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Note e Interventi

Le basi sociali dell'economia: una discussione in corso

di Roberta Iannone


Dalle origini della società moderna, la razionalizzazione è divenuta il tentativo costante della ragione di costruire l'oggettivazione del reale per informare di sé le scienze come l'agire concreto, individuale e collettivo. Di fronte all'accelerazione del mutamento sociale e delle relazioni interpersonali, della complessità delle tendenze e degli orientamenti individuali, come delle logiche e delle dinamiche di spiegazione del reale, il modello di razionalità nato con l'età moderna ha conosciuto un processo di progressiva astrazione. Nell'era tardo moderna, esso esce dalla storia semplificando e smantellando tutto ciò che non può rientrare nei suoi schemi interpretativi e si costituisce come dominio della razionalità in senso assoluto (Mongardini 1997). In particolare, nelle scienze sociali ciò ha significato visione unidimensionale della realtà e, per dirla con Morin, abbandono del cammino della conoscenza che si avrebbe soltanto qualora ci si esercitasse a un pensiero capace di trattare con il reale, di dialogare e negoziare con esso (Morin 1974, 10).

Ma quali sono le implicazioni della razionalizzazone economicista del pensiero e dell'azione?

Nel momento in cui la città degli economisti raggiunge dimensioni imperiali e la colonizzazione economica dal discorso politico passa, raggiungendole, alle scienze umane e sociali, come nota Ibrahim Warde (2000, 11), due opere affini si impongono per la capacità di contrastare l'egemonia di tali meccanismi concettuali e reali e di mettere in guardia dalle conseguenze più nefaste che da essi derivano: quella di Pierre Bourdieu, Les Structures sociales de l'économie (2000), e quella di Fréderic Lebaron, La Croyance économique: Les économistes entre science et politique (2000).

Entrambi gli scritti mostrano una finalità comune: la volontà di impedire che, scienza tra le scienze, l'economia ridisegni se stessa non più e non solo come "regina delle scienze sociali" ma come vera e propria "teologia contemporanea" (Bourdieu 2000, 5), capace di orientare il mondo e le scelte individuali.

Non si tratta di contrapporre griglie di lettura diverse, sociologiche ed economiche, ognuna delle quali in grado di ritrovare il proprio significato o qualche forma di coerenza soltanto in se stessa e, per questo, valida e inconfutabile perché non rapportabile a deduzioni di assunti di natura differente. Piuttosto, si tratta di tenere presente che solo un inserimento dell'economia nell'ambiente sociale e nella storia da cui proviene è in grado di dirci ciò che effettivamente essa è, mentre qualsiasi forma di separazione, tra loro, delle sfere di azione come delle conoscenze che sul reale si edificano, significa abbandonarsi a un'astrazione che consiste nel dissociare una categoria particolare di pratiche, o una dimensione particolare di ogni pratica, dall'ordine sociale nel quale ogni pratica umana è immersa (ibid.). Dunque, a separare le letture degli economisti da una parte e dei sociologi dall'altra è, in termini soltanto apparentemente paradossali, proprio ciò che unisce i fenomeni sociali a quelli economici. E' quel punto di congiunzione che, se negato o non adeguatamente considerato, può divenire facilmente fonte di contraddizioni, o comunque di implicazioni eterogenee, tanto sul piano teorico, quanto a livello reale ed empirico.

A livello teorico, inserendo l'economia nell'ambiente sociale da cui deriva, si riesce a scongiurare il pericolo di ambizioni egemoniche della teoria economica su quella sociologica, ma anche di quest'ultima nei confronti della prima. In questo senso, recuperando la rilevanza sociologica dell'ambito economico e l'importanza dell'azione economica come azione sociale, soprattutto attraverso la distinzione weberiana tra azioni economiche e azioni economicamente rilevanti (Weber 1958), si evita il rischio, altrimenti sempre incombente, di far derivare la teoria economica da quella sociale, come pure si è tentato, in passato, da parte del marxismo e del funzionalismo (Magatti 1990). Vale a dire di incorrere in un'impostazione teorica non corretta che si ha quando si opera una netta divisione tra i campi di studio ma anche quando l'uno intende egemonizzare l'altro.

Ma è sul piano reale che le implicazioni si fanno più marcate e rilevanti. Innanzitutto, eliminazione del sociale dall'economico è eliminazione di tutte le forme della socialità: è eliminazione del potere e del rapporto di dominio, perché si ritiene che sia il prezzo, a sua volta prodotto inevitabilmente corretto della domanda e dell'offerta, a fissare lo scambio di mercato; è esclusione della cooperazione, nella misura data dall'inaffidabilità dell'attore economico che persegue un utile individuale; è diffidenza nei confronti degli aspetti etico-valoriali dell'agire perché non necessariamente produttivi e potenzialmente fonte di dispendio, più che di economizzazione, delle risorse scarse disponibili. In altri termini, la scissione tra sfera economica e sfera sociale è, in questo caso, sterilizzazione delle passioni e conversione delle stesse in freddi interessi quali unici elementi che permettono alla riflessione economica di farsi tale e di rendersi autonoma dalle influenze esterne. E d'altra parte, come nota Hirschman (1979), il concetto di interesse, sviluppato dalla letteratura politica da Machiavelli in poi, presto ha finito col coincidere con l'idea di ordinata comprensione di quanto occorre per accrescere la propria potenza, influenza e ricchezza: in altri termini, di mera ricerca di vantaggi materiali ed economici.

Ad essere compromessa è, inoltre, la dimensione simbolica dell'agire economico. Come nota Lebaron (2001) riflettendo sull'ultimo scritto di Bourdieu, l'ordine economico è un ordine simbolico in quanto non esiste eterogeneità ontologica tra la sfera delle rappresentazioni e credenze e quella degli interessi economici, delle istituzioni e azioni. Recuperando gli insegnamenti di Durkheim (1971), e distaccandosi dalla tradizione teorica marxista, per Bourdieu è possibile parlare di un "ordine economico perché un genere specifico di credenza ed interesse è stato distaccato e reso autonomo dalla realtà sociale, guidando gli attori sociali a fare riferimento a criteri economici e a lasciare da parte altri tipi di criteri sociali, almeno per quanto riguarda determinati ambiti del loro agire" (ibid, 15). Ma nella realtà, né quest'ordine può essere scisso dalle effettività da cui proviene, né questi criteri possono escludersi a vicenda, se non a rischio di astrazioni fuorvianti perché infondate.

Nello stesso senso, il dominio economico è un caso particolare di dominio simbolico perché ciò che rende i dominati tali è il loro "guardare il mondo con gli occhi dei dominanti" (ibid., 32) e il fatto che i loro comportamenti siano profondamente determinati dalla relazione di dominio cui prendono parte. Così, lungi dal ridursi a conflitti per la spartizione del valore aggiunto, le classi sociali presentano una dimensione sociale imprescindibile: l'esistenza di una classe è il prodotto di una unificazione simbolica che si realizza sulla base di condizioni similari di esistenza all'interno di spazi sociali più vasti; analogalmente, le istituzioni, che rappresentano il modo dei gruppi di esistere pubblicamente, sono il risultato non soltanto di determinate pretese e richieste ma anche di rappresentazioni e lotte simboliche, discorsi e strategie.

Ma le conseguenze più gravi della messa tra parentesi di tutto il radicamento sociale delle pratiche economiche trovano nella sacralizzazione delle teorie economiche neoliberiste la loro più compiuta espressione. Gli strumenti utilizzati dai due autori per spiegare tali implicazioni sono differenti: Bourdieu realizza un'inchiesta sul mercato immobiliare nel val d'Oise, nella periferia parigina, dando un'interpretazione politica del campo economico mondiale cresciuto sulla deregulation, a tutto svantaggio dei ceti più deboli; Lebaron, scandaglia i meccanismi della professione economica e cerca di capire come le opposizioni sociali e scolastiche strutturino il campo economico. E, tuttavia, la conclusione alla quale giungono è la medesima: l'universalità astorica delle scienze economiche (in nome della quale assistiamo al predominio del calcolo interessato e della concorrenza senza limiti per il profitto) e la sua incidenza sull'utopia neo-liberista.

Ma in che senso, ed entro quali limiti, il neo-liberismo può dirsi prodotto di una economia pura, separata dal sociale? Generalmente quando si parla del movimento in direzione dell'utopia neo-liberista di un mercato puro e perfetto, si fa riferimento alla politica finanziaria e agli aspetti di deregulation. In effetti, "la mondializzazione dei mercati finanziari, coniugata con il progresso delle tecniche dell'informazione, assicura ai capitali una mobilità senza precedenti, e offre agli investitori la possibilità di raffrontare in permanenza il grado di redditività delle maggiori imprese, e quindi di penalizzare gli insuccessi. Dal canto loro le imprese, sottoposte a questa permanente minaccia, sono costrette ad adattarsi sempre più rapidamente, per non incorrere nella cosiddetta perdita di fiducia dei mercati, alle loro esigenze e a quelle degli azionisti; i quali, interessati alla redditività a breve dei loro investimenti, sono sempre più in grado di imporre la loro volontà ai manager, cui dettano norme attraverso le indicazioni finanziarie" (Bourdieu 1998, 5).

Tuttavia, le ragioni finanziarie non esauriscono la complessità delle cause della crescente liberalizzazione. Innanzitutto, a giocare il ruolo da protagonista, ci dice Bourdieu (2000), è la politica. Ciò che realmente conta per l'affermazione del neo-liberismo è l'adozione estrema di misure politiche liberali che contestano o ignorano le strutture collettive in grado di ostacolare la logica del mercato puro, quali: la nazione, la cui sovranità in materia finanziaria si riduce incessantemente; i gruppi di lavoro, attraverso l'individualizzazione dei salari e delle carriere professionali, con conseguente atomizzazione dei lavoratori; i collettivi di difesa dei lavoratori: sindacati, associazioni, cooperative; la stessa famiglia, destinata, con la costituzione di mercati per fasce d'età, a perdere il suo controllo sui consumi. E' colpendo le pareti delle strutture sociali dell'economia che, in altri termini, si gettano le basi del neo-liberismo.

Il tutto avviene, inoltre, in forza di un paradosso: quello per cui, mentre da un lato, ogni tentativo di impedire il nuovo ordine è tacciato di rigidezza e di arcaismo o screditato in partenza a tutto vantaggio dei meccanismi puri e autonomi del mercato, dall'altro, è solo grazie alla permanenza e sopravvivenza delle istituzioni del vecchio ordine in via di smantellamento, "di tutto il lavoro d'ogni categoria di operatori sociali, di tutte le solidarietà sociali, familiari e d'altro tipo che l'ordine sociale non precipita nel caos, nonostante la massa crescente della popolazione precarizzata" (Bourdieu 1998, 7).

Ma se il programma neo-liberale tende alla dissociazione tra economia e società, costruendo il sistema economico conformemente al modello di una macchina logica, razionale e asetticamente pura nei meccanismi che implica e che innesca, è perché esso stesso si costituisce come prodotto della dissociazione. La scissione tra sfera economica e sfera sociale contribuisce all'affermazione del neoliberismo essendo espressione di teorizzazioni che, anche qualora non condividano gli interessi economici e sociali che si profilano nel nuovo ordine o addirittura abbiano orrore di alcune delle sue conseguenze, prescindono dalla considerazione delle conquiste delle altre scienze, sociali e storiche; ma, soprattutto, si perdono dietro l'uso abusivo della matematica e l'oscurità di un gergo che, proprio mentre assicura parvenze di scientificità, esclude i non iniziati dal dibattito, esautora la politica e falsa l'interesse pubblico dietro le nuove formule matematiche della realizzazione umana.

Ciò che emerge, ci dice Bourdieu, è una amnesia della genesi, una vera e propria rivoluzione etica, un sovvertimento totale dei valori che porta alla beatificazione dell'economia pura, separata dal sociale. Parafrasando il pensiero di Marx a proposito di Hegel, a realizzarsi è una confusione e una discordanza tra le cose della logica e la logica delle cose, un vero e proprio scarto strutturale che fa sì che l'economia diventi un campo riservato governato da leggi naturali e universali che i governi non devono contrariare con interventi intempestivi. Ma, come nota Benjamin R. Barber, una concorrenza capitalista più o meno leale ha cominciato a esistere solo sotto l'occhio vigile dei governi democratici che praticavano politiche di tipo keynesiano. Abbandonati a se stessi, i mercati sono incapaci di giungere a tale risultato (Barber 1998). Dunque, in un'epoca di deregulation e di arretramento delle strutture sociali dell'economia, come dello Stato, la vitalità competitiva dei mercati è più minacciata che mai.

A questa stessa concezione naturalistica del mercato e del modello occidentale fa riferimento Gorge Friedman, direttore di un istituto americano di pronostici a uso delle imprese, quando nota che : "L'ideologia del nuovo ordine mondiale presuppone che non vi siano più luoghi diversi, che tutte le persone ragionevoli si comportino allo stesso modo…Si crede che basti una maggiore prosperità per far sì che tutti diventino più simili tra loro e perché la democrazia liberale si affermi" (Friedman 1988, 3). Ma questa naturalezza quasi deterministica dei processi di sviluppo è un'utopia, come il crollo russo e la crisi dell'America Latina dimostrano.

Le ragioni che impediscono a Paesi arretrati di decollare e di realizzare la propria crescita economica semplicemente imitando l'esperienza dei pionieri, sono state studiate a fondo. Date differenti tradizioni, istituzioni e condizioni delle forze politiche e sociali, le stesse cause, anche di natura economica, non producono necessariamente le stesse conseguenze. Come nota Serge Halimi, la storia è piena di esempi che dimostrano che tradizione e modernità non tendono a escludersi a vicenda quanto, piuttosto, a sovrapporsi; che le società moderne conservano a lungo il segno dei loro diversi itinerari, e che a una stessa sfida raramente si sono date le stesse risposte (Salimi 1998).

L'economista austriaco Joseph Schumpeter ha riassunto questa lezione in una sola frase: "I comportamenti sociali, i tipi e le strutture sono monete che non si fondono facilmente. Una volta coniate persistono a volte per secoli" (1995, 23). Eppure, nonostante tanti contributi, storici e teorici, l'idea che la società possa divenire argilla plasmabile dalle leggi dell'economia continua ad affermarsi fino a divenire vera e propria ideologia: "l'economia come ideologia ci porta ad un livello più astratto di rappresentazione sociale e costituisce al tempo stesso l'estremo e più oggettivo tentativo della cultura moderna di costruire una società ideale attraverso il principio puramente quantitativo dell'interesse e del calcolo" (Mongardini 1997,11).

 

Riferimenti bibliografici

Barber B., Cultura McWorld contro democrazia, in "Le Monde Diplomatique", settembre 1998

Bourdieu P., Les structures sociales de l'économie, Parigi, Seuil, 2000

Bourdieu P., L'essenza del neoliberalismo, in "Le Monde Diplomatique", marzo 1998

Durkheim E., La divisione sociale del lavoro, Milano, Ed. Comunità, 1971

Friedman G., Russian Economic Failure Invites a New Stalinism, in "International Herold Tribune", settembre 1998

Halimi S., Il naufragio dei dogmi liberali, in "Le Monde Diplomatique", ottobre 1998

Hirschman A., Le passioni e gli interessi, Milano, Feltrinelli, 1979

Lebaron F., La Croyance économique:les économistes entre science et politique, Paris, Seuil, 2000

Lebaron F., Toward a New Critique of Economic Discourse, in "Theory, Culture and Society", London, Thousand Oaks and New Dehli, Sage, maggio 2001, vol.18, pp.123-29

Magatti M., (a cura di), Azione economica come azione sociale, Milano, FrancoAngeli, 1990

Mongardini C., Economia come ideologia, Milano, Franco Angeli, 1997

Schumpeter J., Capitalismo, Socialismo e Democrazia, Milano, Ed. Comunità, 1995

Warde I., Quel che la scienza economica non dice, in "Le Monde Diplomatique", settembre 2000

Weber M.., La metodologia delle scienze sociali, Torino, Einaudi, 1958





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