituisce da sempre un nucleo fondante della stessa disciplina, a partire dai classici studi di Lasswell negli anni Venti. Si può affermare, con una certa serenità, che all'evoluzione dei moderni modelli di giornalismo corrispondano sempre nuove tecniche per sviare gli operatori dell'informazione e l'opinione pubblica ed eludere la crescente forza di penetrazione e documentazione delle tecnologie. Ogni guerra ha visto lo sviluppo di nuove e sempre più sofisticate forme di propaganda strategica, e la stessa creazione di apposite organizzazioni di supporto alla comunicazione, direttamente controllate dai Governi e dagli Stati Maggiori degli stati belligeranti.

Da questo punto di vista, la guerra in Iraq non ha fatto eccezione. La Casa Bianca e il Pentagono hanno chiaramente fatto pressione sulle opinioni pubbliche mondiali, forti di una perfetta conoscenza della logica dei media, dei suoi linguaggi e dei suoi formati, allo scopo di ottenere la più ampia mobilitazione possibile a sostegno dell'intervento armato. La polarizzazione delle posizioni in campo, la personificazione del Male nei panni di Saddam Hussein o di bin Laden, il massivo ricorso a registri principalmente emotivi e, in particolare, alla sempre potente leva della paura, hanno caratterizzato la strategia americana di persuasione, alla ricerca di quel consenso indispensabile a giustificare e a sostenere nel tempo un conflitto di vaste proporzioni. Del resto, il fronte interno non è certamente meno importante e determinante del fronte militare: il messaggio è stato quello di una guerra necessaria, giusta, le cui conseguenze per la popolazione americana sarebbero state limitate e indolori.

Ciò che si è voluto assolutamente evitare, da questo punto di vista, è il ripetersi dell'esperienza del Vietnam, in cui il rapporto di potere tra media e stati maggiori si è temporaneamente invertito a favore dei primi: senza ombra di dubbio, l'esito militare della guerra combattuta nel sud-est asiatico è stato fortemente influenzato dal modo in cui essa è stata raccontata dai media. Come alcuni autori hanno fatto notare1, la relativa libertà di movimento dei reporter e le minori dimensioni delle apparecchiature per le riprese fotografiche e televisive hanno consentito di documentare anche aspetti delle vicende belliche - le esecuzioni sommarie, i massacri di civili, le carneficine degli stessi GI - sconosciuti e ben diversi dall'idilliaca immagine di una lotta per l'affermazione della libertà accredita dalla Casa Bianca, determinando dapprima un rafforzamento dei movimenti pacifisti e quindi una radicale inversione di prospettiva da parte di strati più ampi del pubblico americano.

L'esperienza del Vietnam ha certamente determinato un importante punto di svolta nel rapporto tra media e opinione pubblica, offrendo - dal punto di vista dei registri e delle tecniche di persuasione - una lezione fondamentale su cosa vada assolutamente evitato nella comunicazione di guerra. Il conflitto del Golfo del 1991 - con le sue bombe intelligenti, le operazioni chirurgiche, i giornalisti portati a scorrazzare nel deserto in VM2 - ha rappresentato il vero banco di prova di questa svolta comunicativa, che ha avuto come principale effetto quello di allontanare le immagini della morte dall'orizzonte simbolico della guerra, sublimandole e trasfigurandole fino quasi a rimuoverle del tutto dalla rappresentazione del conflitto2.

Eppure, la morte continua ad essere la dimensione principale e ineluttabile di ogni guerra. Il fantasma della paura torna puntualmente a prendere corpo non come morte dei soldati, dei "fratelli in armi", ma soprattutto delle popolazioni civili: l'evoluzione storica dei modelli bellici ha visto una progressiva inversione di tendenza, che ha portato prima a un surclassamento del numero delle vittime civili rispetto a quelle militari, poi a una crescita esponenziale delle prime. Anche per queste tristi evidenze, l'idea della "guerra giusta", accreditata come legittimo strumento per la risoluzione delle controversie e il sostegno alla pace, ha progressivamente perso il suo potere di seduzione e di mobilitazione dell'opinione pubblica. Da Hiroshima e Nagasaki, lo spettro dell'ecatombe nucleare ha storicamente comunicato nuovo impulso alla nascita e al rafforzamento dei movimenti pacifisti di massa, che in Europa hanno trovato un ulteriore stimolo nella Guerra Fredda prima, e nel riarmo a partire dagli anni Ottanta poi.

2. Il rigonfiamento dell'istanza pacifista

Sebbene sia doveroso riconoscere che, all'interno della categoria "pacifismo", la varietà di punti di vista sia irriducibile a una posizione univoca4 , vi sono stati chiarissimi segnali che l'area del dissenso contro il conflitto in Iraq abbia assunto una consistenza e una compattezza del tutto inedite, in Europa e nel resto mondo.

Un rigonfiamento abnorme e inaspettato della voci contrarie alla guerra nelle società occidentali, e una potente ondata emotiva che ha visto emergere la dimensione valoriale della pace come più urgente tema di giustizia sociale. Si è forse trattato di un'ennesima conseguenza della ferita culturale aperta dall'11 settembre: dopo quella data, infatti, sembra che una nuova dialettica tra pace e guerra sia venuta progressivamente a instaurarsi e legittimarsi nei paesi occidentali, quale dimensione fisiologica e costitutiva della convivenza sociale e del nostro stesso modo di stare al mondo.

La manifestazione contro la guerra del 15 febbraio scorso ha visto scendere in piazza centodieci milioni di persone in tutto il mondo, da Sidney a New York, in un evento mediale non stop scandito dai diversi fusi orari. Le manifestazioni più affollate si sono tenute – certo non a caso - nelle nazioni i cui governi si sono più apertamente schierati a favore delle posizioni americane: a Londra sono sfilate un milione di persone, due milioni a Madrid, addirittura tre a Roma, con l'eccezione degli Stati Uniti, paese in cui le manifestazioni di massa con un numero così elevato di partecipanti sono storicamente poco frequenti. In ogni caso, qualcuno ha fatto notare - probabilmente non a torto - che si è trattato della più grande manifestazione pacifista della storia.

Tuttavia, a quanto è stato possibile vedere finora, lo spazio che i media - e soprattutto l'informazione italiana - hanno riservato all'istanza pacifista è certamente minoritario, se paragonato alle tonanti voci interventiste. Indubbiamente vi è stata una certa attenzione da parte dei nostri media alla copertura del tema, sebbene questo sforzo si sia concentrato soprattutto sui momenti di maggiore irruenza e visibilità dell'ondata pacifista: tra questi, le ferme dichiarazioni del Papa e le numerose manifestazioni di protesta, come quella avvenuta a Camp Darby. Colpiscono anche alcuni dettagli in qualche misura sconcertanti, come il clamoroso lapsus freudiano con cui si apriva uno dei servizi della diretta Mediaset della manifestazione, quando un incipit infelice recitava: "ed ecco a voi le prime immagini della manifestazione contro la pace". Al di là di questo, resta difficilmente comprensibile l'ampiezza della forbice apertasi tra la consistenza delle istanze pacifiste nel nostro paese e le modalità della loro messa in scena attraverso i media. Vi è stata un'evidente sproporzione, meritevole di approfondimento, tra il clima d'opinione effettivamente presente nel paese e la quantità e la qualità della sua rappresentazione.

Del resto, la forza della mobilitazione dell'opinione pubblica di fronte alla minaccia guerra si evince non soltanto dalla vigorosa partecipazione alla manifestazione sopra citata, ma anche dalle indicazioni ripetutamente fornite da una serie di sondaggi e di azioni di monitoraggio che, nei giorni immediatamente precedenti l'offensiva, hanno in qualche modo tentato di prendere il polso alla situazione. Tra i più autorevoli contributi in questo senso, va certamente segnalata un sondaggio dell'Eurisko che, commissionato da La Repubblica e condotto su un campione statisticamente rappresentativo della popolazione italiana, offre uno spaccato molto netto e articolato degli umori dell'opinione pubblica nazionale in merito alla guerra5 . La quasi totalità degli italiani (ben l'87-88%) - si legge - si dichiara contraria all'intervento militare in Iraq; il consenso alla guerra risulta solo di poco superiore nel caso di un intervento militare subordinato al via libera delle Nazioni Unite (68%). Tra le motivazioni a sostegno di queste posizioni ostili all'intervento armato, le più importanti sono la considerazione che "la guerra è sempre sbagliata" (81%) e, ancora, la convinzione della "scarsa utilità di un'azione militare" contro il regime di Saddam Hussein (46%). Tuttavia, il rifiuto della guerra nasce anche da una serie di preoccupazioni più concrete e certamente meno idealiste, tra cui la paura, il rischio per la sicurezza, la "minaccia del benessere economico" (20%).

Più in generale, il sondaggio Eurisko mette in luce - oltre a un diffuso sentimento di approvazione nei confronti delle posizioni sposate dal Vaticano - un deterioramento nell'immagine del Governo, una tendenza alla critica nei confronti della attuale politica estera statunitense, con un nettissimo e chiaro distinguo rispetto alle posizioni di pregiudiziale antiamericanismo. Eppure, guardando all'offerta informativa delle ultime settimane precedenti la guerra, di una così netta e radicale prevalenza di posizioni pacifiste nel nostro paese sembra quasi non esserci traccia, almeno in quanto issue di natura politica.

La domanda che implicitamente pongono sia la massiccia partecipazione alle manifestazioni che i risultati delle indagini come quella appena descritta può apparire fin troppo banale nella sua semplicità: come può uno stato combattere una guerra contro il volere dei suoi cittadini? Tuttavia, è molto più problematico comprendere come sia stato possibile che un universo così eterogeneo e variegato come quello pacifista abbia potuto trovare – quasi esclusivamente al di fuori dei media, o quantomeno dei media tradizionali – un proprio punto di coerenza interna, di ricomposizione, di capacità organizzativa. Da questo punto di vista, nell'offerta informativa che ha preceduto e poi accompagnato la guerra, la rappresentazione delle posizioni contrarie all'intervento armato è stata spesso affidata dai media alla voce di Papa Giovanni Paolo II, chiamata in qualche modo a riassumere - quasi in una logica di intenzionale semplificazione del messaggio - il movimento pacifista e le sue numerose anime.

Se gli stessi paradigmi delle scienze della comunicazione hanno tradizionalmente sottovalutato il significato dell'interazione interpersonale e della sua complementarietà rispetto ai media, la straripante corporeità dei movimenti pacifisti invita certamente a rivalutare il contributo peculiare della comunicazione interpersonale, del passaparola diretto, dello scambio simbolico faccia a faccia nel modellare i contenuti e i percorsi dell'opinione pubblica. In questo senso, è soprattutto in situazione di instabilità ed emergenza informativa che, di fronte alla diga dei media tradizionali e dell'accesso ad essi, il fiume della comunicazione dimostra puntualmente la non ordinaria capacità di segmentarsi in una miriade di flussi e di canali, di trovare simboli alternativi ed elementi segnaletici: una forza sorprendente e inarrestabile, che oggi si avvale anche dell'apporto creativo di nuove tecnologie quali Internet, la posta elettronica, la telefonia mobile.

Il paradosso delle nuove forme di controinformazione, inclusa quella che si oppone alla guerra, nasce dal fatto che continuano ostinatamente a sopravvivere - anche entro uno scenario apparentemente saturato dalla complessità tecnologica - le reti sociali dello scambio orizzontale, in cui i soggetti si pongono almeno formalmente su un piano di parità e di simmetria all'interno del processo comunicativo. Eppure, la constatazione di questa vivacità e straordinaria freschezza della comunicazione interpersonale (che nella sua forza si oppone all'idea di un monolitico primato dell'arena mediale nella formazione dell'opinione pubblica) non risolve la questione delle norme che, nei paesi democratici, dovrebbero istituzionalmente garantire la possibilità di espressione a tutte le istanze e le voci presenti nella società. In altre parole, si apre a margine un problema che riguarda le regole necessarie a rendere effettivo e sistematico il diritto-dovere a informare ed essere informati, al fine di garantire una piena partecipazione dei cittadini alla vita politica e la possibilità di una formazione dell'opinione libera e secondo coscienza.

Da questo punto di vista, la vicenda della mancata diretta della manifestazione del 15 febbraio scorso è paradigmatica nell'argomentare l'ipotesi di un rapporto problematico tra i media e il movimento pacifista: un episodio, che - ricordiamolo - ha contribuito in modo determinante alle stesse dimissioni del precedente CdA Rai. Il veto opposto alla copertura televisiva della manifestazione del 15 febbraio sulle reti Rai (con la discutibile motivazione che questa avrebbe potuto influenzare il Parlamento, immediatamente sconfessata dai Presidenti di Camera e Senato) ha evidentemente riaperto un problema istituzionale che, nella coscienza politica di questo paese, si era da tempo cronicizzato. Al di là di ciascuna legittima motivazione politica a favore o contro la guerra, a essere messa in questione da questa vicenda è soprattutto la concezione di servizio pubblico che caratterizza il mandato istituzionale della Rai. La situazione che si è prospettata appare sconcertante: il ruolo di custode della coscienza collettiva degli italiani, che il CdA si è autoreferenzialmente attribuito, trova pochi precedenti nella storia della televisione italiana.

Questa grave preoccupazione è condivisa anche dal sindacato dei giornalisti Rai, che ha recentemente denunciato (promettendo al proposito un libro bianco) l'esistenza di forme striscianti di censura e di condizionamento all'interno delle redazioni. E' così che apprendiamo che per un giornalista del servizio pubblico è inopportuno inserire nei montaggi video l'arcobaleno delle bandiere pacifiste, così come dilungarsi troppo sull'incontro tra Roberto Formigoni, Presidente della giunta regionale lombarda, e Tarek Aziz, Ministro degli Esteri iracheno. Allo stesso modo, in casa Rai è sconveniente insistere troppo sull'invito al digiuno fatto dal Papa, o definire pacifisti quanti hanno cercato di boicottare il passaggio dei convogli ferroviari verso le basi militari americane: meglio stigmatizzarli come disobbedienti, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista della categorizzazione politica e della rappresentazione del movimento pacifista.

In un simile contesto dell'informazione pubblica, il secondo monito del Presidente della Repubblica Ciampi sul pluralismo dell'informazione non può apparire frutto di una mera casualità, ma ribadisce con forza il principio costituzionale della libertà di stampa, così come espresso dall'art. 21. Non appare affatto scontato, né retorico, che in seguito all'intervento dello scorso luglio la massima autorità dello Stato torni a prendere le difese di questo diritto, insistendo nuovamente sulla centralità di un'informazione democratica, aperta e pluralista.

3. Il protagonismo dei media

Dal punto di vista dell'informazione, il conflitto in Iraq ha rappresentato una guerra largamente annunciata, capace di mobilitare le opinioni pubbliche internazionali, inequivocabilmente contrassegnata dal dispiegamento di nuove risorse e geometrie informative tra media vecchi e nuovi. Di certo, la copertura dell'"ultima guerra" si distingue dalle precedenti in virtù della disponibilità di una serie di novità tecnologiche ed espressive, sulla cui base è venuto a configurarsi – nello scenario dell'informazione globale - un rapporto inedito e storicamente peculiare tra gli operatori dell'informazione e la platea del pubblico mondiale.

In particolare, la riflessione pubblica sul ruolo e l'operato dei media si è imposta come un corollario centrale - se non vera e propria cifra distintiva - della cronaca del conflitto in atto: il protagonismo dei mezzi di comunicazione, nel corso dei giorni e negli spazi riservati alla cronaca e all'approfondimento, è stata tale da innescare una repentina accelerazione del consueto gioco di specchi e di reciproche rappresentazioni a fondamento del patto comunicativo tra operatori dell'informazione e società. Mai, prima d'ora, l'autocoscienza dei media era sembrata così coessenziale alla guerra, e persino alla pace.

Si tratta evidentemente di un punto cruciale nel dibattito sull'informazione di guerra, che va considerato all'interno di un contesto interpretativo più ampio, in cui ai media venga riconosciuto - nel bene e nel male - un ruolo centrale e la capacità di influire anche pesantemente sulle strategie militari, sulle scelte di politica internazionale, sui futuri assetti geopolitici del Medio Oriente. A sostegno di questa tesi vi sono infatti diversi argomenti, certamente dotati di una certa solidità, tra cui anzitutto il pesante tributo di sangue pagato dai giornalisti. Non sono certo pochi quanti hanno perso la vita per mano di entrambe le parti belligeranti, e le cronache di guerra sono fin troppo ricche di episodi sconcertanti: dall'autobomba che nei primi giorni ha ucciso un reporter nel nord dell'Iraq, alle immagini diffuse in tutto il mondo dei prigionieri americani; dal sequestro dei giornalisti italiani a Bassora, alle cannonate americane che, alla vigilia della caduta di Baghdad, hanno ucciso due inviati nell'hotel Palestine e uno nella sede di Al Jazeera.

I testimoni, specie quelli più riluttanti a fermarsi al media appeal delle conferenze stampa da Doha o dei proclami di Ministri dell'informazione in divisa, sono una realtà scomoda su ciascun campo di battaglia. Da questo punto di vista, la guerra in Iraq rappresenta il preoccupante apogeo di una dottrina andatasi affermando da almeno una decina d'anni: senza dubbio vi è stata una vera e propria escalation nei confronti dell'informazione, che sempre più frequentemente si trova costretta nel dilemma di accontentarsi di riportare ciò che le parti in conflitto vogliono mostrare – le immagini edulcorate dalla propaganda - o di finire essa stessa nel mirino, al pari di un qualsiasi altro obiettivo militare. E' quanto attesta, molto crudamente, la preoccupante impennata delle statistiche sui giornalisti uccisi in guerra.

I fatti dimostrano che i media non sono più soltanto testimoni più o meno neutrali dei conflitti armati, ma sono essi stessi al centro delle contese, a un tempo in qualità di bersagli, armi e, persino, terreno di battaglia. Una simile linea sembra essersi imposta a iniziare dalla guerra nell'ex-Jugoslavia, con le fucilate dei cecchini su giornalisti e fotografi durante l'assedio di Sarajevo, con i bombardamenti delle reti televisive serbe durante la guerra in Kosovo, con l'allontanamento coatto dei reporter da parte dell'esercito israeliano da Gaza e da Ramallah nei giorni più duri della seconda Intifada. In quest'ottica, neanche nell'attuale guerra sono mancati gli episodi inquietanti, tra cui l'allontanamento dei giornalisti francesi e tedeschi dalle retrovie militari anglo-americane, o anche un atteggiamento di aperta diffidenza - quando non di vera e propria discriminazione - nei confronti degli operatori di quei paesi in cui, come in Italia, l'opinione pubblica si è dimostrata più critica nei confronti della guerra (come testimoniato, tra gli altri, dall'inviato Rai Franco Di Mare nel corso di una diretta).

Quel che è certo è che proprio il controverso rapporto instauratosi tra i media e la issue pacifista - le modalità di rappresentazione di un'opinione pubblica infiammata dalla minaccia della guerra - risulta certamente la frontiera più incerta, la più sfumata, la più difficile da cogliere nei termini dell'indagine empirica. Tutto questo rende più che mai urgente, da parte della ricerca, lo sforzo di misurarsi con le prestazioni dei media in tempo di guerra, costituendosi come un punto di vista indipendente e obiettivo, di garanzia rispetto alle libertà fondamentali dei paesi democratici. E' necessario, peraltro, adottare prospettive di studio che evitino di ridurre la comunicazione alla presunta onnipotenza del contenuto mediale, ma che considerino anche la capacità, da parte dei destinatari dei messaggi, di comprenderli, di elaborarli in maniera autonoma e di manifestare la propria resistenza a essi.

4. Una tregua tra i media e il pubblico?

Subito dopo l'inizio della guerra in Iraq, il Dipartimento di Sociologia e Comunicazione dell'Università "La Sapienza" ha autonomamente promosso e attivato un'azione di ricerca volta a monitorare in tempo reale l'offerta informativa allestita dai media italiani "in tempo di guerra"6 . Al tempo stesso, fin dall'inizio è stata chiara l'opportunità di integrare e valorizzare l'analisi condotta sui contenuti della televisione, della stampa quotidiana e dell'informazione on line con una peculiare attenzione verso i percorsi dell'audience e le dinamiche di fruizione mediale. Come sempre, infatti, è sull'anello del pubblico che il cerchio si chiude: ad emergere con maggior nettezza è, in altre parole, il significato dell'interazione comunicativa in momenti di sgomento e di perturbazione dell'ambiente sociale, la percezione profonda di quel che resta dei media e del loro patto comunicativo con l'audience nel momento dell'urgenza e del bisogno.

In particolare, l'inchiesta di cui si presenteranno di seguito le prime anticipazioni ha inteso focalizzare le dinamiche di consumo dei contenuti mediali, la qualità percepita dell'offerta informativa allestita dai media italiani, gli effetti di tematizzazione e di costruzione dell'agenda del pubblico a circa due settimane dall'inizio della guerra in Iraq. A tal fine, si è fatto ricorso a un questionario semistrutturato (con un'assoluta prevalenza di domande chiuse), articolato in cinque distinte sezioni, corrispondenti ad altrettanti obiettivi di fondo della ricerca:

  1. L'effetto di attesa per l'imminente guerra;
  2. Le modalità di acquisizione e di immediata verifica dell'iniziale notizia dell'attacco;
  3. Le modalità di scambio interpersonale della notizia e dei suoi successivi sviluppi;
  4. Le dinamiche di approfondimento e la qualità percepita dell'offerta informativa;
  5. La costruzione dell'agenda del pubblico nel medio periodo.

Le interviste sono state somministrate telefonicamente attraverso il metodo CATI nel periodo 31 marzo-5 aprile 2003, su un campione probabilistico di 501 persone, rappresentative della popolazione italiana di 14 anni e più (con un margine d'errore di circa il 4,35%).

In particolare, alcuni items previsti nello strumento di rilevazione hanno puntato a rilevare la qualità della peculiare relazione instauratasi tra la platea nazionale e il sistema dell'informazione mediale nei giorni del conflitto. A questo proposito, già i risultati delle ricerche condotte sull'11 settembre e sulla guerra in Afghanistan consentivano di prefigurare un trend di generale soddisfazione per il trattamento giornalistico in tempo di guerra, tale da decretare una temporanea sospensione della critica che accompagna, quasi ritualmente, l'operato del sistema mediale nelle situazioni di routine informativa. Una tendenza di breve-medio periodo, che prova - se non certamente l'oggettiva adeguatezza e qualità dell'offerta informativa - quantomeno la capacità dei media di offrire comunque una valida sponda all'ansia e al bisogno di informazione del pubblico; al tempo stesso, nel caso delle precedenti ricerche, tale constatazione si accompagnava a quella di quanto la domanda dell'audience tornasse a inasprirsi e farsi sempre più critica con il passare del tempo e dei giorni dall'iniziale allarme.

L'ipotesi di una sorta di temporanea tregua tra i media e il pubblico torna a essere pienamente confermata dallo scenario rilevato per la guerra in Iraq. Con particolare riferimento al giudizio degli italiani circa il trattamento giornalistico del conflitto, colpisce la generale soddisfazione espressa dal pubblico nei confronti della performance dei media: in questo senso, a diversi giorni dall'inizio dell'offensiva americana, oltre la metà degli intervistati (58,1%) ha dichiarato di non aver nulla da recriminare contro l'offerta informativa allestita dai mezzi di comunicazione, contro il restante 41,9% di critici. Dovendo esprimere una valutazione più precisa, la maggioranza del pubblico (49,5%) ha giudicato espressamente l'informazione di guerra buona (30,9%) o persino ottima (18,6%), a fronte di un'assoluta minoranza di valutazioni in termini negativi (10%) o pessimi (3%). Per comprendere fino in fondo il rilievo del dato, basti pensare che - tradotta ironicamente in decimi - la media delle valutazioni rilevate si attesterebbe su un voto pari all'incirca al 7+.

Tab. 1 - Ritiene che l'offerta di informazione sia stata carente sotto qualche aspetto?

v.a.

v.%

210

41,9

no

291

58,1

Totale

501

100,0

Tab. 2 - Complessivamente, che voto darebbe all'informazione, da 1 (=pessima) a 5 (=ottima)?

v.a.

v.%

% cumulata

1

15

3,0

3,0

2

50

10,0

13,0

3

169

33,7

46,7

4

155

30,9

77,6

5

93

18,6

96,2

non sa/non indica

19

3,8

100,0

Tot.

501

100,0

Fonte: Elaborazioni MediaWar, 2003

All'interno di questo scenario, sembra che sia soprattutto il mandato televisivo a uscire rafforzato dallo stato di crisi: in termini di credibilità e qualità percepita, il "processo ai media" sembra premiare, di fatto, l'informazione offerta dal piccolo schermo, preferita da oltre la metà dei soggetti intervistati (55,5%). L'impressione è che, in momenti di difficoltà e non ordinaria dipendenza informativa7 , gli individui tendano istintivamente a ripiegare sulle certezze acquisite: una dinamica che contiene certamente in sé una componente difensiva e che porta puntualmente ad aggrapparsi a ciò che è più noto, familiare e condiviso. In questo senso, la straordinaria fiducia riposta in tempo di guerra nella mediazione televisiva, nonché in mezzi tradizionali quali i quotidiani (11,2%) e la radio (6%), contrasta clamorosamente con la scarsa credibilità riconosciuta all'informazione on line e alla realtà emergente di Internet (2,2%). D'altra parte, va segnalato anche un segmento consistente di pubblico (pari al 16%) che ha preferito non sbilanciarsi, non segnalando particolari preferenze in termini di gradimento.

Tab. 3 - Quale mezzo di comunicazione, a suo giudizio, è stato più credibile nel riportare le notizie?

v.a.

v.%

Riviste

1

0,2

altro

3

0,6

Internet

11

2,2

radio

30

6,0

non sa

42

8,4

Quotidiani

56

11,2

nessuno in particolare

80

16,0

Televisione

278

55,5

Tot.

501

100,0

Fonte: Elaborazioni MediaWar, 2003

Di fronte alla forza trascinante che - in tempo di guerra - il mainstreaming televisivo esercita sul pubblico, molte delle altre forme di mediazione sembrano letteralmente impallidire: basti solo pensare che, nell'iniziale diramazione della notizia relativa all'attacco americano (avvenuto, ricordiamo, alle ore 03.35 del 20 marzo scorso), il sistema radiotelevisivo ha coperto, da solo, circa l'88% del fabbisogno informativo del pubblico italiano. In particolare, il mezzo televisivo ha rappresentato la fonte più efficace nel diffondere la prima notizia dell'attacco su Baghdad per oltre i 3/4 del pubblico (74,9%), seguito dalla radio (12,8%) e dalle reti del passaparola diretto (8,8%)8 . Del resto, anche nella serata precedente lo scadere dell'ultimatum e nel presunto stato di attesa che ha coinvolto l'audience (per l'esattezza, circa 1/3)9 , le scelte degli italiani hanno largamente privilegiato il flusso dell'informazione televisiva, universalmente preferita dalla quasi totalità dei soggetti intervistati (96%).

In ultima istanza, i modelli della comunicazione in tempo di guerra sembrano rimandare a un'implicita semantica sociale della comunicazione, restituendo preziosi frammenti della percezione che i soggetti hanno dell'universo mediale e interpersonale di riferimento. Da questo punto di vista - anche e soprattutto se confrontati con la quantità e la qualità della comunicazione di routine - i dati si prestano a offrire un'immagine in presa diretta delle aspettative riposte nelle molteplici possibilità espressive della comunicazione da parte della compagine sociale. Una società la cui prima reazione, di fronte all'allarme, è stata ancora una volta quella di organizzarsi istintivamente in pubblico.

5. Note conclusive

I dati della ricerca MediaWar, attualmente in corso di elaborazione, segnalano intanto l'attenzione prestata dal pubblico nazionale al tema della guerra. Un'attenzione niente affatto scontata: se il teatro dei combattimenti è geograficamente lontano, non si può dire che esso sia altrettanto distante dall'orizzonte simbolico degli italiani, dove la cronaca di guerra diventa nota e familiare solo attraverso la cornice della mediazione giornalistica. In questo senso, sebbene il dato relativo alla soddisfazione rispetto all'offerta informativa sia certamente di segno positivo, per la logica del rovescio della medaglia esso lascia aperte due questioni assolutamente rilevanti: l'esistenza di un settore niente affatto trascurabile di critici rispetto al funzionamento dei media, e il fatto che questa sacca di insoddisfazione nei confronti della performance dell'informazione risulti quantitativamente più consistente rispetto a quanto rilevato nel corso della guerra in Afghanistan10 .

Questo dato, con il quale è necessario confrontarsi, non può essere liquidato con una generica invocazione alla naturale (quanto ritualizzata e sterile) predisposizione degli italiani alla contestazione dei massimi sistemi, ma deve essere a nostro avviso letta in una chiave positiva e propositiva. Infatti, una prima ricognizione sulle indicazioni fornite dagli intervistati circa i motivi di un'eventuale carenza dei media fa emergere, in filigrana, soprattutto le attese per un'informazione più libera, più obiettiva, più competente. Torna a confermarsi, di fatto, l'impressione che dopo lo shock dell'11 settembre il patto comunicativo che lega l'informazione e il pubblico sia tuttora in corso di negoziazione, sebbene la sua cifra distintiva si sia già chiaramente delineata: è forse del tutto tramontato il paradigma di un pubblico che subisce passivamente qualsiasi "mezzo" o "messaggio" gli venga proposto. Merito forse dell'aumento delle competenze comunicative degli attori sociali, dell'estensione della tastiera dei consumi mediali alle nuove tecnologie, o più semplicemente dell'accresciuta attenzione nei confronti della valenza sociale della comunicazione, come requisito di ogni società che voglia dirsi democratica.

Ancora una volta soltanto la ricerca empirica, e la forza del dubbio iscritta nel suo stesso dna, può sperare di fornire una qualche risposta.



Note
  1. Tra i numerosi contributi sul tema, si vedano: R. Savarese, Guerre intelligenti: stampa, radio, tv, informatica: la comunicazione politica dalla Crimea alla Somalia, Franco Angeli, Milano, 1995, e A., Mattelart, La comunicazione mondo, Il Saggiatore, Milano, 1997.
  2. S. Bentivegna, La guerra in diretta. La copertura televisiva del conflitto nel Golfo, Nuova ERI, Torino, 1993.
  3. Si veda anche J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1979.
  4. F. M. Battisti (a cura di), Paura e desiderio di guerra, opinioni pubbliche, politiche istituzionali e modelli previsionali, Franco Angeli, Milano, 1994, pp. 25-29.
  5. F. Bordignon, Iraq, gli italiani popolo di pacifisti, in “La Repubblica”, 23 febbraio 2003.
  6. L'iniziativa di ricerca Mediawar - Osservatorio sul sistema dei media in tempo di guerra raccoglie l'eredità di studi dell'équipe MediaEmergenza, diretta dal Prof. Mario Morcellini, rilanciando la sfida alla conoscenza sulle situazioni di crisi ed emergenza sociale e proponendo un approfondimento critico della comunicazione in tempo di guerra attraverso l'integrazione di diversi piani d'analisi. Nell'intento di indagare le dinamiche di interazione che si stabiliscono tra gli operatori dei media e il pubblico attraverso la mediazione di un particolare tipo di messaggio, l'articolazione della ricerca è centrata sulle tre dimensioni costitutive delle scienze della comunicazione, saldate insieme in un disegno di indagine che mira a integrare approcci qualitativi e quantitativi: l'analisi del messaggio, ovvero dei contenuti e dei linguaggi mediali; l'analisi del pubblico, ovvero delle modalità di consumo e di concreto utilizzo della comunicazione da parte degli attori sociali; l'analisi degli emittenti, ovvero delle organizzazioni produttive e delle loro routines di funzionamento. Per i risultati integrali della ricerca sull'11 settembre e sulla guerra in Afghanistan, cfr. M. Morcellini, Torri crollanti. Comunicazione, media e nuovi terrorismi dopo l'11 settembre, Franco Angeli, Milano, 2002.
  7. Nell'ambito della riflessione sulla comunicazione, è soprattutto la teorie della dipendenza a cogliere efficacemente la correlazione esistente tra condizioni di crisi e instabilità dell'ambiente sociale e un più accentuato bisogno informativo e di orientamento espresso da individui e gruppi sociali nei confronti dei media di massa. Cfr. S. J. Ball-Rokeach, M. L. De Fleur, A dependency model of mass media effects, in “Communication research”, vol. 11, n. 3, pp. 3-21; e M. L. De Fleur, S. J. Ball-Rokeach, Teorie delle comunicazioni di massa, Il Mulino, Bologna, 1995.
  8. Nonostante l'attacco e la sua diramazione mediatica siano avvenuti a notte fonda, la velocità di diffusione della notizia è stata comunque molto elevata al “risveglio” degli italiani. In questo senso, per oltre un terzo del pubblico nazionale, l'"ora dell'allerta" è risultata corrispondere ai 60 minuti compresi tra le 6.30 e le 7.30 della mattina del 20 marzo scorso (34,1%); complessivamente, oltre la metà dei soggetti intervistati ha dichiarato di aver saputo dell'attacco all'Iraq entro le ore 7.30 (54,7%).
  9. In particolare, nella notte tra il 19 e il 20 marzo, circa un terzo degli italiani (30,9%) ha atteso lo scadere dell'ultimatum americano attraverso i mezzi di informazione. La metà del pubblico ha seguito le notizie fino alle 24.00 (50,9%), mentre il 13,8% ha smesso di seguire gli eventi solo dopo la mezzanotte: di questi, in particolare, l'8,2% è andato avanti addirittura fino alle due di notte alla ricerca degli ultimi aggiornamenti.
  10. Si veda A. Cerase, F. Mattioli, “Afghanistan, cronaca di una guerra annunciata” in M. Morcellini, op. cit.



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