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Laboratorio culturale


Aspetti della crisi della cultura politica

di Franco Crespi


1. Introduzione

A seguito delle trasformazioni derivanti dallo sviluppo del processo di globalizzazione e dei recenti avvenimenti del terrorismo internazionale, i modelli di riferimento e i valori della cultura politica nelle società democratiche sembrano aver subìto decisivi mutamenti che rischiano di svuotarla di alcuni suoi contenuti essenziali.

Non intendo ovviamente qui neppure tentare un'analisi complessiva dei diversi elementi in gioco in tale cambiamento, bensì mi limiterò a indicare, in modo necessariamente schematico, alcuni aspetti che mi appaiono significativi per interpretare quanto sta avvenendo al livello generale della globalizzazione, per poi soffermarmi, in particolare, sulla situazione italiana.

Com'è noto, prima della rottura dell'equilibrio del sistema mondiale fondato sulla contrapposizione tra i due blocchi rappresentati dai paesi capitalisti e da quelli comunisti, il dibattito che nutriva la cultura politica si era venuto sviluppando, per quasi cinquant'anni, attraverso il confronto tra il modello democratico di tipo anglosassone e quello di tipo comunista, consentendo, da un lato, la critica delle possibili distorsioni del primo e la proposta di sue necessarie integrazioni; dall'altro, la critica dei regimi di tipo totalitario e delle ideologie in essi imperanti. Tale confronto alimentava il discorso della cultura politica sia nel riferimento alle esigenze di giustizia sociale poste in evidenza dalla tradizione marxista, sia nella denuncia delle strutture di dominio presenti, anche se in modi diversi, tanto nei paesi capitalisti quanto in quelli socialisti, con particolare riferimento non solo all'inefficienza del sistema economico comunista, ma anche all'esigenza, nei sistemi democratici, di un correttivo della logica di mercato attraverso l'intervento statale.

Il complesso e differenziato dibattito che, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, ha coinvolto larghe fascie sociali e movimenti nelle società sviluppate dell'Occidente, influenzando e sostenendo anche le posizioni contestatarie nei paesi orientali, ha indubbiamente arricchito la cultura politica e promosso, in misura forse mai prima così diffusa, un'attiva partecipazione politica in numerosi ceti e categorie sociali, basti pensare ai movimenti giovanili e a quelli delle donne. E' in questo periodo che viene infatti approfondendosi il discorso sui diritti umani, sul femminismo, sull'omosessualità, sui malati mentali, sulla difesa dell''ambiente, sul terzomondismo e i problemi della povertà, sulla pace e via dicendo. Malgrado tutti i limiti che possano essere oggi rilevati, non vi è dubbio che, in quella stagione, l'allargamento del discorso politico, (emblematico il noto slogan sessantottino "il privato è politico") e la gravità dei problemi affrontati, sia a livello dell'azione politica, sia a quello teorico (Habermas, Rawls, Foucault e tanti altri), abbiano enormemente contribuito ad arricchire la cultura politica dei paesi democratici, aumentando la consapevolezza collettiva circa le proprie responsabilità politiche. Dal punto di vista di chi si ponga oggi a considerare quel periodo, non può mancare di colpire la serietà di impegno e il senso di urgenza esistenziale, unito a grandi speranze di rinnovamento, che lo hanno caratterizzato.

2. Globalizzazione, particolarismo, terrorismo

A partire dagli anni Novanta, malgrado gli eventi che pure erano sembrati consacrare il successo di tante istanze democratiche di libertà e di giustizia, la cultura politica dei paesi occidentali appare entrata in crisi a causa del carattere brutale assunto dal processo di crescente globalizzazione, delle reazioni nei confronti di quest'ultimo che hanno portato all'accentuazione delle spinte particolaristiche e, infine, dei fenomeni di terrorismo internazionale che hanno avuto nell'evento devastante dell'11 settembre il loro momento emblematico.

Vorrei indicare qui di seguito brevemente alcuni degli elementi che hanno avuto un ruolo nel mutamento di prospettiva determinato da tali diversi momenti e nel profondo disorientamento, sia a livello individuale che collettivo, verificatosi in questi ultimi anni circa i valori e i modelli tradizionali della nostra cultura politica. Prenderò in considerazione soprattutto le rappresentazioni e le immagini che credo abbiano prevalso nel contesto sociale, senza analizzare le caratteristiche oggettive dei complessi fenomeni cui esse si riferiscono.

a) Il primo elemento può essere colto in quello che potremmo chiamare l'apparente predominio della dimensione economica su quella politica che si presenta con i caratteri di una nuova forma di ideologia. Va qui sottolineato il termine apparente in quanto, com'è ovvio, le due dimensioni sono sempre strettamente connesse. Più precisamente si dovrebbe parlare, oltre che di una trasformazione di certe strutture di potere, dell'attuale tendenza di tali strutture a celarsi e a legittimarsi sotto la maschera dell'agire economico e delle sue esigenze.

La caduta del muro di Berlino e la successiva disgregazione del blocco sovietico sono stati interpretati, in maniera crescente, non tanto come una vittoria del modello democratico e come esigenza di un suo adattamento alle nuove condizioni, quanto soprattutto come affermazione dell'economia di mercato. Il processo di globalizzazione è stato visto prevalentemente come il diffondersi su scala mondiale dei modelli omogeneizzanti della libera competitività e del consumismo, favoriti dai mass media e dalle nuove reti elettroniche di informazione e comunicazione. In questa prospettiva, ad esempio, la politica di aiuto economico ai paesi più svantaggiati della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale è stata quasi esclusivamente improntata a rigidi criteri di promozione della liberalizzazione dei mercati e della privatizzazione delle organizzazioni produttive e dei servizi, senza tener conto delle carenze delle istituzioni politiche e di quelle della formazione, come dell'assenza di adeguate strutture finanziarie e delle particolari condizioni sociali di quei paesi, per lo più con gravi conseguenze di accrescimento del divario tra ricchi e poveri, l'aumento del tasso di disoccupazione, del grado di povertà e via dicendo. E' venuto così progressivamente affermandosi un modello improntato a una sorta di cinismo della competitività in base al quale la povertà tende ad essere considerata semplicemente come una conseguenza di una non ancora adeguata applicazione dei principi del liberismo economico legata alla fase di transizione, secondo una mentalità che non è lontana dal pensare che i poveri siano in realtà i veri colpevoli della loro condizione di povertà. Tale cinismo è reso ancor più negativo dal fatto che i paesi ricchi hanno in realtà mantenuto, contrariamente ai principi di liberalizzazione da loro affermati, non poche situazioni di privilegio e di protezione doganale dei loro prodotti (Stiglitz 2002).

Sul piano strutturale, il crescente impatto delle imprese di produzione e distribuzione a carattere multinazionale e degli organismi internazionali di tipo politico-sociale ed economico-finanziario (ONU, Unione Europea, Organizzazione Internazionale del Lavoro, Organizzazione Mondiale del Commercio ecc.) e l'importanza assunta dal "capitale globale", caratterizzato da ingenti spostamenti di flussi finanziari che attraversano le diverse aree geografiche, hanno posto in crisi alcune funzioni tradizionali degli stati nazionali e lo stesso concetto di sovranità, dal momento che le decisioni più importanti per la vita collettiva vengono sempre più prese a livello internazionale da centri di potere non sempre facilmente identificabili. Come ha giustamente osservato Niklas Luhmann, il termine internazionale oggi non è più riferito, come in passato, ai rapporti tra i diversi stati, bensì al sistema globale nel suo insieme (Luhmann 1997, 7).

Il processo di accresciuta complessità dell'organizzazione mondiale, già iniziato negli anni precedenti l'epoca attuale, ha trovato oggi espressione nell'immagine della globalizzazione e ha avuto come riflesso la diffusa percezione da parte degli individui della loro impotenza a fronte dell'anonimato delle forze in gioco, della loro incapacità di controllare dinamiche i cui effetti vengono peraltro a riversarsi sulla vita quotidiana, sulle opportunità di lavoro, sugli stili di vita e, soprattutto, sulle condizioni dell'appartenenza politico-sociale e della solidarietà generale.

Entrambi gli aspetti qui ricordati circa la prevalenza dei valori strumentali legati alla vita economica e ai modelli della competitività, da un lato, e circa la complessità assunta dall'organizzazione mondiale, dall'altro, sembrano aver ulteriormente aggravato quel ripiegamento verso l'edonismo e quella chiusura nella vita privata denunciati da Strzyz (1978) già alla fine degli anni Settanta. Un processo che Richard Sennett (1982) aveva definito nei termini del "declino dell'uomo pubblico" e le cui radici erano state colte da Christopher Lasch (1979; 1985) nell'insicurezza che favoriva i valori privati di sopravvivenza e le forme regressive di narcisismo, aspetti peraltro sottolineati anche in tante analisi degli anni Novanta da parte di sociologi quali Giddens, Lipovetski, Melucci, Bauman e molti altri.

Si configura qui un primo evidente impoverimento della cultura politica a causa dell'indebolimento dei riferimenti che avevano connotato lo sviluppo del dibattito politico della fine degli anni Sessanta e dell'attenuarsi del senso di responsabilità e di partecipazione politica derivanti dall'affermazione di modelli e valori esclusivamente connessi al successo economico.

b) Un secondo elemento che ha contribuito a trasformare la cultura politica è invece legato al fenomeno del multiculturalismo e alle spinte particolaristiche da esso derivanti. Contrariamente alle apparenze che lo indicherebbero come un movimento in senso opposto alle tendenze omogeneizzanti del processo di globalizzazione, tale fenomeno risulta strettamente legato a quest'ultimo.

Com'è noto, i princìpi del multiculturalismo hanno favorito l'affermazione del principio della pari dignità delle diverse culture, a partire dal presupposto che nessuna cultura è legittimata a svolgere un ruolo egemone sulle altre, orientando a stabilire regole per la convivenza delle diverse culture secondo criteri di assoluta uguaglianza e rispetto reciproco. Paradossalmente sono state proprio le nuove possibilità aperte dallo sviluppo economico, controllato a livello mondiale dai centri transnazionali di potere, e, quindi in pratica da una nuova forma latente di colonialismo, a consolidare le legittime aspirazioni già da tempo presenti dei diversi paesi e gruppi etnici ad essere riconosciuti a pieno titolo.

La ragione per la quale i giusti princìpi del multiculturalismo hanno tuttavia finito per accentuare le forme di particolarismo, legate all'appartenenza etnica, religiosa, alle preferenze sessuali, o comunque a interessi locali e, in certi casi, all'integralismo nazionalistico, deve anche essere cercata nelle componenti psicologiche di tipo reattivo nei confronti dello stesso processo di globalizzazione. In effetti, le dimensioni di complessità ad esso connesse e il fatto che il tipo di modelli da esso diffusi sono principalmente orientati, come si è detto, a valori economici e tecnici, appaiono di per sé entrambi di ostacolo o, quanto meno, insufficienti ad offrire una base per la costituzione delle identità individuali e collettive, così come a fondare nuove forme di solidarietà generale. Nella situazione di crisi di tali identità e di perdita di prestigio da parte delle istituzioni politiche nazionali, la spiegazione delle spinte particolaristiche sembra quindi debba anche essere colta nella reazione emotiva che muove gli individui e i gruppi a cercare forme di identità locali più immediate di tipo etnico, religioso, nazionalistico ecc. Ciò spiega il ripiegamento verso forme di solidarietà familistiche, tribali, comunitarie o comunque connesse a interessi di gruppo e di difesa di autonomie particolari. La componente emotiva spiega, d'altro canto, la possibilità che tali tendenze particolaristiche siano suscettibili di manipolazione da parte di centri di potere economico e politico.

D'altra parte, la giusta difesa delle differenze e dei gruppi minoritari ha provocato, ad esempio, negli Stati Uniti, l'affermarsi di forme di autoritarismo e di intolleranza collegate all'azione delle minoranze attive, le quali, proprio in quanto assumono strategicamente il compito di difendere coloro che sono più pesantemente discriminati dalla società, tendono a considerare i loro membri unicamente nei termini della categoria che definisce la loro discriminazione: il genere, il colore della pelle, le preferenze sessuali e via dicendo. Ne consegue che gli individui, pur così difesi, sono costretti a conformarsi ai modelli propri della minoranza, la quale tende a considerare ogni comportamento difforme come una sorta di tradimento. Si è verificata così una sorta di imposizione autoritaria, che compromette non solo la possibilità per l'individuo di sviluppare una propria autonomia, ma anche la prospettiva di integrazione dei diversi soggetti nella società più ampia. Il fatto che l'identità particolaristica tenda ad essere posta al di sopra dei valori generali della cittadinanza determina un'erosione dei diritti umani fondamentali (Rockefeller 1994), con il rischio di accentuare le tensioni sociali, al limite fino a forme di fanatismo terroristico, che pongono a repentaglio, non solo le forme democratiche della convivenza, ma anche il mantenimento di un qualunque tipo di ordine sociale.

Come ha rilevato Richard Sennett, il fenomeno del multiculturalismo così come si è venuto sviluppando nella società americana ha portato in pratica al fatto che "ogni gruppo si trincera nelle proprie appartenenze identitarie e nei propri stili di vita ed è assolutamente indifferente alle condizioni di vita degli altri. Così il multiculturalismo decreta la fine del discorso pubblico" (Sennett 1998, p. 12).

Anche in questo caso quindi, malgrado le indubbie possibilità di arricchimento contenute nel multiculturalismo, vengono di fatto a prodursi una frammentazione e una riduzione dell'orizzonte della cultura politica, con riflessi del tutto negativi circa la possibilità di definire nuove basi della solidarietà generale.

c) Il terzo, forse più devastante, elemento da prendere in considerazione riguardo all'attuale crisi della cultura politica è quello connesso all'attentato terroristico dell'11 settembre.

Come ho già avuto modo di sottolineare in altra sede (Crespi 2003), occorre anzitutto riconoscere che la reazione della società americana a tale attentato ha confermato ancora una volta la sua grande capacità di reagire a situazioni di emergenza in modo unanime, attraverso rituali collettivi volti a riaffermare con forza i valori di solidarietà democratica e di appartenenza che ormai da lungo tempo hanno caratterizzato la sua cultura politica. Si deve, tuttavia, anche prendere atto del fatto che, sin dall'inizio, determinate reazioni di parte dell'opinione pubblica e soprattutto del governo repubblicano, in particolare il ricorso all'immagine del "conflitto di civiltà", la decisione di dichiarare guerra al terrorismo attraverso il conflitto afghano e l'intenzione di estendere tale conflitto all'Irak, hanno messo in evidenza un'intrinseca fragilità e una carenza di strumenti concettuali e strategico-politici adeguati a far fronte alla nuova dimensione che ha assunto, a livello globale, il fenomeno dilagante del terrorismo prevalentemente ispirato dal fondamentalismo di tipo islamico.

In passato, nella logica delle dinamiche di potere tradizionali tra nazioni e tra gruppi di interesse politico-economico sovranazionali, la pressione rappresentata dai bisogni e dalle aspirazioni delle masse popolari giocava in genere solo un ruolo indiretto. Le istituzioni e i centri di potere svolgevano un'opera di mediazione, spesso fondata sulla cinica manipolazione delle coscienze, che, come era avvenuto per i paesi comunisti durante la guerra fredda, manteneva per lo più il controllo delle possibili spinte eversive. Se la caduta del muro di Berlino aveva in certo senso già mostrato la possibilità di un nuovo protagonismo delle masse, la crisi delle grandi ideologie totalizzanti e l'affermazione dell'economia di mercato e dei valori tecnologici e consumistici sembravano rendere improbabile la ripresa di movimenti fondamentalisti, tanto che ci fu chi ipotizzò la fine della storia.

Sono tuttavia le stesse possibilità aperte dalla globalizzazione e dal diffondersi dei principi del multiculturalismo ad aver favorito ed accentuato, in vaste aree della popolazione mondiale, la diffusa percezione di essere vittime dell'ingiustizia derivante dalle nuove forme di colonizzazione legate all'imperialismo degli interessi capitalistici e finanziari delle grandi compagnie sovranazionali, degli Stati Uniti e di alcuni Stati europei. Pur senza escludere che anche le attuali forme di terrorismo abbiano in realtà la loro origine nelle strategie di diversi centri di potere economico-politico, resta il fatto che l'affermarsi dell'azione terroristica in più parti del mondo sembra conferire, all'interno dei rapporti tra i centri di potere, per così dire, più tradizionali, un ruolo di terzo interlocutore ai nuovi movimenti fondamentalisti, le cui caratteristiche di imprevedibilità e il cui radicalismo non appaiono più controllabili con le vecchie forme di mediazione. Il terrorismo si caratterizza da sempre infatti come un fenomeno distruttivo, animato dal fanatismo dello spirito "kamikaze", con il quale non è possibile scendere a patti o stabilire trattative di compromesso e, fatto forse ancor più grave, nei confronti del quale non è neppure possibile stabilire un rapporto di guerra, dato che il suo protagonismo sfugge sia alle identificazioni territoriali sia a quelle di una popolazione facilmente determinabile.

Da un lato, il terrorismo rappresenta indubbiamente istanze reali, anche se in molti casi espresse in forme emotive di tipo diffuso, prive di un progetto strategico mirato al conseguimento di scopi precisi; dall'altro, esso appare come la punta di un iceberg, come il prodotto di una minoranza fanatica che rappresenta tutti e nessuno. Il terrorismo, nella sua richiesta utopica e quasi magica di una soluzione totale raggiunta senza negoziazioni, è il sintomo di una patologia reale che peraltro stenta ad essere circoscritta in un ambito di richieste specifiche. Come mostra il conflitto israelo-palestinese, rispondere al terrorismo con la contrapposizione identitaria e con la violenza vuol dire dare l'avvio a un'escalation simmetrica senza fine, che non può che risolversi in effetti distruttivi per tutti i contendenti.

Per queste ragioni, come è stato del resto rilevato da più parti, le posizioni dettate dall'idea di un "conflitto di civiltà" o di una "guerra al terrorismo" appaiono profondamente inadeguate. Le grandi scuole del pensiero politico americano hanno, in tutti questi anni, sviluppato schemi di riferimento concettuale forse troppo unilateralmente ispirati al cognitivismo e alla razionalità strategica fondata sul calcolo degli interessi per poter far fronte alla complessità e all'indeterminatezza del fenomeno del nuovo terrorismo globale.

Allo stato attuale, a parte le inevitabili misure di controllo internazionale di tipo poliziesco, l'unica forma valida di lotta al terrorismo sembra dover evitare lo scontro frontale per seguire la logica trasversale dell'accerchiamento e dell'isolamento delle componenti fanatiche, facendo appello a tutte quelle forze politiche, sociali e culturali che pure sono presenti nelle aree nelle quali il terrorismo trova la sua principale fonte di legittimazione e le maggiori opportunità di reclutamento. Ovviamente si tratta qui di adottare una strategia di lungo respiro, fondata principalmente sulla capacità diplomatica di stabilire nuove forme sostanziali di comunicazione e di compromesso, a partire dalla disponibilità a cedere porzioni di potere e situazioni di privilegio e ad attuare politiche di alleanza anche con quegli Stati che possono apparire più lontani dalla nostra tradizione democratica, soprattutto promuovendo interventi non dirigisti di sostegno delle forze sociali ed economiche già presenti nelle aree più disagiate. In questa direzione diventa inoltre di primaria importanza l'immagine che l'Occidente dà di se stesso e la sua disponibilità ad aprire un dialogo con tutti coloro che restano estranei al terrorismo.

L'attuale politica degli Stati Uniti sembra andare in direzione diametralmente opposta a quanto una semplice analisi dei fatti sembra suggerire: non solo, contrariamente ai reiterati tentativi della politica di Clinton, è stato commesso il grave errore di acuire il conflitto israelo-palestinese dando unicamente appoggio alle devastanti posizioni integraliste del governo Sharon, ma si è anche insistito su una giustificazione chiaramente strumentale dell'intervento bellico come "lotta al terrorismo". Inoltre l'irrigidirsi di posizioni difensive che hanno portato alla sostanziale restrizione di diritti democratici all'interno degli Stati Uniti, la tendenza a delegittimare l'ONU e, infine, la palese lesione dei diritti internazionali rappresentata dal campo di concentramento nella base di Guantanamo, costituiscono tutti elementi che compromettono gravemente l'immagine dei sistemi democratici.

Tutto ciò ha profondamente incrinato uno dei modelli tradizionali della nostra cultura politica, che, malgrado le numerose critiche che sono state da vari anni rivolte al sistema americano, ha pur sempre avuto come riferimento ideale le istituzioni democratiche e la vitalità della società civile degli Stati Uniti. Il fatto che la loro immagine appaia irrimediabilmente offuscata dalle prese di posizione di tipo imperialistico del governo repubblicano, non solo come conseguenza dell'attentato terroristico, ma anche, ad esempio, in relazione al rifiuto di riconoscere il trattato di Kyoto per la difesa dell'ambiente o al non-intervento nei confronti del rifiuto delle case farmaceutiche di ridurre, nei paesi più poveri, i prezzi dei medicinali per la terapia contro l'AIDS e altre gravi malattie, costituisce senza dubbio un fattore di ulteriore disorientamento.

In questa situazione, sembra che la cultura politica sia costretta ad approfondire nuove possibilità di risposta e ad assumere nuovi modelli di riferimento. In primo luogo, occorre riaffermare, rispetto alla logica strumentale dell'economicismo imperante, l'esigenza di ridefinire un orizzonte normativo e sociale che rivaluti le istanze di giustizia sociale e di equa distribuzione delle ricchezze, contrapponendo all'ideologia fondata sulla liberalizzazione dei mercati, sulla competitività e sul consumismo sfrenato un'etica della comunicazione, del riconoscimento reciproco e della responsabilità collettiva. In questa direzione, i movimenti no-global sembrano esprimere una reazione della società civile mondiale che restituisce alla cultura politica contenuti essenziali di critica dell'ordine di potere costituito, di ripresa del controllo politico attraverso la partecipazione dei cittadini e di promozione generalizzata della loro emancipazione.

In secondo luogo, nei confronti del particolarismo il compito della cultura politica sembra dover essere quello di ripensare i valori e le condizioni per ricostituire nuove basi della solidarietà generale su regole universalistiche che non privilegino ideali di vita determinati, ma anzi garantiscano il maggiore spazio al riconoscimento della diversità delle culture e all'autorealizzazione individuale (Rosati 2001).

In terzo luogo, infine, riguardo al conflitto con i paesi islamici, la cultura politica si trova confrontata dalla rimessa in discussione delle concezioni che interpretavano il processo di secolarizzazione che ha investito le società occidentali come l'unico possibile esito della modernità. Come ha osservato Adam Seligman, se il processo di secolarizzazione sviluppatosi nella tradizione liberale-protestante ha certamente avuto il merito di privatizzare le credenze religiose e di cercare una legittimazione del potere a partire da principi universali di razionalità, tale processo era in realtà fondato sull'indiscusso valore dell'autonomia individuale e sulla capacità degli individui di esercitare un controllo razionale sulle condizioni della convivenza sociale (Seligman 2002, 199 sgg.). La solidarietà sociale aveva quindi come base un modello culturalmente definito emerso nella tradizione dell'Occidente, che, oggi, è contestato da altre tradizioni soprattutto di provenienza orientale.

L'idea dell'intimo nesso sussistente tra sviluppo della modernità e secolarizzazione viene oggi messa in discussione dal riaffermarsi di concezioni di tipo religioso, non necessariamente di tipo dogmatico, ma che, ad esempio, rifiutano i valori della preminenza dell'individuo rispetto alle esigenze dell'integrazione sociale: "A livello empirico il problema è evidente. Se la politica liberale e l'ordine sociale secolarizzato sono l'unica premessa possibile della tolleranza, allora andiamo incontro a tempi difficili, perché il processo di secolarizzazione sembra regredire e le concezioni liberali dell'individuo e della società vengono attaccate in molte parti del mondo" (ivi, 206).

In questo contesto, Jürgen Habermas ha posto in evidenza che attualmente ci troviamo di fronte a due fondamentalismi contrapposti: il primo è rappresentato dal processo di secolarizzazione, che, in Occidente, è stato vissuto per lo più come una liberazione creatrice rispetto alle strutture sociali tradizionali, mentre il secondo è rappresentato, in Oriente, dal fondamentalismo religioso che trae la sua radice soprattutto dal fatto che, in molti paesi di quell'area, la secolarizzazione non ha dato luogo "a nessuna concreta compensazione per il dolore causato dal disfacimento di forme di vita tradizionali" (Habermas 2002, 100). Se, in Occidente, la ridefinizione delle identità individuali e collettive è stata sostenuta, pur se con perdite evidenti di valori (crisi delle identità), dal successo economico; in Oriente e in molti paesi africani, tale ridefinizione non ha potuto aver luogo, in quanto alla crisi delle identità tradizionali - indotta dal neo-colonialismo tecnologico ed economico - non hanno corrisposto trasformazioni effettive delle condizioni di vita della maggioranza delle persone. Da qui la ricerca di far rivivere identità collettive legate al passato e il rischio della radicalizzazione del conflitto in termini identitari, sia a livello locale che internazionale, quale "conflitto di civiltà".

Su questa base, Habermas ritiene che una soluzione andrebbe cercata, al di là del conflitto di identità, nella disponibilità di entrambe le parti "ad accogliere anche la prospettiva della parte avversa", trasformando la nostra cultura in modo da evitare di "condurre a una scorretta esclusione della religione dalla sfera pubblica (esito che priverebbe la società secolare d'importanti risorse della fondazione del senso)" e mantenendo al contrario l'apertura alla forza di articolazione dei linguaggi religiosi, tenuto conto che "Il confine tra ragioni religiose e ragioni secolari è in ogni caso fluido. Perciò lo stabilimento di questo confine controverso dovrebbe essere concepito come un compito cooperativo" (ivi, 106-107).

3. Il caso italiano

Nel quadro delle dimensioni generali sopra ricordate, il caso italiano presenta attualmente peculiarità che rinviano necessariamente ad aspetti più concreti e circoscritti.

Com'è noto le indagini politogiche e sociologiche condotte negli ultimi decenni sulla cultura politica in Italia, hanno per lo più sottolineato le gravi carenze di quest'ultima, ponendo in evidenza le difficoltà che il nostro paese ha incontrato nella formazione di una società civile unitaria, capace di sviluppare un efficace controllo sulle spinte particolaristiche e individualistiche che caratterizzano la società italiana e di sostenere efficacemente le istituzioni politiche democratiche (Crespi e Santambrogio 2001; Fantozzi 2001).

Occorre, tuttavia riconoscere, che, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, vi era stato un vigoroso sviluppo del discorso politico che aveva interessato, come negli altri paesi europei, larghe fasce e categorie sociali. La capacità di risposta democratica da parte dei partiti e dello Stato agli attentati eversivi che hanno lacerato la vita politica italiana soprattutto negli anni Settanta e Ottanta e le posizioni assunte dall'opinione pubblica in quello stesso periodo sono state indubbiamente anch'esse un momento di crescita e consolidamento delle istituzioni democratiche che ha arricchito la nostra cultura politica. Inoltre, soprattutto negli anni Novanta, il processo che ha portato l'Italia a entrare nell'Unione Europea era sembrato costituire una importante occasione per aprire la nostra coscienza politica a orizzonti più ampi, stabilendo radici più profonde di appartenenza ai modelli democratici e compensando, per certi aspetti, con una più stretta appartenenza alla comunità europea le carenze derivanti dallo scarso sentimento di unità nazionale che ha caratterizzato la tradizione italiana.

Nello stesso periodo, un altro elemento positivo può essere colto nel soprassalto della coscienza collettiva prodotto dall'azione dei giudici di "Mani pulite" che era sembrato risvegliare, in maniera forse mai prima così elevata, un'opinione pubblica particolarmente avvertita e consapevole delle proprie responsabilità.

Sono pertanto numerosi gli elementi che hanno segnato una svolta della cultura politica italiana, indicando la giusta direzione del suo sviluppo. Purtroppo l'influenza dell'ideologia economicista promossa dalla globalizzazione e le spinte verso il particolarismo cui sopra accennavo, con la conseguente disaffezione verso le istituzioni politiche tradizionali, aggravata in Italia dalla denuncia di Tangentopoli circa la corruzione della classe politica dirigente, hanno portato, anziché a una risposta politica creativa, a una sorta di regressione verso prospettive politiche solo apparentemente innovative, compromettendo le possibilità di rafforzamento della cultura politica che si erano aperte nelle fasi precedenti.

Il nuovo periodo politico che si è aperto, in questi ultimi anni, con la vittoria elettorale di Forza Italia e della Lega, appare determinato prevalentemente dal rifiuto della politica, in una situazione nella quale viene a mancare il rispetto per le istituzioni e le regole democratiche e si afferma brutalmente la logica degli interessi personali e di gruppo, con l'accentuazione di conflitti localistici o regionali. Sembra così si vada affermando anche da noi il modello imperante a livello globale di una competitività priva di princìpi che cerca la sua autorealizzazione nel successo rappresentato esclusivamente dal denaro e dal potere. La svalutazione e l'attacco contro i giudici di Mani pulite, cui è stata complice anche parte della sinistra, sembrano aver interrotto il circolo virtuoso che era venuto determinandosi in precedenza, riproducendo i peggiori difetti del passato e provocando una nuova crisi della cultura politica italiana.

La diffusa percezione che, nella lotta tra i giudici e le forze politiche orientate a una reale trasformazione democratica, da un lato, e la classe dei politici inquisiti, dall'altro, abbia vinto quest'ultima; il fatto che numerosi deputati eletti dalla destra siano entrati in politica prevalentemente per ottenere l'immunità parlamentare e proteggersi così dalle inchieste giudiziarie ha avuto effetti dirompenti di sostanziale svilimento delle istituzioni giuridiche e politiche, di demoralizzazione della partecipazione politica e di accentuazione delle propensioni tradizionalmente presenti nella nostra cultura verso la chiusura nei propri interessi privati e locali, con la rimessa in discussione persino dell'unità nazionale. Se anche il nostro paese ha subìto l'influenza dei processi prima descritti che, a livello mondiale, hanno posto in crisi la cultura politica, l'attuale situazione politica italiana appare come una versione del tutto particolare di tale crisi, la cui anomalia è posta in evidenza dall'impossibilità di ricondurre l'immagine dell'attuale governo a una qualunque forma della destra tradizionale secondo i modelli di altri paesi europei.

D'altra parte, il fatto che il conflitto di interessi riguardante il presidente del consiglio, come provano le diverse indagini demoscopiche condotte in questi anni, non abbia costituito in nessun modo una remora per gli italiani che lo hanno eletto e la scarsa reazione dell'opinione pubblica nei confronti delle nuove leggi orientate a salvare dai processi lo stesso presidente del consiglio e altri deputati, appaiono purtroppo come una riprova, almeno per quanto riguarda una buona metà della popolazione, del più volte rilevato infimo livello della cultura politica in Italia.

Queste pessimistiche e molto schematiche osservazioni non devono tuttavia portarci a sottovalutare la presenza di forze politiche e sociali che anche in Italia si orientano, nella direzione che ho prima cercato di indicare, verso nuove forme di cultura politica, fondate sulla critica dell'economicismo consumistico, sulla denuncia delle logiche di potere prevalenti a livello globale e sulla definizione di nuove basi della solidarietà generale. La vivacità dei movimenti che si sono venuti esprimendo attraverso le diverse manifestazioni che hanno avuto luogo in quest'ultimo arco di tempo sembra testimoniare la possibilità, anche da noi, di una vigorosa ripresa della società civile e di un sostanziale rinnovamento della cultura politica democratica.

Non resta che augurarsi che anche l'Italia, sulla base delle esperienze positive che anche da noi si erano venute sviluppando nella seconda metà del secolo scorso, possa, insieme alle forze democratiche oggi più attive a livello mondiale, contribuire al costituirsi su scala planetaria di una nuova eticità universale fondata su forme istituzionali e su una prassi comune ispirate alla tradizione moderna della libertà, dell'autonomia e della legalità (Cortella 2002, 242).

 

Riferimenti bibliografici

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