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Editoriale

La guerra all'Irak e il nuovo ordine mondiale

di Fabio de Nardis


1. Mentre scriviamo queste righe leggiamo sui giornali che Baghdad è caduta e la guerra in Iraq, iniziata il 20 marzo 2003 contro il parere della comunità internazionale e di buona parte dell’opinione pubblica, si avvia alla conclusione. Eppure sembrano pochi i politologi e gli opinionisti veramente convinti che la situazione sia destinata a tranquillizzarsi nel breve termine. Saddam è ancora latitante e molti sono coloro che temono che la guerra all’Iraq sia solo un episodio di un disegno strategico ben più ampio che vedrà gli Usa impegnati in altre operazioni belliche nell’area geopolitica mediorientale.

Alcuni collaboratori del Presidente Bush hanno già espresso la necessità di allargare quanto prima il conflitto ad altri Stati "canaglia", come l’Iran e la Siria, nel nome della democrazia e della lotta al terrorismo1. Eppure il teorema democrazia vs. tirannia non convince, per il semplice motivo che troppe sono le tirannie e le guerre civili sanguinarie che affliggono il pianeta, ma mai ci si è mobilitati sollecitando o imponendo loro un processo di democratizzazione. Anzi, la maggior parte degli Stati che gravitano attorno alla sfera d’influenza statunitense, formando quello che qualcuno ha definito l’"Impero", non sono liberal-democratici ma regimi di polizia: si pensi ai paesi arabi "amici" come il Pakistan, l’Arabia Saudita, il Kuwait, oppure le diverse realtà oligarchiche dell’America Latina, per citarne solo alcuni. Come scrive Asor Rosa2, la democrazia e il capitalismo sono un qualcosa che riguarda quasi esclusivamente l’Occidente che è solo il cuore economico e militare dell’Impero, non la sua totalità. Anzi, la democrazia è uno degli elementi discriminanti tra il centro dell’Impero e i suoi tanti Stati satellite.

Si tratta di un vero "sistema" con un centro saldamente protetto da un numero di cerchi concentrici che hanno sovente bisogno della guerra per poter essere messi in riga. La forza militare è dunque intesa come supporto al consolidamento e all’espansione di un modello economico che è il mercato. Tra democrazia e capitalismo non c’è dubbio che sia il secondo elemento a prevalere. Per entrare a far parte dell’Impero, inteso come quel vasto sistema di alleanze politico-economico-militari che individuano il loro centro negli Stati Uniti, non occorre adeguarsi alla sintesi democratico-capitalistica, che sotto certi aspetti ne rappresenta il verbo fondativo, ma è sufficiente abbracciare le ragioni dell’espansione economica in senso capitalistico.

D’altronde, l’idea dell’esportazione armata della democrazia appare quanto meno improbabile. Se infatti non è impossibile imporre l’adozione di procedure democratiche (elezioni, multipartitismo, ecc.) non è altrettanto facile imporre una cultura democratica e dei diritti civili che è il presupposto al buon funzionamento di un sistema democratico. Il rischio è quello di determinare le condizioni per l’affermazione di semplici "democrazie elettorali" in cui, pur sussistendo i presupposti "formali" per la definizione democratica di un regime, ne manchino altresì i presupposti "sostanziali" (cultura dei diritti, del dialogo o del conflitto dialettico), come purtroppo capita in molti dei regimi di nuova democrazia in Asia e nel Sud America3. Possiamo dire che nella fase del trionfo della democrazia (almeno nella sua versione liberal-democratica) essa entri nella sua più grave crisi: più debole e meno partecipata a livello locale e nazionale; schiacciata dal connubio tra potere economico e militare a livello globale.

2. Tale predominio del militare sul politico emerge con chiarezza dal documento prodotto dall’amministrazione Bush e pubblicato dal New York Times il 20 settembre 2002 con il titolo, The National security strategy of the United States of America. Esso si presenta subito come una vera e propria enciclica per il terzo millennio in cui gli Stati Uniti si assumono direttamente la responsabilità di difendere il mondo dalla minaccia del terrorismo e della tirannide (The United States welcomes our responsibility to lead in this great mission).

Dalla lettura del testo si lascia intendere che la guerra contro il terrorismo, per l’indeterminatezza dell’obiettivo, sarà lunga, potenzialmente infinita, rendendo necessario, contro ogni prescrizione del diritto internazionale, anche il carattere "preventivo" dell’azione bellica, per evitare di essere colpiti per primi come è avvenuto l’11 settembre 2001 (We cannot let our enemies strike first).

In questo senso, irrilevante è il condizionamento delle Nazioni Unite in quanto gli Usa, in questa loro missione, pur cercando di volta in volta il consenso della comunità internazionale, non esiteranno ad agire unilateralmente esercitando un legittimo diritto all’autodifesa. Non sarà infatti consentito che le operazioni belliche siano in qualche modo "ostacolate da potenziali investigazioni, inchieste o rinvii a giudizio da parte della Corte Penale Internazionale, la cui giurisdizione non può essere estesa agli americani e che noi non accettiamo".

Essendo la minaccia potenzialmente ovunque tale "diritto" all’azione immediata può essere esercitato in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, non solo verso l’esterno ma anche verso l’interno, prefigurando una fase drammatica di militarizzazione della democrazia, di aumento dei controlli sugli individui contro ogni legge sulla privacy. Una sorta di involuzione totalitaria dei sistemi democratici sollecitata dalla diffusione di una nuova cultura del "sospetto" e rafforzata, come sovente capita nei totalitarismi, dalla riscoperta di una nuova "mistica".

In questa fase di crisi internazionale vengono abbattute le fondamenta laiche su cui si sono edificati i sistemi politici moderni e quel Dio un tempo secolarizzato e privatizzato torna ad essere, da ambo i lati, l’attore principale del contendere, trasformando una guerra dal sapore chiaramente politico-economico in un tragico, e per sua natura irrisolvibile, conflitto tra civiltà. Si registra un ritorno della teologia in politica, negli appelli di Bush così come in quelli dei suoi avversari, e un ritorno del "demoniaco" identificato nel nemico da abbattere. Al fondamentalismo islamico si contrappone un nuovo fondamentalismo cristiano, ben presente nell’ideologia di Bush e della sua corte, una sorta di Jihad occidentalista in parte speculare a quella di Bin Laden.

3. Eppure questo comportamento non fa che stimolare la già radicata diffidenza del mondo arabo nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occidente complessificando l’eventuale processo di democratizzazione che dovrebbe coinvolgere quell’area in generale e l’Iraq in particolare.

Per comprendere il perché della tradizionale avversione degli Irakeni, e in genere delle popolazioni arabe, nei confronti dello straniero occidentale, non dobbiamo ricorrere a considerazioni di carattere religioso quanto piuttosto riferirci ai decenni di interferenza da parte di alcune potenze europee e degli Stati Uniti nelle questioni economiche e di politica interna dei paesi dell’area mediorientale. Per quanto riguarda l’Iraq, bisogna risalire alla caduta dell’Impero Ottomano, alla fine della Prima guerra mondiale, per comprenderne la storia, caratterizzata da una marcata instabilità politica e da un crescente sentimento nazionalista avverso alle pressanti velleità neocoloniali di alcuni Stati occidentali4.

Dall’armistizio di Mudros (30 ottobre 1918), che pose fine alla Grande guerra, la maggior parte dell’attuale Iraq venne formalmente amministrata dal comandante in capo delle forze armate britanniche che creò dal nulla un efficiente sistema amministrativo al vertice del quale vennero collocati ben 534 alti funzionari di cui solo una ventina erano però di nazionalità Irakena, mentre ai livelli inferiori circa il 50% dei dipendenti pubblici era di nazionalità indiana al soldo degli inglesi.

Questa situazione di protettorato britannico sarebbe stata poi formalizzata alla Conferenza di Sanremo, nell’Aprile del ‘20, quando il Regno Unito ottenne formalmente il mandato della Società delle Nazioni sull’Iraq, in seguito al quale, nel’21, dopo aver insediato un Consiglio di Stato di composizione mista (arabi e inglesi), avrebbe offerto il trono iracheno al principe hashimita Faisal ibn Husein, di una dinastia estranea alle origini e tradizioni della maggior parte della popolazione irachena. Consolidata così la propria autorità gli inglesi imposero, il 10 ottobre 1922, un trattato che riconosceva gli "interessi speciali" della Gran Bretagna sull’Iraq; e solo successivamente, nel ’24, la legge organica approvata da un’assemblea costituente definì l’Iraq come uno Stato sovrano retto da monarchia costituzionale, quindi "formalmente" democratico e indipendente.

Nonostante i presupposti per lo sviluppo di una democrazia parlamentare non esistevano, in Iraq, veri partiti politici, bisognerà infatti aspettare l’abbozzo di una prima industrializzazione perché la vita politica si vitalizzasse. Prima di allora i partiti erano piuttosto cartelli clientelari caratterizzati da una più o meno marcata venatura nazionalista e panaraba ma generalmente senza una vera ideologia costitutiva. L’unica contrapposizione ideologica era quella tra nazionalisti ed élites filobritanniche che determinò una grande instabilità politica e una serie infinita di colpi di Stato sovente sostenuti dall’esercito, l’unico gruppo organizzato che fin dagli anni ’20 potesse vantare una certa coesione strutturale.

Le prime forme di industrializzazione si devono invece alla scoperta di alcuni giacimenti petroliferi grazie alle operazioni di ricerca regolate fin dal 1911, non da arabi, ma da un accordo tra olandesi, britannici e tedeschi che si coalizzarono per evitare un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti, già allora interessati all’area e che riuscirono a intensificare i rapporti con l’Iraq solo negli anni Ottanta, anche per contenere gli stretti rapporti di "amicizia" che legavano il regime iracheno all’Unione Sovietica.

Oltre al preesistente Partito comunista iracheno, per molti decenni la forza politica di gran lunga più organizzata, nei primi anni ’50 sarebbe nato anche uno di quei rari partiti che nel mondo arabo potesse godere di una vera ideologia e di un programma articolato: il Ba`th o Partito della resurrezione araba (Hizb al-ba`th al-`arabî), fondato a Damasco dal greco-ortodosso Michel `Aflaq e caratterizzato da un rigido programma panarabo. Fin dai primi anni comincerà a militare nelle sue fila un giovane di famiglia contadina, Saddam Hussein detto el-Takrîtî, perché nato nel ’37 a Takrît, un piccolo villaggio sulle rive del Tigri.

La carriera di Saddam nel partito fu molto rapida assumendone presto la vice-segreteria generale che, dopo un colpo di Stato incruento che rovesciò il precedente regime militare, significò presto la vice-presidenza della repubblica del comando della rivoluzione e, dopo la destituzione per problemi di salute del presidente Ahmed Hasan Al Bakr, la leadership del regime, assunta formalmente il 16 luglio 1979 e consolidata con l’eliminazione anche fisica di qualsiasi possibile avversario e lo scioglimento di ogni partito diverso dal Ba`th.

Il regime di Saddam fu il primo a limitare l’interferenza diretta di Stati stranieri nelle questioni interne anche se non si poté evitare quella indiretta prima da parte dell’allora Unione Sovietica e poi da parte degli Usa che, come nota Gilles Kepel con l’intervento in Iraq, ma anche con quello precedente in Afghanistan, hanno intenzione di chiudere con una vecchia logica che in passato ha fatto sì che gli Stati Uniti incoraggiassero e finanziassero lo sviluppo di movimenti e regimi locali che con il tempo gli si sono rivoltati contro. È il caso dell’Iraq di Saddam ma anche dei Talebani afghani.

4. Questa politica inizia nel 1979, anno di grandi trasformazioni nell’arena geopolitica mediorientale. Crolla il regime Scià, in un certo senso unico vero garante della sicurezza in quella zona petrolifera; trionfa la rivoluzione islamica in Iran con il conseguente attacco alla Mecca nel mese di novembre, indice della fragilità dei sauditi e della debolezza strutturale dell’islam wahhabita, di ispirazione conservatrice ma collocato saldamente al fianco dell’Occidente; infine, nel mese di dicembre, le armate sovietiche invadono l’Afghanistan.

Gli Stati Uniti, ancora scossi dalla dura sconfitta in Vietnam, non intervengono direttamente per contrastare l’avanzata sovietica, da un lato, e l’espansione khomeinista, dall’altro. Si opta per una strategia più indolore, meno esposta allo sguardo critico dell’opinione pubblica ma altrettanto efficace nel lungo periodo. Si affida la resistenza ad alleati locali sostenuti economicamente e in termini di intelligence. Dunque, l’Iraq nel settembre 1980 attacca l’Iran contenendo l’avanzata fondamentalista e proteggendo l’area petrolifera, mentre in Afghanistan, i mujahidin, insieme ad altri militanti della Jihad, perlopiù di origine pakistana, si oppongono duramente all’armata rossa "trasformando al passaggio l’antiamericanismo dell’islam radicale khomeinista in antisoviettismo di buona fattura wahhabita"5.

Come si diceva, a distanza di alcuni anni la politica americana sembrò vincente. Nel 1988 l’ayatollah iraniano è costretto a firmare l’armistizio con Saddam Hussein, mentre in Afghanistan, nel 1989, i ‘combattenti per la libertà’ islamici costringono alla ritirata l’esercito sovietico. A questo punto però Iran, Iraq e Afghanistan, dopo quasi un decennio di guerra sono praticamente in rovina. Eppure, Gli Stati Uniti non muovono un dito per finanziare la ricostruzione. Ottenuto ciò che volevano smettono di finanziare la Jihad islamica, contribuendo a far crescere il sentimento di diffidenza antioccidentale, e non offrono alcun aiuto al fedele alleato Saddam Hussein.

Quest’ultimo, in particolare, indebolito economicamente dalla guerra e dalla distruzione dei propri pozzi di petrolio che gli impediscono un aumento della produzione come imporrebbe il mercato del greggio, il 2 agosto 1990 annette il Kuwait, piccolo staterello arabo filoamericano ricco di giacimenti.

Da questo punto in poi la storia è nota: L’esercito americano interviene direttamente sostenuto da una coalizione internazionale che include anche l’Italia costringendo Saddam Hussein alla ritirata. È la prima guerra del Golfo e gli Stati Uniti vincono senza grandi problemi la loro desert storm (tempesta del deserto) senza però rovesciare il regime di Saddam, in linea con le prescrizioni del mandato Onu. Gli anni successivi sono caratterizzati da politiche di logoramento che puntano a neutralizzare l’Iraq attraverso l’embargo, trascurando la proliferazione della Jihad afghana e il rafforzamento del fondamentalismo attorno alla figura evanescente di un certo Osama Bin Laden, un multimiliardario di origine saudita.

La liberazione del Kuwait consente a Bush (padre) di imporre ad Arafat e Shamir l’avvio di un processo di pace poi sostenuto attivamente dalla successiva amministrazione Clinton, convinta di poter contenere le pulsioni arabo-islamiche impegnandosi per la costituzione di uno Stato palestinese. Eppure questo processo finì con l’arenarsi a causa della reciproca diffidenza di Israeliani e palestinesi, dando inizio, nel settembre 2000, alla seconda sanguinaria Intifada.

Nel frattempo la jihad si rafforza producendo i primi grandi attentati terroristici, a Nairobi (7 agosto 1998), ad Aden (ottobre 2000), fino a raggiungere il cuore stesso degli Stati Uniti con il terribile attentato dell’11 settembre 2001, costringendo George W. Bush a rimettere definitivamente in discussione la politica condotta sul Medio Oriente per combattere un nemico invisibile.

Prima viene attaccato l’Afghanistan degli ex-alleati talebani, per i provati legami con le cellule terroristiche di Osama Bin Laden, con la "formale" rimozione del regime oscurantista fondato sulla sharîa e l’insediamento di un governo pseudodemocratico6; poi si prende spunto dalla questione delle armi di distruzione di massa (peraltro mai trovate) per dichiarare guerra all’Iraq di Saddam Hussein, questa volta però senza il consenso delle Nazioni Unite e in un contesto di dubbia legittimità internazionale.

5. Il futuro democratico dell’Iraq dipende oggi da come gli Stati Uniti decideranno di impostare la ricostruzione. L’idea che si profila di un impegno per la transizione da parte di singoli Stati (tra cui l’Italia) che escluda l’Onu sotto la guida degli anglo-americani, non fa che rafforzare l’immagine di una "invasione", agli occhi di un popolo perlopiù socializzato a valori e tradizioni di origine tribale che enfatizzano il senso di solidarietà panaraba. Il rischio è quello che altri giovani si possano mobilitare in nome della fratellanza etnico-culturale, prima che religiosa, attivando una lunga escalation di attentati suicidi. Si tratterebbe di qualcosa che noi non capiremmo ma che rientra a pieno nella logica dei codici morali del popolo arabo, in cui l’onore e la dignità si realizzano solo in una dimensione collettiva; niente di più incomprensibile per una società individualizzata come la nostra. Lo stesso corpo degli individui acquisisce in questi contesti una sua identità primariamente sociale. Morire per gli altri, per i propri "fratelli", vuol dire continuare a vivere attraverso i loro corpi7.

Il radicalismo islamico in questo senso conta poco, è solo la cornice retorica che da risalto al sacrificio umano nobilitandolo. Anzi, come spiega lo stesso Kepel, esso, se non stimolato ulteriormente, è destinato a un lento ma inesorabile declino8. È naturale che possieda una grande forza di attrazione in quelle situazioni dove rappresenta l’unica valvola di sfogo, l’unico sbocco dopo anni di frustrazioni e sfruttamento9. Il fondamentalismo islamico contemporaneo non possiede in realtà un effettivo fondamento religioso ma trova il suo brodo di coltura nella povertà e nell’ignoranza.

Anche l’Iran, da sempre patria dell’islamismo radicale, grazie all’orientamento moderato del suo attuale Primo ministro Mohammed Khatami, sembra avviato a un processo graduale di riformismo democratico. La critica ai valori e alle istituzioni democratiche da parte dei fautori di un potere che trova il suo fondamento nei dettami religiosi si concentra essenzialmente sul fatto che la democrazia si basi sulle tendenze e sulle opinioni degli uomini, per loro natura fallibili; ma non mancano intellettuali musulmani che affermano con forza che proprio questa caratteristica sia l’elemento di forza di ogni sistema democratico consentendo agli uomini, mettendosi in discussione, di trarre beneficio dai propri errori10. La pratica del dubbio sistematico è infatti presupposto del progresso sociale che trova fondamento nei valori della democrazia moderna che vanno però interiorizzati gradualmente e non imposti manu militari.

La tecnica proposta è quella dell’interpretazione dei testi e della loro storicizzazione. La stessa sharîa, la legge islamica, applicata ortodossamente in diversi Stati e disattesa nella maggior parte dei paesi islamici moderni, non rappresenta l’Islam "ma l’interpretazione delle sue fonti basilari che è stata data in un determinato contesto storico"11. Dunque, per ragionare su una sua reinterpretazione occorre partire da quelle fonti e non imporre un sistema nuovo che, per quanto positivo, è visto come distante dalla propria storia e cultura. Così come la Chiesa Cattolica in Occidente si è laicizzata dopo secoli di fondamentalismo, anche l’Islam può fare lo stesso perché sia nel Corano che nella Sunna sono presenti i diritti fondamentali dell’uomo, oltre naturalmente a elementi discriminatori, per esempio relativamente alle condizioni della donna, che non mancano d’altronde anche nella Bibbia.



Note

1. Per saperne di più sui neoimperialisti americani si legga su questo stesso numero de "Il Dubbio" la nota di Ottorino Cappelli, Gli intellettuali di Bush vanno alla guerra. Guida alla lettura, pubblicato nel nuovo osservatorio internazionale EuropaMondo.

2. Si consigliano le stimolanti riflessioni di Alberto Asor Rosa nel suo, La guerra, Torino, Einaudi, 2003.

3. Considerazioni analoghe le fece anche Fareed Zakaria, direttore di "Foreign Affairs", in un articolo pubblicato nella sua rivista dal titolo, The Rise of Illiberal Democracy, n.6, 1997, su cui denunciava l’equivoco della leadership occidentale di identificare un regime democratico dal solo svolgimento di competizioni elettorali. [Per avere una panoramica generale del dibattito intellettuale negli Stati Uniti durante gli ultimi dieci anni del XX secolo si consiglia la lettura del saggio di Rita di Leo, Il primato americano. Il punto di vista degli Stati Uniti dopo la caduta del muro di Berlino, Bologna, Il Mulino, 2000].

4. Per scorrere gli sviluppi politco-economici dell’Iraq dagli anni Venti dello scorso secolo fino ai primi anni Novanta si consiglia la lettura del saggio di Pier Giovanni Donini dal titolo, Sviluppo industriale e rapporti sociali in Iraq, in Enrica Collotti Pischel (a cura di), La democrazia degli altri, Milano, FrancoAngeli, 1996.

5. Per questo excursus storico si consiglia l’interessante articolo di Gilles Kepel dal titolo, Il vaso di Pandora del Medio Oriente, su "La Repubblica" del 26 marzo 2003.

6. In realtà, malgrado la formale costituzione di un governo democratico, in Afghanistan la situazione è tutt’altro che risolta. Il governo di Kharzai è reso precario dalla scarsa legittimazione oltre ad essere profondamente colpito dal recente omicidio di un ministro; mentre nel paese si continua a combattere e proprio mentre scrivo queste righe arriva la notizia della morte di cinque marines americani a causa di un agguato talebano.

7. Interessanti a questo riguardo sono le riflessioni dell’etnologa Alessandra Persichetti in un articolo pubblicato su "La Repubblica" dell’8 aprile 2003, da titolo, Il mio amico Shadi kamikaze in Iraq.

8. A questo riguardo si leggano i due testi di Kepel tradotti in italiano dalla Carocci, Jihad: ascesa e declino, 2001 e L’autunno della guerra santa, 2002.

9. Queste riflessioni prendono parzialmente spunto dall’articolo di Paolo Branca pubblicato su "Il Mulino" n.1/2003 dal titolo, L’Islam oltre il fondamentalismo.

10. Si legga a questo riguardo il contributo del filosofo egiziano Fouad Zakariya in AA.VV., I fratelli musulmani e il dibattito sull’islam politico, trad.it. Torino, Fondazione Agnelli, 1996, p.140.

11. Tale rilettura della legge islamica è dell’intellettuale sudanese Abdullahi Ahmed an-Na’im, nel suo Toward an Islamic Reformation, Syracuse, N.Y., Syracuse Unversity Press, 1992, p.XIV.




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